venerdì 26 dicembre 2008

Parigi o cara




Domani - con mia moglie E., Barbie e Dandi - parto per Parigi.
Saranno, per quanto mi riguarda, sette giorni di assoluta flânerie

(vedi, tra gli altri, Il flâneur, di Edmund White, Guanda: una letturina agile e assai simpatica): la voglia di perdersi non manca, la curiosità nemmeno (comme d'habitude).
Mi saranno compagni di viaggio e di vagabondaggio Un dramma davvero parigino e altri racconti, di Alphonse Allais; Il capolavoro sconosciuto, di Honoré de Balzac; Nebbia sul ponte di Tolbiac e Trilogia nera di Léo Malet.

Il ritorno è previsto per il 3 gennaio del prossimo anno.
Questo povero blogghe, perciò, riaprirà i battenti quel giorno lì, o domenica 4. Forse vi racconterò qualcosa delle mie passeggiate parigine, forse no. Intanto, buona fine e buon principio a tutti voi.
Vi voglio bene (ma solo se anche voi mi volete bene, altrimenti andate pure affanculo).




P.S.

“L'Inghilterra ha costruito Londra per il proprio uso, ma la Francia ha costruito Parigi per il mondo intero.”

(R.W. Emerson)

giovedì 25 dicembre 2008

And so this is Christmas...


Nello scontro di civiltà in corso alla fine vinceranno i mussulmani. Non riesco proprio ad immaginare come potreste dubitarne, dopo aver visto questa foto. السلام عليكم

mercoledì 24 dicembre 2008

Riceviamo e volentieri pubblichiamo




NATALE A SUTRIO
borghi e presepi
20.12.2008 / 07.01.2009



Mi piacerebbe incontrarti a Sutrio per visitare la rassegna e intanto ti auguro un sereno natale e un felice anno nuovo.

Enzo Marsilio

“Teno”, “Vuiti” e “ Sciore Marie”

A Sutrio vissero personaggio come Teno, Vuitti e Siore Marie, maestri artigiani che dedicarono una vita alla costruzione del loro progetto, lasciando un vero spaccato etnografico della vita di Sutrio. Teno ha voluto che la sua camera ardente fosse allestica accanto al suo presepio, Vuitti aveva scolpito sulla porta di casa la falce e il martello e in bottega, giorno dopo giorno, costruiva le sue attività, Siore Marie nelle sue figure faceva rivivere le bambine del paese usando le loro ciocche di capelli. Piccole grandi storie che ancora oggi altri artigiani continuano a raccontare in una rassegna chiamata “Borghi e Presepi”.



Mi è arrivata 'sta cosa via mail dal gruppo regionale del famoso Partito Democratico e ho deciso di pubblicarla come sta e giace (intendo, con gli errori d'ortografia e tutto).
Il mittente, Enzo Marsilio, ex assessore all'agricoltura della giunta Illy, attualmente è consigliere regionale del PD.
Egli mi vorrebbe a Sutrio, in Carnia, a visitare la leggendaria rassegna denominata “Borghi e Presepi”.
Lo ringrazio di cuore per il suo grazioso auspicio, ma non andrò. Non riesco infatti ad immaginare niente di più orribilmente patetico, sotto le feste, che andar per presepi in giro per il Friuli. E non c'entra un prispolo il fatto che sono ateo, credetemi.
E poi Sutrio, via... Santissimi numi, Sutrio... Dei dell'Olimpo, Sutrio...
Mi piacerebbe poter scrivere, alla Fortebraccio, che Enzo Marsilio è nato a Sutrio unicamente perché da qualche parte bisogna pur nascere. Mi piacerebbe, ma non posso proprio farlo. Perché, in tutta evidenza, Enzo Marsilio è orgogliosissimo di esserci nato, a Sutrio (sennò, perché invitarci tutti quanti colà?). Quella stessa Sutrio che io considero uno dei luoghi più deprimenti della Carnia, che già di suo è uno dei luoghi più deprimenti dell'universo mondo.
Comunque, prendo atto del fatto che a Sutrio “vissero personaggio (sic, n.d.r.) come Teno, Vuitti (ma più sopra 'Vuiti', n.d.r) e Siore Marie (altimenti detta 'Sciore Marie', n.d.r.), maestri artigiani che dedicarono una vita alla costruzione del loro progetto, lasciando un vero spaccato etnografico della vita di Sutrio”.
In particolare, mi sarebbe piaciuto un sacco conoscere Teno, la cui camera ardente fu “allestica (sic, n.d.r.) accanto al suo presepio”.



P.S.
Io e mia moglie E. stiamo ridendo da tre ore come pazzi. Abbiamo le lacrime agli occhi. Aiuto!

La canzone prima della canzone


The Song Before the Song (sottotitolo: Early and Original Versions of Classic Songs That Shaped Popular Music 1920's-1950's) è il disco più divertente che ho ascoltato nel 2008. No contest.
Non è roba di quest'anno, a dirla tutta, ma questo non vuol dire proprio niente di niente e vorrei anche vedere: in primis perché me lo so' accattàto solo tre mesi fa, 'sto prodigio di cd, e in secundis perché la musica che vi è contenuta non potrà mai essere nuova, né attuale, né di moda (ma non potrà mai nemmeno passare di moda: tiè!). Ed è proprio per questo, alla fine, che a The Song Before The Song ho voluto e voglio un sacco di bene.
Se masticate un pochino (giusto un pochino) l'inglese magari avrete intuito (dal sottotitolo di cui sopra) de qué hablamos...
Di canzoni, sì. Ma mica di canzoni qualsiasi, sapete? Quelli della Viper Label di Liverpool sono degli assi ad inventarsi delle compilation e in questo caso ne hanno assemblata una che pare un fuoco d'artificio: “songs that shaped popular music”, canzoni che hanno dato forma alla musica popolare, certo, e che hanno “inspired and influenced artists, covering them almost exactly or taking elements and molding it into their own version”.
In The Song Before The Song, per dire, ci trovate Baby Please Don't Go di Big Joe Williams (quante cover ne conoscete?), My Baby Left Me di Arthur 'Big Boy” Crudup (rifatta da Elvis. E pure dai Creedence Clearwater Revival di Cosmo's Factory), Diddie Wah Diddie di Blind Blake (è la canzone che chiude Paradise And Lunch, che poi sarebbe uno dei dischi più belli – il più bello? - incisi negli anni Settanta da quello straordinario stilista della musica roots statunitense che è Ry Cooder), la versione di Josh White di House Of The Rising Sun, a.D. 1944 (incisa da Dylan nel suo primo album e, due anni dopo, dagli Animals), Gallis Pole nella versione registrata nel 1939 da Leadbelly (io ce l'ho pure nella versione Folkways di Fred Gerlach, del 1962; voi magari la conoscerete come Gallows Pole, da Led Zeppelin III, 1970. La fonte, per Jimmy Page, fu la versione di Gerlach, comunque, non quella di Leadbelly), I'm A Man Of Constant Sorrow, Emry Arthur, 1928 (l'avete presente, sì? Gli Stanley Brothers, Bob Dylan, persino Rod Stewart e su su fino alla colonna sonora del capolavoro dei fratelli Coen, O Brother, Where Are Thou?), la Hound Dog di Big Mama Thornton poi cantata da Elvis (e scritta da dagli immensi, ma davvero, Jerry Leiber e Mike Stoller: "JEWISH TEEN DUO WRITE NONSENSE SONG FOR BLACK R&B SINGER - DISGUSTING". Simpatica, questa, no? Funzionava così, negli Stati Uniti del 1952, ovvero tanti, tanti anni prima di Obama).

Tutto questo per restare sul versante 'cover'. Se poi volete capire cosa significa, ehm, “ispirarsi” a una canzone scritta da qualcun altro, ci sarebbe la fa-vo-lo-sa Bull Doze Blues di Henry Thomas, del 1928, a cui i Canned Heat appunto si “ispirarono” (ma parliamo pure di una re-invenzione, come fa Steve Hardstaff nel documentatissimo libretto che accompagna il cd...) per la loro Going Up The Country.
Fate in modo di ascoltarlo, 'sto gioiello, dai: lasciatevi servire dal povero tic. E' decisamente un must se il rock'n'roll (e quindi il blues e il R&B, il country and western e l'hillbilly music, e in definitiva il folk americano in tutte le sue molteplici forme) fa, in qualche modo, parte della vostra vita. Della mia fa decisamente parte, per fortuna: perché me l'ha salvata.



P.S.
Su Viper Label di 'sti prodigi ne trovate a pacchi.
Ad esempio Banged Up. American Jailhouse Songs 1920's – 1950's, una compilation che prova a raccontare “the prominence of the prison song” nella musica americana. Si apre con Riot In Cell Block Number Nine dei Robins e si chiude con Folsom Prison Blues di Johnny Cash (I shot a man in Reno just to watch him die...) passando per Jimmie Rodgers, Bukka White, Big Maceo Merriweather, i Delmore Brothers, Bessie Smith, Richard Berry, Gene Autry e insomma per la crema della crema della musica americana del Ventesimo secolo.

E quest'anno, a maggio, è uscita un'altra bella robina che si intitola Up Jumped The Devil. American 'Devil' Songs 1920's – 1950's, “tales of temptation, nightmare, possession and pure devilish fun” narrate da tipini come come Gene Vincent (Race With The Devil), Screamin' Jay Hawkins (Little Demon), Skip James (Devil Got My Woman. Che altro, sennò?), i Clovers (quel doo wop da sogno che è Devil Or Angel), gli Almanac Singers (Get Behind Me Satan), Sister Rosetta Tharpe (The Devil Has Thrown Him Down), Washboard Sam (She Belongs To The Devil), Otis Spann (l'arrembante I'd Rather Be The Devil, una delle mie canzoni da isola deserta) e tal Robert Johnson (Early this mornin' when you knocked upon my door/ Early this mornin' when you knocked upon my door/And I said Hello, Satan, I believe it's time to go). E scusatemi, scusatemi tanto per tutti questi titoli ma mi pareva bello finire con il diavolo, la vigilia di Natale.

martedì 23 dicembre 2008

Fenomeni della modernità

Ecco uno che il calo del desiderio non sa proprio cosa sia.


Sempre a parlare di sesso, sta: e i preservativi e i rapporti prematrimoniali e Ogino-Knauss e gli atti contro natura... L'ultima fissazione di 'sto vecchio sporcaccione sono i trans.
Che roba!


domenica 21 dicembre 2008

Ritrarre la memoria

“When I was eighteen, Uncle Sam told me he’d like me to put on a uniform and go off to fight a guy by the name of Adolf. So I did.”
La più bella storia a fumetti che ho letto quest'anno (e una delle più belle che io abbia mai letto) è (il primo volume de) La guerra di Alan di Emmanuel Guibert.
Si tratta innanzitutto della storia di un amicizia: quella tra l'autore e Alan Ingram Cope.
Nella prefazione Guibert ne ha parlato così: “Quando ho incontrato Alan COPE aveva sessantanove anni e io trenta. Non sapevamo che avremmo avuto solo cinque anni per essere amici, ma ci siamo comportati come se lo avessimo saputo. Come diceva Alan, non abbiamo perso tempo. Siamo stati molto insieme. Ci siamo scritti e telefonati centinaia di volte. Ci siamo coperti di libri, disegni, cassette. Abbiamo fatto giardinaggio. Abbiamo cucinato. Siamo andati in bicicletta. Abbiamo suonato il piano. Fatto compere”.
Per Alan era importante raccontare, per Emmanuel ascoltare.
“Raccontava la sua vita. Aveva una memoria docilissima che lo portava dove voleva lui. Lo portava in California, la California della sua infanzia e della sua adolescenza. In Europa, durante la guerra. Ovunque fosse stato e avesse vissuto. (...) Quello che mi parlava era un vero scrittore. Lo ascoltavo e lo guardavo con rispetto. Anche dopo aver spento e riposto il registratore, sulla strada di casa, rivedevo quell'uomo tutto raggiante del suo passato ed ero felice di potergli stare accanto”.
Emmanuel Guibert, disegnatore di fumetti, decise un giorno di ritrarre la memoria di Alan Cope (uno che del disegno aveva un'altissima opinione. E che amava i fumetti...). E lo fece: a volte illustrando i ricordi del vecchio così fedelmente che entrambi ne rimanevano turbati, altre volte deformandoli. In entrambi i casi, Cope “era felicissimo. E fiero”. Perciò, per il suo racconto da vero scrittore, scelse solo “momenti veri, non interpretati, colti per quel che hanno di autentico”.
La guerra di Alan è un memoir grafico straordinario. In questo primo volume (uscito In Francia nel 2000, otto mesi dopo la morte del vecchio) si racconta dell'addestramento militare di Alan negli Stati Uniti, a Fort Knox prima e a Fort Benning poi, tra il 1943 e il 1945. Negli altri due volumi (che Coconino Press pubblicherà. Presto, si spera) sarà della sua guerra in Europa che si racconterà.
Non so se può dirvi qualcosa, ma il lavoro di Emmanuel Guibert a me ha ricordato, in qualche modo, Band of Brothers, quella bellissima serie televisiva in dieci puntate prodotta da Steven Spielberg e Tom Hanks e ispirata da un lavoro di Stephen Ambrose, Band of Brothers: E Company, 506th Regiment, 101st Airborne from Normandy to Hitler's Eagle's Nest, del 1992. La conoscete? Forse si trova ancora in giro, per 80 euro (o su di lì), in un cofanetto con 6 dvd.
Un pezzo di storia della tivù, e non solo di quella americana. Accattàtevelo, s'il vous plait.
Nella sua prefazione al testo Guibert (autore che è particolarmente incline a misurarsi con la storia: fin dal suo debutto, Brune, del 1992) ci tiene però a precisare che quella de La guerre de Alan non è assolutamente una ricostruzione storica: “Mi documento poco. Cerco essenzialmente le immagini che il suo racconto ha suscitato in me quando l'ho ascoltato per la prima volta. Sono state quelle immagini a farmi venire voglia di lavorare”.
E ne è uscito un vero capolavoro, sapete? Delicato (come il disegno, sospeso tra ligne claire e realismo) e commovente, volutamente antiepico. Il primo volume comincia il giorno in cui venne bombardata Pearl Harbor (Mi ricordo le espressioni stupefatte, sconvolte. Quanto a me, non avevo la minima idea di cosa fosse PEARL HARBOR) e finisce con lo sbarco di Alan in una Le Havre completamente distrutta dai bombardamenti (Il sergente ci faceva fermare spesso per prendere fiato. E' stato durante una di quelle soste che STANLEY, il tipo che era di fianco a me, mi ha detto: “Ehi, Cope, ce ne ricorderemo di questo 19 febbraio!”. “E' il 19 febbraio?”. “Sì”. “E' il mio compleanno. Ho vent'anni”).
Vent'anni.
“Alan è nato in California nel 1925. Io sono cresciuto nel sud della Francia negli anni Settanta. Le nostre palme sono simili. Ovviamente io non ho fatto la guerra, ma il mio bisnonno è stato nello Chemin des Dames, mio nonnno Dunkerque, mio padre in Algeria. La guerra non è mai lontana da nessuno”.

sabato 20 dicembre 2008

Una parola che mi piace

“In Campania il presidente della commissione Affari istituzionali (dell'Udeur, ndr) ha l'obbligo di dimora ed è parente di camorristi. Qualcuno gli ha mai chiesto le dimissioni? La verità è che in Campania la parola dimissioni è impronunciabile”. Così Massimo Brutti, ieri, alla direzione nazionale del famoso PD. E' di Antonio Bassolino (e ad Antonio Bassolino), ex mito della sinistra post comunista (ma post tutto, in realtà...), che Brutti parlava: è Bassolino (che non si vuole dimettere, manco per il ciufolo) il problema, per Massimo Brutti (e per W. V.).
Ma si sbaglia, il Brutti. Si sbaglia. Perché non solo in Campania la parola 'dimissioni' è ormai impronunciabile. Nel resto d'Italia è uguale e infatti non si dimette mai nessuno. Perché c'è un bel po' di gente, in giro, che si sente indispensabile? Può essere, può essere...

Io conosco un sacco di persone che fanno politica. E penso che molte di esse avrebbero fatto bene a rassegnare le dimissioni giusto un attimo prima di entrarci, in politica: per manifesta coglioneria, per ignoranza immedicabile (immedicabile in quanto orgogliosamente esibita, perché ritenuta un titolo di merito presso il popolo, o meglio presso la gente), per mancanza di senso del limite, di sobrietà, di discrezione e di umiltà. Solo che se non son buoni a dimettersi dopo aver (inevitabilmente...) combinato dei disastri, cazzo vuoi che si dimettano prima? Quindi, ma che mi arrabbio a fare, ostia? Son proprio un fesso.
E insomma, si sta parlando molto di dimissioni, in questi giorni.
Ieri Francesco Merlo, sulla solita Repubblica, in un editoriale (all'uopo intitolato Il paese senza dimissioni), ha ricordato il caso di De Gaulle, che si dimise per amor proprio: “andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «E' un piacere ascoltare il silenzio di quest'uomo».

L'aneddoto lo conoscevo...



P.S.
Dimissione significa rinuncia: a una carica, a un ufficio, a un impiego. Mi viene in mente, adesso, una cosa che ha scritto Canetti: "La fierezza del rinunciare può essere stata molto grande, ma ogni cosa a cui si è rinunciato si vendica".
Ecco, magari quelli che non si dimettono (ma manco per il ciufolo...) tutto questo lo sanno benissimo (lo sanno istintivamente?) e se non si dimettono è solo perché hanno paura della vendetta di ogni cosa a cui potrebbero rinunciare dimettendosi.
Voi che ne dite?

mercoledì 17 dicembre 2008

Primarie, primarie!

Alba Parietti vorrebbe candidarsi alle primarie per la segreteria nazionale del famoso Partito Democratico: “Vista la comatosa situazione del partito, non escludo che alle prossime primarie, tra quattro anni o comunque quando si svolgeranno, io possa concorrere”.
Grande Alba!
Qui di seguito, un elenco di autorevoli personalità che, pure loro, non escludono di poter concorrere alle prossime primarie per la segreteria nazionale del famoso Partito Democratico, tra quattro anni o comunque quando si svolgeranno.




Tarzan; gli Iron Maiden; l'Uomo Lupo; Lupo Alberto; Ezechiele Lupo; Lupo De Lupis; l'Olandese Volante; Zagor; il conte di Carmagnola; l'Adelchi; Toquinho; Gino Paoli; Aldo Maccione; la dottoressa del distretto militare; Moira degli elefanti; Lassie; Francis il mulo parlante; Furia, il cavallo del West; Mal dei Primitives; JR Ewing; Sue Ellen Ewing; Loretta Goggi che imita Sandra Mondaini; Il Mostro della Laguna Nera; Rambo I; Rambo II; Rambo III; Rambo IV; Rocky I; Rocky II; Rocky III; Rocky IV; Rocky V; Chavez; monsignor Milingo; Nonna Papera; Pippo l'ippopotamo; Pancho Pardi; Pancho Villa;Leopoldo Mastelloni; Clemente Mastella; la Mummia; il Maestro Yoda; Mastro Lindo; Mastro Don Gesualdo; i Malavoglia; Scaramacai; Belladonna.

martedì 16 dicembre 2008

Quello dei Brutos

Le elezioni regionali in Abruzzo hanno visto il famoso Partito Democratico scendere (crollare...) al 20% dal 34 che aveva raggiunto alle politiche.
L'editoriale di Edmondo Berselli (uno fine, uno che stimo) su la Repubblica di oggi ha il sapore di un de profundis.
Ne riporto qualche passaggio significativo.



NESSUNO a sinistra si faceva illusioni sul risultato delle elezioni regionali in Abruzzo. Ma, di fronte ai numeri che si profilano via via che affluiscono i dati, cresce la sensazione che il voto abruzzese non rappresenti un esito soltanto locale, e nemmeno solo il risultato fisiologico dello scandalo nella Sanità che ha coinvolto il presidente Ottaviano Del Turco e ha abbattuto il governo regionale di centrosinistra. Il primo e plateale dato da mettere in rilievo, infatti, è la caduta della partecipazione al 53 per cento, quasi trenta punti al di sotto delle ultime consultazioni politiche e quindici rispetto alle precedenti elezioni regionali.
Dunque occorre prendere atto che la sinistra vede profilarsi una rottura impressionante con il proprio elettorato. Giustificato in larga misura dalla vicenda giudiziaria in cui è rimasto implicato Del Turco: ma come dimenticare, allora, che anche in altre regioni a maggioranza di sinistra, come in Toscana e in Campania, la questione di legalità potrebbe incrinare il consenso più consolidato? Ce ne sarebbe abbastanza per lanciare un allarme severo, se non fosse che il voto abruzzese mette in rilievo fattori stridenti soprattutto per il Pd. Il partito di Walter Veltroni perde in percentuale circa 11 punti (mettendo nel conto la lista territoriale dei Democratici per l'Abruzzo), rispetto alle politiche: si tratta di una caduta scontata, in cui si sommano ragioni locali e la perdita di velocità al livello nazionale, ma la cui ampiezza potrebbe avere ripercussioni anche al vertice del partito, a dispetto degli sforzi di compattamento sperimentati negli ultimi giorni. Il fatto è che il voto in Abruzzo mette allo scoperto le numerose incertezze e tutti i possibili punti di crisi del Pd. In queste elezioni regionali infatti si era varata un'alleanza simile all'Unione, ossia estesa fino ai partiti della ex Sinistra Arcobaleno: una geometria variabile necessaria sul piano regionale, e consentita dalla separazione "consensuale" praticata prima delle elezioni di aprile della scelta più o meno solitaria di Veltroni, ma che comunque non apporta elementi di chiarezza nella strategia politica complessiva del centrosinistra. A maggior ragione se l'alleato più scomodo, cioè l'Italia dei Valori di Antonio di Pietro, dopo avere ottenuto la guida della coalizione con Carlo Costantini, ha raddoppiato i propri voti rispetto alle elezioni di aprile (e quasi sestuplicato i consensi rispetto alle regionali del 2005). Si profila quindi l'esasperazione della partnership rivale fra Di Pietro e il Pd, al punto che, a partire dalla direzione dei Democratici del 19 dicembre, potrebbe porsi il dilemma di un'alleanza squilibrata, in cui l'Idv attacca a trecentosessanta gradi con la sua durezza giustizialista, e il Pd prende tutte le botte, anche quelle destinate più generalmente alla politica, all'illegalità, ai "corrotti".
Terribile, 'sta immagine del Pd che si prende tutte le botte. Terribile.
In effetti il Partito Democratico a me ricorda sempre di più Gianni Zullo.
Era quello dei Brutos che veniva eternamente preso a schiaffoni, avete presente?

domenica 14 dicembre 2008

Intellettuali, vil razza dannata!

Cosa salvereste tra l'ultima copia al mondo di un'opera di William Shakespeare e la vita di un uomo?
Woody Allen, in Bullets over Broadway, metteva in bocca a un suo personaggio questa domanda.
Bene, fate conto che lo chiedano a voi: c'è qualcuno tra voi che, prima di rispondere, domanderebbe il nome dell'uomo da salvare? Perché io...
Voglio dire (se non si fosse ancora capito...), tra l'ultima copia al mondo di Macbeth e 'sta roba qui sotto, voi cosa scegliereste?
E tra il Riccardo III e 'sto coso (cosetto, via...)?

venerdì 12 dicembre 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.47)


"Del resto sono sempre gli altri a morire."

(Marcel Duchamp - epitaffio sulla sua tomba a Rouen)

giovedì 11 dicembre 2008

Comica finale

C'è una quinta dimensione, oltre a quelle che l'uomo già conosce.
É senza limiti come l'infinito, e senza tempo come l'eternità:
è la regione intermedia tra la luce e l'oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l'oscuro baratro dell'ignoto e le vette luminose del sapere.
É la regione dell'immaginazione, una regione che si trova ai confini della realtà.


Leggete un po' cosa ha scritto Antonio Socci su Libero di ieri, mercoledì 10 dicembre (ringrazio mia moglie per la segnalazione).
Il titolo in prima pagina: Pansa rivela: «Ora ho bisogno di Dio». Il titolo a pagina 28: Pansa rompe un altro tabù «E ora ho bisogno di Lui».
E son cose ghiotte.


Giampaolo Pansa non finisce mai di stupire. E' appena uscito “Tracce” (il mensile di Comunione e liberazione) dove si trova una sua commovente confessione personale sul Natale. Prende spunto da due citazioni di Benedetto XVI e di don Luigi Giussani, la cui frase, scrive Pansa, «va dritto al cuore, non solo all'intelligenza. Mi ci ritrovo tantissimo, come mio modo di essere».
Prima Pansa ha rievocato la sua infanzia, quando faceva il chierichetto. Poi è venuto al suo presente di grande giornalista laico. Confida: «Oggi, la sera, quando vado a dormire, con mia moglie preghiamo i nostri genitori». Diverse volte, negli anni scorsi, Giampaolo mi ha raccontato questo suo gesto di religiosità laica, compiuto da non credente. Da sempre i popoli hanno sentito i propri avi come intermediari col Mistero. Stavolta però, su “Tracce”, Pansa ha aggiunto qualcosa di più e di stupefacente. Dice che con sua moglie parla di Dio, «ma non di un Dio anziano, col barbone. No, di un Dio bambino, buono tenero. Penso a Dio con quelle fattezze, perché mi sembra più disposto a perdonare le mie sciocchezze, i miei peccati».
Già qui Pansa coglie, istintivamente, il cuore del cristianesimo. E aggiunge: «Ho sempre pensato che ci fosse il nulla dopo la morte. Ora ne sono sempre meno convinto. Preferirei che ci fosse il famoso giudizio».
E ancora: «Natale è Dio che viene sulla terra, ma che resta perennemente bambino, che è buono». Ricordando quando faceva il presepio da piccolo, con la sorella, rammenta la tenerezza per quel fanciullo che nasceva da profugo, a quel freddo. Poi spiega: «Ecco, io sono rimasto a quel bambino lì, in quella capanna. Il Papa parla di ragione e ragionevolezza. Beh, io forse non sono un “uomo ragionevole”. Lavoro molto con il cuore, con il mio bisogno. Non so se questa parabola mi porterà ad essere credente. Ma se dovessi riscoprire Dio credo che sarei guidato da quel bambino, dal Dio di Natale, dal Dio della nascita. E sarei spinto dal bisogno che ho di Lui. Lo avverto in un modo prepotente, soprattutto la sera, dopo aver lavorato tutta la giornata. Ho bisogno di Lui. Anche soltanto dieci anni fa non ci pensavo».
Confesso di essere ammutolito a queste parole. Pansa ci ha abituato al suo anticonformismo, alla sua totale libertà intellettuale: sia quella che traspare dai suoi articoli (dove dice sempre verità scomode), sia quella drammatica dei suoi libri storici con i quali ha demolito una retorica cinquantennale che esigeva omertà sul mare di sangue del nostro passato. Ma oggi la sua libertà morale supera l'ultimo tabù, quello che, nella società dei salotti senza tabù, nessuno mai osa violare: mettere il proprio cuore a nudo, confessare francamente l'immensa domanda di cui siamo fatti, lo struggente bisogno di perdono e di amore che “siamo”. E il “bisogno di Lui” che abbiamo, come dice Pansa. E' rarissimo, soprattutto fra gli intellettuali, trovare un coraggio così.




E fermiamoci qui, che può senz'altro bastare.
In effetti è rarissimo (soprattutto tra gli intellettuali?) trovare il coraggio per dire certe puttanate. Ma Pansa, si sa, è un uomo molto coraggioso. E pure Antonio Socci – uno che ammutolisce davanti all'anticonformismo e alla totale libertà intellettuale del Pansa demolitore di retoriche muffite e di tabù che nessuno mai osa violare – è un uomo molto coraggioso: ostia, se lo è! Ci vuole infatti un sacco di coraggio a scrivere che bisognerebbe “confessare francamente l'immensa domanda di cui siamo fatti, lo struggente bisogno di perdono e di amore che “siamo” (sic: virgolettato, n.d.r.).
Chiudo ringraziando entrambi - il demolitore di retoriche cinquantennali e di tabù da "società dei salotti senza tabù" (?) e il mistico Socci, sopraffatto dal Mistero - per avermi fatto sganasciare come non capitava da anni.
A Pansa, intellettuale scomodo, voglio pure regalare (così, tanto per sdebitarmi) un'idea per il suo prossimo romanzo (che sarà senz'altro un bestseller, come no: con tutti gli anticonformisti che ci sono, in Italia, non mancheranno di certo i lettori a un anticonformista scomodo come lui): che qualcuno gliela faccia avere, please.


Siamo in un paesino delle Langhe, nei primi mesi del 1944. Un partigiano comunista serial killer semina la tragedia tra i residenti macellando a colpi di piccozza ben sette bambini, tutti figli di militi della Guardia Nazionale Repubblicana. Sarà don Simone, il buon prete del luogo, a fermare la sua furia assassina (in quale modo, lo deciderà Giampaolo Pansa) e a consegnarlo alla giustizia (e quindi al plotone d'esecuzione). Due anni dopo la fine della guerra il serial killer, incredibilimente considerato un martire della Resistenza, sarà vendicato dai suoi compagni (ex) partigiani, che spareranno al prete. L'infame delitto rimarrà avvolto da un manto di omertà per ben cinquant'anni, fino a quando un giornalista coraggioso, scomodo, anticonformista (nato a Casale Monferrato nel 1935) non riuscirà a scoprire chi ha ucciso il povero don Simone.