giovedì 31 dicembre 2009

La sinistra non va a mare a Capitolo

La sinistra sarebbe chic, la destra invece pop (che deriva da popular, non da popò).
“La sinistra ama la taranta, anzi la pizzica, non perché sia bella ma perché è chic. Ma non va a mare a Capitolo, spiaggia affollata e chiassosa, veracemente pugliese, che io invece frequento”.

Così Checco Zalone, professione comico, l'ultima grande scoperta di Italia1, rete televisiva berlusconiana giovanilista e very, very popular.
In Italia con queste cacchiate ci balocchiamo da anni annorum. Sono appunto cacchiate, servono giusto a riempire mezza paginetta di quotidiano con un pezzo brillante (che so? Di quelli che la Repubblica richiede a Filippo Ceccarelli) e allora, direte voi, perché parlarne?
Ma perché Zalone è un comico, mi dicono, e in Italia è stata proprio la sinistra chic ad elevare i comici al rango di maîtres à penser anche se il povero Zalone evidentemente lo ignora.
La cosa, secondo me, è cominciata ai tempi del vecchio Cuore, quando furono moltissimi i lettori - forse qualcuno lo ricorderà - che, a più riprese, chiesero a Serra e compagni di “fare un partito”: lo avrebbero votato con la banda, garantivano.

È poi proseguita col dandinismo (da La Tv delle ragazze in giù) su Rai3, per tracimare, pian piano, nelle millanta piazze Navona del nostro scontento (con i comici a comiziare e a rubare la scena - mica difficile - a uomini pubblici a corto di fiato, di idee, di tutto), nel grillismo (ma, a ben vedere, nihil sub sole novi, in questo caso: al comico che si butta in politica c'era già arrivato Coluche, in Francia, e senza mandare avanti gli amici ma candidandosi lui direttamente), infine nei talk show politici dove, chissà mai perché, molto spesso è il comico di turno a introdurre (forse per alleggerire? Ma non è ormai da tempo insostenibile, la leggerezza della politica italiana?) il dibattito, anzi, gli strepiti delle scimmie in studio.
Ed ecco allora che gliela si chiede ben volentieri, un'opinione, al maître à penser Checco Zalone.
- “Checco, Checco, tu che sei così comico, che ci dici degli chic che schizzano la chiassosa Capitolo?”
- “Ma tutto il male possibile, ovviamente! Capitolo, spiaggia affollata e chiassosa, veracemente pugliese, io la frequento eccome!!!”
Evvai...

Dire che la sinistra ama la taranta, anzi la pizzica, è un po' come dire che i genovesi sono tirchi, i veneziani gran signori, i padovani gran dottori mentre i vicentini passano il loro tempo a mangiar gatti. Che altro? Ah, sì: Pisa merda!!!
Io conosco un sacco di gente che vota per la sinistra (che poi non è mica una cosa sola, tra l'altro, 'sta famosa sinistra) e che la taranta, anzi la pizzica, non solo non la ama niente, ma non sa nemmeno cosa sia.
Ora, su queste cacchiate, effettivamente, non meriterebbe scrivere nemmeno una virgola, se non fosse che a sinistra (non in tutta la sinistra... che poi non è mica una cosa sola, nevvero?) abbiamo maturato, negli ultimi anni, un bel po' di senso di colpa per la nostra famosa cultura (???) da ceti medi riflessivi, noi che una volta eravamo i partiti di riferimento per quelle classi popolari che in questi giorni stanno affollando le sale dei cinema dove si proietta Natale a Beverly Hills (facendosi un baffo, evidentemente, di quel cinema d'essai che allieta le nostre meravigliose serate da segaioli). Quel senso di colpa che ha fatto dire al Bersani "basta alla puzza sotto al naso della sinistra, ci deve piacere la gente che guarda Rete4".
E anche lui, come il povero Checco Zalone, generalizza alquanto, no? La sinistra ha la puzza sotto al naso?
Ma io conosco un sacco di gente di sinistra che guarda Rete4, caro Bersani... E conosco, pensa un po', persino della gente che alle ultime politiche ha votato per dei partiti di sinistra e che oggi, proprio oggi, se n'è andata al multisala a cuccarsi beata il cinepanettone di quest'anno.

E per me non è mica un problema, questo, sai? A vedere Natale a Beverly Hills io non ci andrei manco sotto tortura, ma ti assicuro che non è un problema. Come non lo è sentire i leghisti, un giorno sì e l'altro pure, sbraitare contro i professori fighetti e lontani dal popolo. E che? Dovrei forse sentirmi toccato, in qualche modo?
Mio padre, che ha solo la quinta elementare, insistette molto, al tempo, perché io studiassi e prendessi quella cazzo di laurea che ha fatto di me un professore fighetto di quelli che mai e poi mai andrebbero a mare a Capitolo, spiaggia pugliese affollata e chiassosa.
Chissà perché insisteva tanto, pover'uomo, ma io comunque ho un enorme rispetto per lui.
Come diceva Noventa, è un errore infantile, “che è di quasi tutti gli uomini, ma non dev'essere mai di chi si pone come capo o come maestro”, quello del non saper guardare i propri genitori in faccia: l'errore del "credersi liberi, cioè, dalla propria tradizione familiare a scuola o a spasso...”.
Nella mia tradizione familiare c'è un papà, nato poverissimo, che credeva (e ancora crede...) nel potere e nel valore della cultura.
Nella tradizione familiare di Umberto Bossi non so cosa ci sia e devo proprio confessarvi che non me ne frega un cazzo.
So però che se fosse capitato a me, com'è capitato al figlio di Bossi, d'essere bocciato per tre volte consecutive all'esame di maturità, a quest'ora camminerei zoppo perché il mio babbo mi avrebbe storpiato...

Detto ciò, e chiudo, del fatto che esista la cultura sono certo, non so però cosa sia la “cultura di sinistra”, ahimé. Magari, col tempo, finirò per scoprirlo.
Invece conosco bene, purtroppo, la brutta razza di esangui vigliacchi che sta guidando la sinistra italiana, o quello che ne rimane, in questo particolare momento storico.
E dicendo questo io non sto generalizzando.
“Ci deve piacere la gente che guarda Rete4?”. Ma non dire cazzate, va...

martedì 29 dicembre 2009

L'altro



Ma lei era sparita. Aveva lasciato l'albergo. Nessun messaggio per il signor Zuckerman? Nessuno. Aveva ricevuto il suo messaggio? Sì. Ma dov'era andata? Il portiere non ne aveva idea. Zuckerman, invece, improvvisamente sì. Si era trasferita da André e Mary! Aveva lasciato l'albergo per liberarsi dello spasimante non gradito. Aveva fatto la sua scelta, e la sua scelta era lui!
Si sbagliava. Era l'altro.
- Nathan, - disse Mary Schevitz. - È tutta la mattina che ti cerco.
- Sono dal sarto, Mary, a prepararmi per ogni evenienza. Dov'è, lei, se non è lì con voi?
- Nathan, devi capire... È partita in lacrime. Non l'ho mai vista così sconvolta. È stata una mazzata anche per me. Ha detto: «Nathan Zuckerman è la cosa migliore che mi sia capitata in un anno».
- Allora dov'è? Perché è andata via?
- Ha preso un aereo per Città del Messico. Da là raggiungerà L'Avana. Nathan, caro, io non ne sapevo nulla. Nessuno sapeva nulla. È il segreto meglio difeso della terra. Me l'ha detto solo per cercare di spiegarmi quanto le dispiaceva per te.
- Ti ha detto cosa?
- Ha una storia. Da marzo. Con Fidel Castro. Non devi dirlo a nessuno, Nathan. Lei vuole troncare, sa che con lui non c'è nessun futuro. Si è pentita di avere cominciato. Ma lui è un uomo che non sente ragioni.
- Come tutto il mondo sa.
- Da quando è arrivata, le ha fatto telefonare ogni cinque minuti dal suo ambasciatore alle Nazioni Unite. E stamattina l'ambasciatore è piombato in albergo e ha insistito per invitarla a colazione. E poi lei mi ha chiamato per dire che partiva, che non poteva fare diversamente. Oh, Nathan, mi sento responsabile.
- No, Mary. Kennedy non è riuscito a fermarlo, Johnson non è riuscito a fermarlo, Nixon non è riuscito a fermarlo. Dunque, come potresti farlo tu? O io?

domenica 27 dicembre 2009

(Dawning Of A) New Era


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venerdì 25 dicembre 2009

In edicola

caro tizio che schiaccia sempre il bottone per chiamare l'ascensore quando chiaramente sta già arrivando.

dunque, io me ne sto lì ad aspettare l'ascensore dopo aver schiacciato il bottone e arrivi tu e lo schiacci ancora, anche se la spia è già accesa. bé?

mi vedi che me ne sto lì ad aspettare. pensi che io non ho niente di meglio da fare che guardare un ascensore? pensi che sono un idiota? che non so come funziona un ascensore? che sono un campagnolo che deve ancora scoprire l'elettricità?

il fatto che la spia sia accesa non ti fa pensare che qualcuno ha già schiacciato il bottone? e che probabilmente è la persona che sta lì ad aspettare?

evidentemente sei un narcisista che pensa che tutti siano più scemi di lui o sei un cretino convinto che se si schiaccia un bottone due volte l'ascensore arriva più in fretta.

oppure – terza possibilità – sei solo uno stronzo. in ogni caso, non mi stupirei se uno di questi giorni ti capitasse di precipitare nella tromba dell'ascensore.

non voglio dire nulla di preciso ma, se fossi in te, rivedrei completamente il mio galateo da ascensore.
cordialmente, mr. wiggles


Mr Wiggles colpisce ancora di Neil Swaab. Fusi orari 2009, 96 pagine, 8,50 euro.

Se lo lasciate in edicola, o sciagurati, vedo e prevedo che vi trasformerete rapidamente in Rocco Buttiglione. O in sua sorella Angela.

giovedì 24 dicembre 2009

Al calduccio sotto le mie copertine (n.16)

A Christmas Gift For You from Phil Spector, 1963

He's making a list,
Checking it twice,
Gonna find out who's naughty or nice.
Santa Claus is coming to town
Santa Claus is coming to town
Santa Claus is coming to town.




P.S.
Un pensiero a Phil Spector, che se ne sta in galera a scontare una condanna per omicidio. Questo è il suo primo Natale dietro le sbarre.

lunedì 21 dicembre 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.77)


"Quando sei giovane hai tutto, ma non lo sai."

(Dustin Hoffman)

sabato 19 dicembre 2009

Azionisti vil razza dannata


Sostiene D'Alema che “a volte l'inciucio serve” e che “per i comunisti italiani c'è sempre stato”.
Di più: “certi inciuci sono stati molto importanti per costruire la convivenza in Italia”.
E al giorno d'oggi?
Eh, sapesse, contessa... al giorno d'oggi “è più complicato, invece sarebbero utili anche adesso. Ma questa cultura azionista radicale non ha mai fatto bene al Paese”.
Che c'entra adesso “la cultura azionista radicale”?
C'entra, c'entra... perché, secondo il Massimo dei minimi, “c'è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato...”.
Cosa?
Ma per esempio l'articolo 7 della Costituzione repubblicana, definito dal nostro “il primo grande inciucio”.
Avete presente l'articolo 7, sì? Quello che recepiva nella legge fondamentale della Repubblica i Patti lateranensi firmati nel 1929 da santa romana chiesa e dal cav. Benito Mussolini. Quella roba lì, dai...

(“L'articolo sette, Togliatti ce lo dette, - disse il marito alla moglie, - e guai a chi ce lo toglie”, così Mino Maccari che, a scanso di equivoci, non era un azionista...)
Ora, non mi stupisce più di tanto il giudizio di D'Alema sulla “cultura azionista che non ha mai fatto bene al Paese”. D'Alema è un comunista tosto (brrrr! Baura!), e cosa vuoi che dica, un comunista tosto (brrr! Baura!), dell'azionismo?
Certo, fa un po' ridere quel “non ha mai fatto bene al Paese”, anche se è, paradossalmente, la verità: la cultura azionista, essendo stata ultraminoritaria, non ha mai fatto del bene al Paese. Non ha mai potuto fargliene. Come non gli ha mai fatto del male: e pure questo mi pare innegabile. Era roba da torri d'avorio, da intellettuali cagadubbi... roba da culturame, come disse Palmiro Togliatti... ah, no: era Mario Scelba, scusate.

Gli attacchi più feroci alla cultura azionista sono venuti, in questi ultimi vent'anni, dai cattolici, e particolarmente da quelli in salsa ciellina, tutti fede e opere (i ciellini li chiamano così, gli affari: opere), dai craxiani (ce ne sono ancora moltissimi, in giro, che credete?) e da comunisti (non ex: notata, la finezza?) come Giuliano Ferrara e Massimo D'Alema.
Cosa odieranno così tanto, degli azionisti?
Il fatto che, siccome erano tutti professori, facevano appunto i professori? Questo mi pare banale, suvvia... In fondo lo faceva pure Togliatti, il professore, anche se era un professore di nomina propria.
La scarsa attitudine al compromesso? L'intransigenza su alcune questioncine tipo l'articolo 7 della Costituzione repubblicana? Ma no, nemmeno: cultura ultraminoritaria, l'azionismo, si è detto, e de minimis non curat praetor. Traduzione, molto libera: il manovratore non se le gratta, le pulci, sennò mica potrebbe manovrare.
No, la risposta è più semplice.
I cattolici odiano gli azionisti perché i cattolici hanno la memoria lunga (altrimenti che cattolici sarebbero?): gli azionisti essendo stati per loro degli avversari irriducibili, implacabili, e con un deciso retrogusto di protestantesimo per soprammercato; i craxiani (ve lo rammentate, spero, il gagliardo Bettino che prorompe asperrimo, da par suo: “Intellettuali dei miei stivali!”) e i comunisti, invece, li odiano semplicemente perché a sinistra gli azionisti non si sono mai fatti dimenticare: insomma, qualche povero illuso riescono ancora, incredibilmente, a trascinarselo dietro, questi professori... queste "élite di merda", come direbbe Renato Brunetta.
Epperò, 'sto D'Alema...
Pensate per un attimo alla strategia della tensione, con tutto il suo carico di lutti, di disperazione, di morte.
Volendo, e proprio in nome di quella realpolitik sacra al Massimo dei minimi, pure le bombe dello stragismo potrebbero essere considerate, col senno di poi, come un contributo alla costruzione della convivenza in Italia: non si è sempre detto, infatti, che quelle bombe avevano una funzione stabilizzatrice, più che destabilizzatrice?
Pensiamoci un po': cosa sarebbe successo se l'Italia fosse finita in mano a quelli come D'Alema, cioè agli amici, ancorché un po' critici, dell'Unione Sovietica? Com'è che dice Silvio nostro? “Ovunque i comunisti sono andati al potere hanno portato miseria, terrore e morte”, giusto?

E allora piazzare una bombetta su un treno magari può aiutare, no? A tenerli lontani, dico...
Coraggio, su: che saranno mai, pochi morti oggi, se possono salvarci dal baratro di domani?
Come dite? Che gli inciuci dell'Assemblea costituente erano fatti alla luce del sole e non sono quindi in alcun modo paragonabili a dei sanguinosi attentati? Che il mio è un paradosso davvero molto rozzo? Senz'altro, senz'altro.
D'altra parte, questo è il blog di una persona dai mezzi intellettuali modestissimi.
Epperò, 'sto D'Alema...
Che tristezza pensare che in Italia abbiamo avuto lo stragismo per tenere lontano dal governo del Paese uno come lui.

giovedì 17 dicembre 2009

Una sediata sulla testa

Nel 1965 Mario Vargas Llosa abitava a Parigi dove, dal 1951, viveva pure Julio Cortázar.
Nel 1963 lo scrittore argentino aveva pubblicato - a Buenos Aires - il romanzo che lo avrebbe consacrato in via definitiva come uno dei grandi maestri della letteratura - non solo latino-americana - del Novecento, e cioè Rayuela (Il gioco del mondo, Einaudi, 1969).
Vargas Llosa, non ancora famoso - ma aveva esordito col botto, nel 1962, con La città e i cani – scrisse per l'Expreso, un quotidiano di Lima, un reportage su Cortázar.
Ad un certo punto gli domandò: Se un ragazzo di quindici anni venisse a trovarla e le chiedesse: “Voglio diventare scrittore, mi dica cosa devo fare”, lei che risponderebbe? (Penso a un giovane sudamericano).
Cortázar disse così: A mo' dei maestri zen, cercherei di rompergli una sedia sulla testa. È possibile che il giovane sudamericano capisca cosa c'è oltre la sediata, ma se, nonostante tutto, la risposta non gli fosse chiara, gli direi che il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia letteraria dimostra la mancanza di una vera vocazione. Potrebbe anche darsi che la sediata sia mortale e allora ci sarebbe un epigono in meno, e per i nostri paesi sarebbe pur sempre un vantaggio.



P.S.
Mai letto Cortázar? No? Beh, cominciate, su...
Da cosa? Ma da qualsiasi cosa.

lunedì 14 dicembre 2009

Casi umani

Come mai si permette a un uomo di 73 anni - che, dopo una vita di lavoro indefesso, è diventato ricco come un creso facendo ricchi come cresi pure quelli che più dovrebbero essergli vicini: i famigliari (ben cinque, i suoi figli, da due mogli diverse), gli amici di una vita come il signor Confalonieri, il signor Dell'Utri, il signor Letta - di passare la domenica comiziando in piazza, al freddo e al gelo? Ma pensateci un po' su, dai.
Ieri a Milano c'era un tempo da lupi e lui lì, a sgolarsi senza cappotto... A 73 anni! Non è un'enormità, questa?
E dopo il freddo e la fatica, quando sta finalmente per ritornarsene a casetta sua, gli capita pure di imbattersi in un disadattato che gli spacca i denti e lo manda all'ospedale.


Tra le altre cose, il nostro possiede pure una magnifica villa alle Bermuda e invece di starsene là, panza all'aria, come si meriterebbe ampiamente dopo una vita di lavoro, ripeto, indefesso, passa la domenica a Milano (no, dico: Milano, uno dei posti più deprimenti dell'universo), a comiziare al freddo e al gelo, senza cappotto per giunta, per poi finire a fare da bersaglio a un matto incazzatissimo col mondo.
E gli è andata ancora di lusso, gli è andata: poteva rimetterci la vita e non solo un paio di denti.
A me fa tanta pena, quest'uomo. A voi no?

sabato 12 dicembre 2009

Per Giuseppe e Licia Pinelli

Il 12 dicembre, nel 1969, cade di venerdì.
Su Milano il cielo è plumbeo.
Alle 16 e 30 del pomeriggio ci sono ancora dei clienti nella sede Banca dell'Agricoltura, in Piazza Fontana.
Alle 16 e 37 scoppia una bomba, 7 chili di tritolo.
Muoiono in 17, i feriti sono 88.

Lo stesso pomeriggio, a Roma, scoppiano altre tre bombe: due all'Altare della Patria, una nel sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro, in Via San Basilio. I feriti sono 16.
Una quinta bomba viene rinvenuta inesplosa a Milano, in Piazza della Scala, nei locali della Banca Commerciale.
Dall'allora capitale morale il prefetto Libero Mazza, poco dopo la strage, telegrafa al Presidente del Consiglio dei ministri, Mariano Rumor: “L'ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi”.
In quattro giorni vengono fermati, soltanto nel capoluogo lombardo, 84 fra anarchici e militanti dell'estrema sinistra.

Giuseppe Pinelli, 41 anni, frenatore delle Ferrovie dello Stato nella stazione di Porta Garibaldi, anarchico, viene convocato in questura la sera stessa della strage.
Ci arriva in motorino.
Comincia a morire il 12 dicembre 1969, Pino Pinelli, anarchico.
A interrogarlo iniziano subito. Tre giorni dopo, lunedì 15, si trova ancora lì, in questura: non gli è stata contestata alcuna imputazione precisa, ma non viene rilasciato. Durante gli interrogatori, racconteranno poi, faceva dei disegni per le sue due bambine.
L'ultimo interrogatorio ha inizio lunedì sera.
Mi telefonarono dalla questura verso le nove e mezzo, dieci, per chiedermi il libretto ferroviario di mio marito, quello dove sono segnati i viaggi. Dopo dieci minuti ho ritelefonato per dire che l'avevo trovato e se potevo andarlo a portare. Intanto, ho chiesto notizie di Pino e mi hanno risposto che era in questura dove stava molto bene. Mi avevano detto che avrebbero mandato qualcuno da me a ritirare il libretto. Verso le undici è arrivato un brigadiere. All'una meno dieci sono arrivati i giornalisti per avvisarmi che mio marito era caduto da una finestra del quarto piano della questura. Eravamo in casa io e le bambine piccole. C'era anche mia suocera. Tutte e due ci siamo mosse verso il telefono per chiamare la questura, per chiedere se era vero. Non ci volevamo rendere conto che le cose fossero andate così. Chiamiamo, io dico: «Sono arrivati due giornalisti, mi hanno detto che mio marito è caduto dal quarto piano della questura. Perché non siamo state avvisate?». Mi è stato risposto: «Non avevamo tempo».
Così la moglie di Giuseppe Pinelli, Licia.
Chi le risponde in quella bella maniera è il commissario Luigi Calabresi: «Ma sa, signora, abbiamo molto da fare».
Calabresi è il poliziotto che a Milano coordina l'ufficio politico della questura. Giuseppe Pinelli esce dalla questura, tre giorni dopo esserci entrato, proprio da una finestra dell'ufficio politico.

Lui che esce e io che lo inseguo per portargli il cappotto, noi due persone di mezz'età che hanno due figlie, che ridono e scherzano. Poi lui va in questura...
Questa è l'ultima immagine che Licia Pinelli ha di suo marito.
Sette mesi fa il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l'ha invitata al Quirinale e in quell'occasione ha parlato di «rispetto e omaggio per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi e infondati sospetti, poi di un'improvvisa assurda fine».
Vedete, io potrò dimenticare tutto, di Giorgio Napolitano, ma non mi dimenticherò mai di queste parole.
Licia Pinelli non ha mai ottenuto un processo per la morte di suo marito: ci sono state solo istruttorie.
Licia Pinelli non ha mai smesso, in quarant'anni, di cercare la verità.
Giuseppe Pinelli, marito di Licia, padre di due bambine piccole, uomo buono, persona per bene, ferroviere, anarchico, è la vittima numero 18 della strage di Piazza Fontana.
Voglio sperare che le istituzioni si ricordino, in questi giorni di commemorazioni, di portare un fiore pure sulla sua tomba.

venerdì 11 dicembre 2009

Valori non negoziabili

Davvero immenso ieri, su Repubblica, il teologo Vito Mancuso: uno di quei papisti che da qualche tempo godono, e chissà mai perché, di un credito illimitato a sinistra.

Magari conoscete il tipo: uno disceso tra noi appositamente per dimostrare che il mondo cattolico è tante cose e anche Santa Romana Chiesa è tante cose e quindi errat, ma errat fortiter (e peccat, ma peccat fortissime) chi vede nel mondo cattolico un monolite e in Santa Romana Chiesa un monolite. Perché non lo sono, ma proprio no: il mondo cattolico, invece, è tante cose e pure Santa Romana Chiesa è tante cose, capito?
“La sfida della postmodernità alla fede in Dio non è più l'ateismo materialista. Tale era l'impresa della modernità, caratterizzata dal porre l'assoluto nello stato-partito o nel positivismo scientista, ma questi ideali sono crollati e oggi gli uomini sono sempre più lontani dall'ateismo teoreticamente impegnato. Gli odierni alfieri dell'ateismo vogliono distruggere la religione proprio mentre si connota il presente come “rivincita di Dio”, anzi la vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono il ritorno, ma i loro stessi libri anti-religiosi, trattando a piene mani di religione, finiscono per alimentare la rivincita di Dio”.
E noi immaginiamo, a questo punto, il ghigno soddisfatto e compiaciuto di Mancuso il sofista, ragionatore di quei sottili: si inizia con una bella citazioncina per pochi (La Revanche de Dieu di Gilles Kepel: chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, pensate un po'), tanto per riscaldare l'atmosfera, e poi ci si va giù pesante: “Parlate, parlate contro Dio: che tanto comunque parlate di Lui..." Sottinteso: "E allora, sciocchini, pensateci un po' su: ma che parlate a fare, eh?” e giù a riiiiidere, il Mancuso, ah ah ah ah!!! Che polemista magistrale!
Con chi ce l'ha? Con Richard Dawkins, probabilmente...

Ma considerate: dipendesse dal nostro sofista – che poi sarebbe un cattolico progressista (mi vien da ridere) – di cosa si potrebbe parlare, con un qualche costrutto, senza farsi ridere in faccia dal genio di turno?
La buttiamo in politica e proviamo un po' a parafrasare il Mancuso? Via!
“Gli odierni alfieri dell'antiberlusconismo vogliono distruggere Berlusconi proprio mentre il presente viene da loro connotato come il Tempo di Berlusconi, anzi lo vogliono distruggere proprio perché ne percepiscono la forza, ma il loro stesso antiberlusconismo, trattando a piene mani di Berlusconi, finisce per alimentare la vittoria di Berlusconi”.
E allora non è meglio se ce ne stiamo tutti quanti belli zittini, davanti a Silvio? Ma zittini zittini proprio, eh?
Come vi suona? Un po' come il Riformista, nevvero?
Oh, intendiamoci: lo scritto di Mancuso pubblicato ieri da Repubblica – si intitola La libertà di pensare Dio sfidando la Chiesa – è un testo moralmente e intellettualmente alto, e ciò sia detto senza ombra di ironia.
Dopo di che, Dio esiste? Ma nessuno lo sa, mes amis: e nessuno mai lo saprà, almeno non in questa vita. D'altra parte, non è proprio per questo motivo che così tante persone insistono a porsela ancora, la domanda se crederci o meno, in Dio?
Io, nel mio piccolo, so solo che se la religione è un diritto, lo è pure l'irreligione. Bisogna poi impedire a entrambe (a entrambe, sì) di imporsi con la forza.
Quindi sono convinto del fatto che lo Stato dovrebbe essere neutrale e non solo nei confronti delle varie religioni, ma anche tra religione e miscredenza: lo Stato non può sposare, né favorire in alcun modo, interpretazioni morali specifiche.
Infine so che il libero pensiero laico – ma qui scendiamo un pochino più in basso, nel fango della Storia – si è evoluto, in Europa, in opposizione alla Chiesa cattolica, che contro di esso ha combattuto by any means necessary (dalla spada ai roghi, per intenderci).
Ha scritto Aldo Schiavone che quella del neoguelfismo - “come attitudine nazionale, definitivamente fissata con la Controriforma negli infelici esordi della nostra dimezzata modernità - quando a noi toccò la parrocchia, mentre gli altri, in Europa, costruivano gli stati” - è un'antica tentazione della storia politica e intellettuale italiana. Bene: a me pare proprio che, come Stato, il neoguelfismo ce l'abbiamo da tempo all'ordine del giorno. Poi, se molto è folklore, molto altro preoccupa sinceramente e per quanto mi riguarda non dispone certo alla comprensione né al confronto con l'altro.
Anche se alla fine della fiera qualcuno mi dovrà pur spiegare come caspita ci si può confrontare (e quindi come si può convivere) con della gente che ti dice: “I miei valori non sono negoziabili”. Così Ratzinger sempre, così Ruini ancora ieri, così tantissimi cattolici a ruota.

Ma come si fa a non negoziare, in uno spazio pubblico? È la stessa natura di ciò che è pubblico, io credo, ad imporre continue negoziazioni tra le persone o meglio, tra i cittadini. E dunque?
Come se ne esce, da questo cul-de-sac? Boh?!? Io la vedo molto ma molto dura.
E diciamo qualcosa pure del folklore, va...
In questi giorni, a Palazzo Madama, nove senatori del PdL hanno depositato un disegno di legge, primo firmatario Sergio De Gregorio: ve lo ricordate?

L'articolo 1 dice che il crocifisso è un emblema “di valore universale della civiltà e della cultura cristiana”, un simbolo quindi “irrinunciabile”.
L'articolo 2 dice che il crocifisso deve essere esposto “al fine di testimoniare il permanente richiamo della Repubblica italiana al proprio patrimonio storico-culturale radicato nella tradizione cristiana”. Ne deriva (articolo 3) che “in tutte le aule delle scuole, delle università, delle accademie” e poi “negli uffici della pubblica amministrazione e degli enti locali territoriali, in tutte le aule dei consigli regionali” (ma la Regione in cui vivo c'è arrivata ben prima di Sergio De Gregorio, n.d.r.) e poi in quelli “provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, in tutti i seggi elettorali” e in carceri, ospedali, aeroporti, porti, stazioni ferroviarie e pure in tutte le sedi diplomatiche, dovrà esserci il crocifisso appeso a un muro.
Chi lo rimuoverà o lo vilipenderà sarà punito con l'arresto fino a sei mesi o con un'ammenda da 500 a 1.000 euro. La stessa sanzione è prevista per “il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che si rifiuterà di ottemperare all'obbligo”.
Secondo l'avvenente senatore De Gregorio, “c'è uno scontro di civiltà. E ognuno deve dire da che parte sta. Noi stiamo dalla parte della Chiesa, non ce ne vergogniamo”.
Tutto ciò è solo folklore, trattandosi qui di un bel tomo come De Gregorio?
Mah... a me sembra che il senatore abbia invece capito benissimo che cosa significa “valori non negoziabili”.

giovedì 10 dicembre 2009

Heat (di Michael Mann)


Devo tenermi la mia angoscia. La devo proteggere. Perché mi serve: mi mantiene scattante, reattivo, come devo essere.

martedì 8 dicembre 2009

Pensierini del dì di festa

Ore 15.50, Rai 1: in diretta da Piazza di Spagna, in Roma, l'omaggio di Sua Santità Benedetto XVI alla Statua della Madonna Immacolata.
Incredibile: il Papa in tivvù nel Paese che discrimina ed emargina i cattolici!
In-cre-di-bi-le: il Papa in tivvù per quaranta minuti (segue, alle 16.30, La vita in diretta), come un'isola di speranza in quel mare di laicismo e miscredenza in cui il servizio pubblico radiotelevisivo pretende che tutti noi si vada, pian piano, alla deriva.

Il quotidiano la Repubblica informa che a vedere la Carmen, alla Scala, c'erano l'eurodeputato leghista Matteo Salvini, il ministro del Turismo Michela Brambilla e Valeria Marini in rosso.
Mia moglie: «Ma che cosa ci sono andati a fare? Cosa avranno capito? Non fanno un cervello in tre...».
Io: «Maddài: era un grande evento, dopotutto! Echeccazzo!».
Confesso: quando facevo l'assessore alla Cultura capitava, talvolta, che io usassi la parola evento, accompagnata immancabilmente dall'aggettivo grande, a designare un qualche spettacolo di più o meno forte richiamo popolare. Sottinteso: dovete esserci a prescindere, è un must e, se solo potessi darvelo, sarebbe pure un ordine.
Bene, mi vergogno come un ladro per averlo fatto. Perdonatemi, vi prego. La Cultura è sempre una cosa discreta: è per questo che ai grandi eventi può partecipare pure uno come Matteo Salvini...

Sostiene Beppe Fioroni che al famoso Partito Democratico “occorre un'evoluzione culturale. Alle parole individuo, collettivo, partito del lavoro dobbiamo sostituire persona, famiglia, etica. E non pensare di lasciare ai centristi la rappresentanza dei moderati”.
Dunque, ricapitoliamo: a individuo sostituiamo persona, a collettivo famiglia, a partito del lavoro etica.
Restiamo per un po' sul primo binomio, vocabolario della lingua italiana alla mano: la parola individuo come sostantivo maschile significa “essere umano, singolarmente considerato”, come aggettivo, letteralmente, “che non si può dividere”; persona invece significa “ogni individuo della specie umana”. La differenza tra le due parole sembra un po' una questione di lana caprina, insomma... non fosse per l'etimologia di persona: parola che deriva dall'etrusco phersu e significa maschera. Suggestivo, nevvero? E tanto più avendo noi a che fare con un democristiano di purissima caratura come Beppe Fioroni. Perché lo sapete, no? I politici democristiani, di maschere, sono espertissimi: mai guardato un politico democristiano dritto negli occhi?
E adesso passiamo, sempre vocabolario alla mano, a collettivo da sostituirsi con famiglia: la prima parola significa “ciò che è comune a più individui” o “che appartiene a una determinata collettività”; la famiglia (italiana), invece, è quel morbo di cui scrisse, tra gli altri, Leo Longanesi: avete presente? Ma pure Totò Riina, questo va detto, se ne intendeva (e se ne intende) parecchio, di famiglia...
Infine a partito del lavoro bisognerebbe sostituire etica. E qui non so proprio cosa dire: che caspita significherà mai, 'sta cosa? Eh? Mistero... E al mistero certe volte bisogna arrendersi senza fare tante storie, come suggerisce un personaggio di A Serious Man, l'ultimo film dei fratelli Coen.
Proviamo a concludere, dai: un dirigente di spicco del famoso Partito democratico pensa che all'Italia – il Bel Paese in cui la difesa con le unghie e con i denti dei sacri cazzi propri si è fatta, nel corso del tempo, sistema di vita e di interpretazione della realtà a scapito di qualsiasi idea di cosa pubblica – pensa che all'Italia, dicevo, serva meno società e più famiglia. Che ne dite? Sarà forse che non gli è ben chiara, poverino, la differenza tra la parola società e la parola socialismo? Chissà...
Comunque - voglio essere generoso con me stesso e pure con Fioroni - si tratta, qui, di un'importante questione culturale, che si pone precisamente nei seguenti termini: posso starci, io, nello stesso partito politico di questo tizio? No, perché mi sa proprio che non condividiamo la stessa etica...

Un paio d'ore fa ho finito di leggere Cose trasparenti, di Vladimir Nabokov.
Dove si dice che bisogna imparare a sfiorarla soltanto, la superficie della materia: il solo fatto di concentrarci troppo attentamente su di essa, infatti, “può farci sprofondare involontariamente nella sua storia”. E la storia fa male, ostia se fa male.
“Bisogna andarci, vede figliolo, piano”.

domenica 6 dicembre 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.76)


"Nei primi anni di vita ho fatto in tempo a vedere la Russia di Cechov. Fu in casa della nonna paterna, a Sondrio."

(Aldo Buzzi)

giovedì 3 dicembre 2009

Canta Roma...

Dai Vianella


ai Rutella.


Un salto di qualità? Bah, fate un po' voi. De gustibus...

mercoledì 2 dicembre 2009

Anch'io nuova Destra!

Pare che nel Pantheon della nuova Destra finiana troneggino Alexis de Tocqueville e Isaiah Berlin, Albert Camus e Hannah Arendt.
Bene...
A 'sto punto mi chiedo: anch'io nuova Destra finiana?
No, dico... già mi tocca (troppo spesso) di invidiarla, 'sta nuova Destra finiana il cui leader, sui diritti civili e sull'immigrazione, dice quello che il mio partito di riferimento non si ricorda mai di dire, chissà perché... e quindi, ecco, io non vorrei mai... cioè... già mi girano i coglioni a mille ogni giorno... e adesso Tocqueville, Berlin, Camus... Hannah Arendt... ecco... avete capito?
Quale sarebbe il Pantheon del Piddì?
Berlinguer e Moro, sosteneva la povera Serracchiani qualche mese fa...
Berlinguer e Moro, Berlinguer e Moro, Berlinguer e Moro...
Berlinguer e Moro? Uhm...
Ve lo devo proprio dire, in amicizia: io a Berlinguer e Moro ho sempre preferito Tocqueville e Berlin. Che ci posso fare?
E capisco tutto, figuriamoci...
Figuriamoci se Gianfranco Fini ha mai letto non dico Tocqueville, che magari qualche pagina, ma Berlin... Berlin, via...
Me lo ricordo, Fini, una volta, intervistato dal Tg 1 davanti alla libreria di casa: si intravedeva, alle sue spalle, un libro di Roberto Gervaso. No, dico: Roberto Gervaso, non so se rendo...

E quindi lo so: lo so che è tutta opera del professor Alessandro Campi, direttore scientifico della fondazione Farefuturo, il pensatoio della nuova Destra finiana.
Epperò, insomma...
Piace pure alla mia mamma che lo ha visto tante volte da Gad Lerner, 'sto professor Campi: una persona pacata, posata, uno che non interrompe mai i suoi interlocutori, un uomo di cultura...
Uno, insomma, che se li è letti, indubbiamente, Alexis de Tocqueville e Isaiah Berlin, Albert Camus e Hannah Arendt...
Campi, Campi... uhm...
Che poi con me basta poco, ma poco davvero: mi compri con due lire...
Che so? Con Tocqueville. O con Berlin...

P.S.
Un mio caro amico senegalese un giorno mi ha detto: «Se domandi a un immigrato il nome di un uomo politico italiano che si batte da sempre per i diritti degli immigrati, lui ti risponde Fini».
Fini.