“Il membro del congresso Patrick Kennedy afferma che non c'è giorno in cui qualcuno non gli racconti la storia di dove si trovava quando uccisero suo zio Jack. Di quanto la gente sia ansiosa di ricordare le proprie storie, come se dopo tutti questi anni cerchino ancora di afferrarne il senso. Pur tuttavia egli afferma di capire l'importanza della mitologia, e il modo in cui le storie non si limitino a preservare i miti, ma aiutino a collegarli al mondo in generale. E che a volte è proprio il ri-raccontare quelle storie a creare uno scopo. Che il collocarsi al loro interno rende le cose leggermente meno insensate. Patrick Kennedy, che non sarebbe nato prima di altri quattro anni dall'esplosione di quei proiettili, è divenuto parte della storia” (Adam Braver, Dallas, 22 novembre 1963, pagg. 75-76).
Forse sta in questo passo la chiave di lettura di un romanzo che ho finito di leggere da pochi giorni e che mi è piaciuto davvero molto. In una recente intervista Adam Braver, l'autore, ha dichiarato di aver scritto un libro “about mythology, myth making, and memory”. E lo sappiamo: i Kennedy appartengono più al mito che alla Storia. Braver ha provato a collegare quel mito al mondo immaginando “what was going on off-stage, the private moments in the wings”: il dietro le quinte di quel 22 novembre 1963 a Dallas, insomma. Il fulcro della narrazione è la figura tragica di Jacqueline Bouvier Kennedy, Jackie.
Jackie che non vuole togliersi di dosso quel tailleur rosa di Chanel sporco del sangue del marito ("I want them to see what they have done to Jack"); Jackie che, per il bene del paese, dovrà presenziare, sull'Air Force One, al giuramento del nuovo Presidente, Lyndon Johnson, che la vuole al suo fianco (“- Se solo Johnson avesse fatto il suo lavoro, - dice O'Donnell, - tenendo sotto controllo il Texas come avrebbe dovuto fare, allora... Se solo avesse fatto quel che doveva fare. - Indegno, - dice lei. Una parola semplice, sprezzante”); Jackie che non vuole cedere perché “deve assolutamente restare aggrappata a Jack ancora un po'”; Jackie la First Lady, “il titolo cui ha cercato di resistere. Non voleva infilarsi nei panni di qualcun altro. Ma adesso il pensiero di non averceli più – di non essere la First Lady – sembra addirittura peggio. Come glieli avevano gettati addosso, adesso glieli sottraevano, con altrettanta facilità. Gli uomini di Johnson minimizzeranno il suo ruolo il più in fretta possibile. La vorranno vedere scomparire. Dileguarsi con un respiro in un freddo mattino.”; Jackie, che alla fine cede, solo per i figli (“Lo farò per i miei figli. E non mi cambio d'abito. Niente sfilate.”), perché sappiano che il loro padre non può andarsene tanto facilmente; Jackie che ci metterà un'eternità a percorrere un breve tragitto all'interno dell'aereo, dalla sua stanza da letto (sua e di Jack: ci sono ancora i suoi capelli, sul cuscino) alla suite presidenziale dove l'attende Johnson: lo fa con il corpo intorpidito, mentre le torna in mente un'espressione letta in un romanzo o sentita in un film, con passo spagnolo (“Quando un marinaio condannato, legato e imbavagliato, è costretto a camminare lungo un'asse sporgente dalla murata della nave finché il suo peso non lo fa precipitare in mare”). E' con passo spagnolo che Jackie si incammina verso la ragion di stato, con indosso quel tailleur di Chanel imbrattato di sangue.
Capito cos'ha combinato Adam Braver? C'è chi l'ha accusato di immoralità (Carolyn See sul Washington Post - Dallas: Still Too Fresh for Fiction): un conto è lavorare su Abraham Lincoln (e Braver l'ha pure fatto), un presidente assassinato un secolo e mezzo fa; altra cosa parlare di John F. Kennedy. Caroline, la figlia del Presidente e di Jacqueline Bouvier, è ancora viva: come si possono inventare ben due telefonate in cui Lyndon Johnson sembra flirtare con Jackie, vedova da pochi giorni, senza pensare a Caroline? Ma come si è potuto pensare di mettere le mani - è questa la domanda, alla fine - in quella che è memoria personale ancora dolorosa per moltissimi americani con lo scopo di ricavarne della fiction? Perché si sa: every American remembers where he or she was when the assassination occurred. But don't we all know that already?
Secondo me il voyeurismo di Braver (come potrebbe non esserci del voyeurismo, in un'opera come questa?) è ampiamente riscattato da una pietas dolentissima e dall'assenza più assoluta di qualsiasi retorica e sensazionalismo: “We always understand the assassination in terms of what it meant to the country and its sense of identity, but I really wondered about it at the most personal level (which perhaps in fact was a mirror for the country)”.
Ricercando questa rappresentazione at the most personal level, lo scrittore scende dal mondo dei Grandi (Jackie, Lyndon Johnson, Bobby Kennedy) giù giù fino ai ricordi e alle emozioni di Bobby Hargis, motociclista nel corteo presidenziale di quel giorno a Dallas (“Quando il Presidente Kennedy si drizzò a sedere nell'auto, il proiettile lo colpì in testa, il proiettile che lo uccise; e la testa come gli eplose, e io mi ritrovai tutto imbrattato di sangue e di cervello, una specie di acqua sanguinosa. Non era vero sangue”), di Abe Zapruder, che filmerà la morte di JFK con una cinepresa Bell&Howell 414 DP realizzando così la più famosa ripresa amatoriale della Storia, o di Vaughn Ferguson, responsabile della manutenzione della Lincoln Cosmopolitan su cui il Presidente andò incontro alla morte. E non sono, questi, gli unici private moments off-stage che Adam Braver ha immaginato (ma sembrano più veri del vero).
Ne è uscito un romanzo corale, caleidoscopico, di straordinaria forza e leggibilità. Caldamente consigliato dal vostro affezionatissimo tic.
2 commenti:
Questo post non interessa a nessuno.
Come consiglio di lettura è gratis, comunque...
Posta un commento