sabato 24 maggio 2008

Dell'abiezione. Jacques Rivette e Gillo Pontecorvo

Mi capita spesso di pensare che i critici (i critici cinematografici come i critici letterari) non esistono più: ormai esistono solo recensori.
Magari ottimi recensori, come no...
Fatto sta (è un dato di fatto, appunto), che i critici, beh, i critici ormai son più rari del Gronchi rosa.
Poco male, dite voi?
Può essere. Non discuto.
Certo però che certi critici erano davvero qualcosa di spettacolare.

Ad esempio, Jacques Rivette. Che sul numero 120 dei Cahiers du Cinéma, anno domini 1961, pubblicò una critica memorabile di Kapò, il film di Gillo Pontecorvo.
Ci ho pensato a lungo, devo dire.
Lo pubblico o non lo pubblico, questo prodigio dell'intelligenza (una riflessione, tanto profonda da far venire le vertigini, sul realismo nell'arte, sul punto di vista dell'autore - "male necessario" - e sull'atteggiamento che l'autore dovrebbe avere in rapporto a ciò che filma, ovvero sulle implicazioni che comporta il filmare la morte)?
Poi ho deciso: pubblico.
La domanda che Rivette si è posto, tanti anni fa, mi pare cruciale ancora oggi: se ci si abitua, poco a poco, all'orrore, questo non rischia di finire per far parte del paesaggio mentale dell'uomo moderno? E quindi: "chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi di ciò che avrà smesso in effetti di essere scioccante?".

La traduzione dal francese è di Serena Daniele.




Il meno che si possa dire è che è difficile, allorché si decida di fare un film su un tale soggetto (i campi di concentramento), non porsi certe questioni preliminari: ma tutto accade come se, per incoerenza, stupidità o vigliaccheria, Pontecorvo abbia risolutamente evitato di porsele.
Per esempio, quella del realismo: per molte ragioni, facili da comprendere, il realismo assoluto, o ciò che ne fa le veci al cinema, è impossibile qui; ogni tentativo in questa direzione è necessariamente incompiuto (“dunque immorale”), ogni prova di ricostruzione o di truccatura, ridicola e grottesca, ogni approccio tradizionale dello “spettacolo” fa emergere voyeurismo e pornografia. Il regista si trattiene dal nauseare, perché ciò che osa presentare come la “realtà” sia fisicamente sopportabile dallo spettatore, il quale di conseguenza non può che concludere, forse inconsciamente, che, certo, era penoso, che selvaggi questi Tedeschi, ma tutto sommato non intollerabile, e che essendone avveduti, con un po' d'astuzia o di pazienza, doveva essere possibile trarsene fuori. Allo stesso tempo ciascuno si abitua subdolamente all'orrore, questo rientra poco a poco nelle abitudini, e farà presto parte del paesaggio mentale dell'uomo moderno; chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi di ciò che avrà smesso in effetti di essere scioccante?

E' qui che si comprende che la forza di Notte e nebbia veniva meno dai documenti che dal montaggio, dalla scienza con la quale i fatti bruti, reali, ahimé!, erano offerti allo sguardo, in un movimento che è giustamente quello della coscienza lucida, e quasi impersonale, che non può accettare di comprendere e di ammettere il fenomeno. Altrove si sono potuti vedere documenti più atroci di quelli riportati da Resnais; ma a cosa non si abitua l'uomo? Ora non ci si abitua a Notte e nebbia; ciò che il cineasta giudica è ciò che mostra, ed è giudicato dal modo in cui lo mostra.
Altra cosa: si è citata molto, a sinistra e a destra, e più spesso abbastanza scioccamente, una frase di Moullet: la morale è questione di carrellate (o la versione di Godard: le carrellate è questione di morale); si è voluto vedervi l'apice del formalismo, per quanto se ne potrebbe piuttosto criticare l'eccesso “terrorista”, per riprendere la terminologia paulhaniana. Guardate, tuttavia in Kapò, l'inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sulla recinzione elettrificata; l'uomo che decida, a questo punto, di fare una carrellata in avanti per riprendere il cadavere dal basso verso l'alto, premurandosi d'inscrivere esattamente la mano alzata in un angolo dell'inquadratura finale, quest'uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.


Ci martellano da qualche mese con i falsi problemi della forma e del fondo, del realismo e del fiabesco, della sceneggiatura e della “messa in scena”, dell'attore libero o dominato e di altre scempiaggini; diciamo che è probabile che tutti i soggetti nascano liberi e uguali nel diritto; ciò che conta è il tono, o l'accento, la sfumatura, comunque la si voglia chiamare - vale a dire il punto di vista di una persona, l'autore, male necessario, e l'atteggiamento che questa persona assume in rapporto a ciò che filma, e quindi in rapporto al mondo e alle cose: quello che si può esprimere attraverso la scelta delle situazioni, la costruzione dell'intreccio, i dialoghi, la recitazione degli attori, o la pura e semplice tecnica “indifferentemente ma in egual misura”. Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido; la morte è una di quelle, senza dubbio; e come, nel momento di filmare una cosa così misteriosa, non sentirsi un impostore? Andrebbe meglio in tutti i casi porsi la questione e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si filma: ma è proprio del dubbio che Pontecorvo e i suoi simili sono più sprovvisti.
Fare un film è dunque mostrare determinate cose e, allo stesso tempo e attraverso la stessa operazione, mostrarle da una certa angolazione; questi due atti sono rigorosamente inscindibili. Così come non ci può essere assoluto nella regia, poiché non c'è regia nell'assoluto, allo stesso modo il cinema non sarà mai un “linguaggio”: i rapporti del segno al significato non hanno corso alcuno qui, e non portano che a eresie tanto tristi quanto la piccola Zazie.

Ogni approccio del fatto cinematografico che tenti di sostituire l'addizione alla sintesi, all'unità, ci rimanda subito a una retorica d'immagini che non ha a che vedere con la cinematografia più di quanto il design industriale abbia a che vedere con la pittura: perché questa retorica resta così cara a quelli che si definiscono da soli “critici di sinistra”? Forse perché sono prima di tutto degli irriducibili professori: ma se noi abbiamo sempre detestato, per esempio, Pudovkin, De Sica, Wyler, Lizzani e gli antichi combattenti dell'Idhec è perché il risultato logico di quel formalismo si chiama Pontecorvo. Checché ne dicano i giornalisti, la storia del cinema non si rivoluziona tutte le settimane. La meccanica di un Losey, la sperimentazione newyorkese non li commuovono più di quanto le ondate di scioperi non turbino la pace delle profondità. Perché? C'è che gli uni non si pongono che problemi formali, e che gli altri li risolvono all'origine nel non porsene alcuno. Ma che dicono piuttosto quelli che fanno veramente la storia e che pure chiamiamo “uomini d'arte”? Resnais ammetterà che se il tal film della settimana interessa in lui lo spettatore, è tuttavia davanti ad Antonioni che proverà la sensazione di non essere che un dilettante; così Truffaut parlerebbe senza dubbio di Renoir, Godard di Rossellini, Demy di Visconti; e come Cezanne, contro tutti i giornalisti e i cronisti, fu poco a poco imposto dai pittori, così i cineasti impongono alla storia Murnau e Mizoguchi...

12 commenti:

Anonimo ha detto...

le stesse critiche che fanno a le benevole

Anonimo ha detto...

Non conoscevo il testo (o se l'avevo letto all'Università una trentina d'anni fa l'avevo dimenticato). Hai fatto benissimo a pubblicarlo: solleva problemi attualissimi.
Sono domande che io (che pure seguo con passione l'horror anche orribilissimo) mi pongo: è lecito? Quanto male fa alla coscienza collettiva? La risposta che mi do è: tanto, tantissimo. Il tasso di violenza rappresentata con irresponsabile goduria nei media è tossico. http://lucianoidefix.typepad.com/

Zimisce ha detto...

Concordo con Luciano. Specialmente in una società come la nostra in cui la violenza non è esperita per cui non "ci si fa le ossa". La violenza non è vissuta ma è vista, di frequente e in modo morboso.

Sicché quando poi qualcuno la mette in atto, lo fa come se stesse guardando la televisione. Senza alcun contatto con la realtà. Come quegli stronzi che hanno ammazzato il ragazzo a Verona. O quella somma testa di cazzo che ha messo sotto quella coppietta in scooter ha tirato dritto.

Zimisce ha detto...

E ha tirato dritto. pardon

Anonimo ha detto...

Perdonatemi la parola, ma "moralmente" parlando, direi che anche nella nostra società la violenza è comunque esperita. Non vissuta sulla propria pelle, ma, ancor peggio, a scapito della pelle degli altri. Che poi gli "altri" sono comunque i vari "noi" potenziali di altri tempi o altri luoghi. Tutta questa attenzione morbosa per i dettagli delle aggressioni, per le autopsie - da parte della stampa, dei talk shows, del cinema e della narrativa - mi sembra quasi un tentativo di "sublimazione", per cui è come se un bisogno (innato, compulsivo, indotto - vedete voi) di violenza venisse "elevato" in modo che la sua promozione a livello di arte o, comunque, di finzione, rendesse da un lato l'autore più nobile, in virtù del suo assecondare tali pulsioni, dall'altro lo spettatore meno colpevole nell'atto di abbandonarsi alle proprie reazioni. E qui sta probabilmente la differenza rispetto l'effetto catartico delle antiche tragedie o lo scopo informativo dei veri documentari: in short, produco e guardo perchè in fondo questo piace, non per capirci qualcosa nè per elevare il mio tasso di umanità.
On my opinion.

Zimisce ha detto...

Sì, è quello che intendevo dire quando dicevo che non è esperita ma vista. E' una forma di sublimazione. Tant'è che ogni tanto, come nei casi citati, la sublimazione non basta più e si passa alla pratica.

tic. ha detto...

Ne LE BENEVOLE Jonathan Littell, secondo me (l'ho già scritto) riesce a sfuggire al pericolo di una valorizzazione estetica del male.

Lo sguardo di Pontecorvo, invece, ha trasformato la Shoah in un melodramma, aveva ragione Rivette.

Ma questa è roba vecchia...

Adesso siamo OLTRE.

Trovo che siamo ormai anestetizzati.
Anzi, mitridatizzati.

Quello che sta accadendo in questi giorni in Italia dimostra che non si riesce più a distingure la fiction dalla realtà.
Ne parlerò nel mio prossimo post, credo...

tic. ha detto...

P.S.

Vi voglio bene.

Anonimo ha detto...

Ah mi pareva!
Ho letto il testo dalla fine (fatelo ogni tanto, è utile cambiare prospettiva) e mi dicevo ammazzate ao' 'sto tic allora lo sa scrive' bbbene.
Poi sono arriva alla frase "La traduzione dal francese è di..".
Ohi.
Gettiamo la maschera.

tic. ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
tic. ha detto...

Che simpatica.
E stai diventando sempre più simpatica.
Non eri mica così simpatica quando ti ho sposata...

Anonimo ha detto...

Citando Zazie,
simpatica mon cul.