domenica 6 gennaio 2008

Kaddish

Ho appena finito di leggere Il Ministero dei Casi Speciali di Nathan Englander e l'ho trovato uno splendido romanzo.
Durante la lettura continuavo a pensare ad un articolo straordinario firmato tanti anni fa da un grande giornalista che purtroppo non c'è più, Joaquin Sokolowicz, e pubblicato nel gennaio 1991 da una rivista (di cui, al tempo, non mi perdevo un numero) che si chiamava LINEA D'OMBRA ed era diretta da quell'impagabile rompicoglioni di Goffredo Fofi. L'articolo si intitolava Inchiesta sui desaparecidos ormai scomparsi davvero e mi ricordo che quando terminai di leggerlo, tornando in treno a Monfalcone da Trieste, piangevo di pena. E di rabbia. Non era certo la prima volta che sentivo parlare di quello che era accaduto in Argentina dopo il golpe del 1976, ma furono le parole di Sokolowicz a farmi capire cosa aveva significato per gli argentini quella che il generale Videla aveva battezzato guerra sucia (guerra sporca).In sette pagine di reportage un grande giornalista faceva parlare gli assassini e le vittime. Da Albano Harguindeguy, ministro degli interni della Junta militare presieduta da Jorge Videla, uno dei cervelli e dei massimi responsabili di quella “repressione” che inghiottì 30 mila persone, a Matilde Herrera che “aveva tre figli, una femmina e due maschi (...) attivi in politica ma mai in fatti d'armi, precisa. Le hanno portato via tutti e tre i figli, tutti e tre i rispettivi compagni, tutti e due i nipotini. Sicuramente bellissima un tempo, Matilde appare ora esageratamente magra: 'Ho il cancro, sai. In un modo o nell'altro le cose che hai dentro vengono fuori'. Esattamente queste parole. (Matilde Herrera è morta poche settimane fa)”; dal tenente colonnello Aldo Rico che parlava di guerra “inevitabile, giusta, necessaria” a Pablo Diaz, l'unico superstite di quella che è conosciuta come 'la notte delle matite spezzate' (“Neanche lui sa perché, unico del gruppo, è stato rilasciato. Erano in otto, quasi tutti allievi di una scuola media di La Plata; il più grande aveva 18 anni, 14 il più piccolo. Stavano chiedendo da diversi giorni il ripristino del biglietto d'autobus con la riduzione per studenti. 'Il momento più terribile fu la prima notte. Piangevamo tutti. Alcuni chiamavano la mamma'. La sua amica Claudia, 16 anni, una volta che capitò di stare sdraiati vicini, gli raccontò che era stata violentata e sodomizzata. 'Secondo le indagini che abbiamo fatto, vennero tutti uccisi nella prima settimana di gennaio del '77, più o meno quattro mesi dopo il sequestro'. E si indovina una smorfia di dolore sul suo volto mentre aspetta un'altra domanda, forse per paura d'essere sospettato sia pure di sfuggita dall'intervistatore di avere pagato la sopravvivenza con qualche forma di collaborazione; e c'è chi gliel'ha pure insinuato. Chissà se non era anche questo un metodo della “lotta antisovversiva”, cioè lasciare in vita uno che comunque non avrebbe mai più ritrovato la calma, che probabilmente sarebbe stato condannato al vuoto attorno a sé”); dal terrificante generale Bussi che diceva che “in guerra la vittoria va generalmente a chi compie il maggior numero di violenze. Una volta scatenata la guerra, beninteso perché i politici non sono stati capaci di evitarla, noi militari siamo chiamati a mettere in campo tanta violenza quanta sia necessaria per piegare la volontà di combattere del nemico” a Renèe Epelbaum che “sembra quasi un automa mentre racconta – lo avrà fatto migliaia di volte – che le hanno strappato tutti e tre i suoi figli. 'Attività politica? Ma cosa vuol dire? Luis Marcelo, 25 anni, era studente di medicina e nell'ospedale dove faceva pratica era molto comprensivo con la gente più povera del quartiere, regalava loro le medicine e altre cose del genere'.Quando quel figlio primogenito venne sequestrato, lei spedì subito in Uruguay gli altri due. Claudio ('un vero poeta, un romantico') e la poco più che bambina Lila ('bella come il suo nome'). Sono andati a prenderli in quell'altro paese, governato anch'esso da una dittatura militare. 'Con noi ebrei la persecuzione è stata particolarmente feroce. Esistono tante testimonianze in proposito'”. L'ho riletto oggi, Sokolowicz, e mi ha fatto lo stesso effetto di 17 anni fa. Era uno che sapeva scrivere, che sapeva raccontare: “Non è stata una repressione come quella scatenata più o meno negli stessi anni in altri paesi latinoamericani, quella dell'Argentina tra il 1976 e il 1982. Diversa non soltanto per il numero enormemente superiore dei 'desaparecidos' ma anche perché quei 30 mila di questo paese (...) sono stati il risultato di un lavoro 'scientifico', progettato e applicato meticolosamente in ogni angolo del paese; secondo i capi di Buenos Aires i nemici da abbattere non erano soltanto i 'sovversivi' armati o disarmati: i militari avevano deciso di far fuori un'intera generazione, quella dei giovani e degli adolescenti che, se non erano attivisti politici, rappersentavano in ogni caso un campo inquinabile dalle idee politiche. Un generale fu allora esplicito in pubblico: 'Liquideremo prima i militanti, poi i loro simpatizzanti, infine gli indifferenti'”. La domanda che ci si fa, leggendolo (rileggendolo), è la seguente: ma come ha fatto il mondo (e l'Italia in testa, porca puttana, visto il legame fortissimo che lega il nostro Paese all'Argentina) a girarsi dall'altra parte, a non fare nulla per impedire lo sterminio di 30 mila persone? Ma come cazzo è potuto accadere che il mondo, nel 1978, sia andato a giocare a calcio in Argentina senza nessun particolare patema d'animo?I grupos de tareas (gruppi di lavoro, com'erano formalmente chiamati gli squadroni che irrompevano nelle abitazioni per sequestrare qualcuno o più di uno) si portavano via il più delle volte anche la rubrica dei numeri telefonici della vittima per andare in un secondo tempo a cercare uno per uno coloro i cui nomi figuravano in quelle pagine semplicemente perché amici o compagni di studio o di lavoro e magari più di uno non sentito né visto da anni. Il terrore era costantemente rinnovato nelle città dalle Ford Falcon verde chiaro, senza targa, che giravano per le strade con a bordo due o tre uomini armi alla vista, spesso con uno sportello aperto appena in modo da far spuntare la bocca del mitra; era su quelle auto che quasi sempre si portavano via i sequestrati”.
Nell'articolo di Joaquin Sokolowicz sentii parlare per la prima volta di Horacio Verbitsky, grande giornalista pure lui e autore de Il volo (usato come fonte da Englander per la stesura del suo romanzo) in cui si racconta di quei voli della morte con i quali i militari si sbarazzavano dei corpi degli scomparsi, gettandoli nell'oceano dagli aeroplani (“Cadevano nel fiume dall'aereo. Non si vedeva niente, e non si sentiva niente oltre al rumore dei motori, ed erano sempre addormentati. A volte fingevo di sentirli gridare. Mi sembrava sempre di sentire l'urto, le ossa spezzate. Non muoiono annegati: è l'impatto con l'acqua, da quell'altezza e a quella velocità, a ucciderli. Incontrano una resistenza fortissima. È come se andassero a sbattere contro un muro”, così Nathan Englander, a pagina 306 de Il Ministero dei Casi Speciali).
Nel romanzo trovate tutto: i posti di blocco dei militari lungo le avenidas di Buenos Aires nei giorni del golpe, le Ford Falcon verde chiaro, la tortura, i voli della morte e a sovrastare tutto quella che una psicologa argentina, Eva Gilberti, ha chiamato 'cultura della paura': “S'era generata la cultura della paura e quindi nacquero meccanismi di autoprotezione. Per prima cosa la paura fa tacere, produce silenzio. Diventò normale il far finta di non sapere. Salvo, è chiaro, per i parenti degli scomparsi”.
Il protagonista del romanzo si chiama Kaddish, come la preghiera ebraica che si recita per i morti: “Che sia chiamato Kaddish per allontanare l'angelo della morte. Un inganno e una benedizione. Che questo bambino sia colui che piange, anziché colui che viene pianto”. Kaddish Poznan, ebreo e hijo de puta battezzato non solo con un nome ma anche con un cognome (“Il rabbino aveva dato a Kaddish il cognome che si confaceva alla leggenda: è stata la città di Poznan a insegnarci che la progenie di un uomo e di una prostituta va a finir male”). Kaddish è l'unico, fra gli eredi di quella Società dell'Impulso Generoso che un tempo vedeva riuniti puttane, ruffiani e ladri ebrei di Buenos Aires, a non vergognarsi delle proprie origini e della propria madre. Gli altri discendenti dell'equivoca confraternita, che a differenza di lui non sono dei perdenti totali e si sono invece fatti strada nel mondo, lo pagano perché penetri di notte nel cimitero dove la gentaglia dell'Impulso generoso è stata sepolta e cancelli dalle lapidi i loro cognomi ormai socialmente promossi e onorati.
Ed è precisamente questo il tema di fondo del romanzo di Englander, la cancellazione del passato. Quella simbolica di un nome da una lapide di cimitero e quella reale: Pato, il figlio di Kaddish e di sua moglie Lillian, viene prelevato da casa da un grupo de tareas e scompare, polverizzato dalla violenza di un regime che non si prefigge di agire solamente sul futuro, ma anche sul passato, per cancellare la memoria delle proprie vittime. Proprio come se esse non fossero mai venute al mondo.
Il Ministero dei Casi Speciali, luogo kafkiano e impenetrabile dove si va a domandare ciò per cui non ci può essere risposta, è il terminale del dolore della famiglia di Kaddish Poznan e di tante altre famiglie di desaparecidos che proprio non potevano far finta di non sapere che i loro cari erano invece esistiti realmente, nel mondo prima della violenza, nel mondo prima della paura.
Nathan Englander è un grandissimo scrittore (innamoratissimo di Gogol, di Cechov e di I.B. Singer, e si avverte eccome) capace di mescolare sapientemente – senza mai dar l'impressione di 'forzare' in qualche modo, insomma... - registri stilistici i più eterogenei, restando sempre in equilibrio perfetto tra comicità e tragedia, tra farsa e denuncia politica, e riuscendo ad essere poetico in un modo tutto suo, tenerissimo e assurdo.
Leggetelo, dai. Ne vale la pena. Trust in tic (che non si dimenticherà tanto facilmente di Kaddish Poznan).

8 commenti:

Anonimo ha detto...

E' potuto accadere che il mondo sia andato a giocare a calcio in Argentina nel 1978 per lo stesso semplicissimo motivo per il quale nessuno oggi si fa nemmeno sfiorare dal pensiero se sia o meno il caso di essere presenti come nazione alle Olimpiadi di Pechino 2008 quando di motivi (per non...) credo ce ne siano a quintalate

Fabio Montale ha detto...

Vedi a volte la combinazione: a Kaddish non sono stato ma a Poznan si, ieri.
Leggero' anche questo, mi piace. Uno che andrebbe letto (potrebbe farlo anche lei invece di fermarsi al suo peggior libro solo perche' ama Stanlio e Ollio) e' il Gordo, Osvaldo Soriano, che non ti parla di Quell'Argentina ma di quella che lui ricorda dall'esilio. Come per il libro (ma ovviamente anche tutti i film) di Coen, l'esaltazione del perdente, che non deve mai provarci pena farsi male o rendersi ridicolo. Tenero.
Anyway, perche' siamo andati in Argentina? Perche' non erano comunisti (due anni dopo alcuni non sono andati in Urss alle Olimpiadi per molto meno)), perche' 'perche' solo noi?', perche' e' un Paese zeppo di Italiani ai quali portare una ventata di casa con la Nazionale e perche' avrebbero potuto scatenarsi anche contro di loro... o forse perche' visto che si tenevano i nostri eroi della strategia della tensione non potevamo fare questo sgarbo. O forse perche' dopo il '77 e dopo Aldo Moro bisognava pur distrarsi.
Resta il fatto che ha ragione Spunto, neanche io andrei in Cina. Ma non per la pena di morte, c'e' anche negli Usa, ma perche' i refai, quelli che ci provano, quelli che ci provano solo perche' hanno appena trovato un sacco di soldi senza meritarseli, mi stanno sul cazzo, grazie a Soriano, e a Coen, e a mille altri.

Anonimo ha detto...

Ah, giusto... la pena di morte... c'è anche quella... ma non solo... comunque ringrazio anch'io per l'interessante post che mi ha dato un ottimo consiglio per la mia prossima lettura

Anonimo ha detto...

linea d'ombra...era una grande rivista.
anche il clamdestino, sempre di fofi, non è male.
e, sprattutto è ancora viva.
(con quante t si scrive soprattutto?)

tic. ha detto...

Spunto... Spunto dovrebbe essere uno nuovo. Se è così, bentrovato...
Quanto all'alligatore (ma chi mai sarà, l'alligatore?), io soprattutto lo scrivo con 4 't'. Non è però un errore, a quanto mi consta, scriverlo con 3 't' (sopratutto).

E sono d'accordo: a Pechino non si dovrebbe andare. E' che lo sport in genere se ne frega, ormai lo sappiamo bene, dei diritti umani violati. Anche se è in grado di mettere sul piatto un sacco di vomitevole retorica della fratellanza...

Soriano è un grande. Leggerò anche altro, lo prometto solennemente al marsigliese, oltre a TRISTE, SOLITARIO Y FINAL. Che però è un romanzo eccezionale...

Anonimo ha detto...

Si, col cavolo!!!

tic. ha detto...

E, senta, mia cara. potrebbe spiegarci perché TRISTE, SOLITARIO Y FINAL non le garba? Io già lo so, ma lo racconti anche agli altri...

Unknown ha detto...

Uno dei motivi per cui a me piace molto TRISTE, SOLITARIO Y FINAL? Perchè la simpatia di Soriano va a Stan Laurel e non a Charlie Chaplin. Scelta che stracondivido.
Luciano / Idefix