martedì 30 ottobre 2007

Io sono un malfattore

Chi sparge l'impostura
avvolto in nera veste,
chi nega la Natura
sfuggiam come la peste.
Sprezziam gli dèi del cielo
e i falsi lor cultori;
del ver squarciamo il velo:
perciò siam malfattori.



Inno dei Malfattori (canto anarchico – 1892)





Il testo di questo canto venne scritto da Attilio Panizza (un operaio decoratore marmista che ricoprì un ruolo importante nell'anarchismo milanese) in occasione delle leggi repressive e dei conseguenti processi per "associazione di malfattori" che si svolsero contro gli anarchici e i socialisti, e fu pubblicato per la prima volta il 29 maggio 1892 ne "L'Amico del Popolo" (numero unico, stampato a Milano) .
Erano anni in cui si poteva ancora essere amici del popolo. Adesso come caspita si potrebbe mai dire un cosa del genere (al di là del rimando a Marat, decisamente demodé. E chissà quanti, ormai, sanno coglierlo...)?
Ma lo avete mai visto il popolo, da Maria De Filippi? Avete visto com'è conciato? Chi cazzo può aver voglia di liberare dalle loro catene questi decerebrati che si esprimono a grugniti, a suoni inarticolati, come fossero dei pitecantropi; questi energumeni tutti decorati, dalla testolina vuota ai piedi inevitabilmente puzzolenti, di tatuaggi tribali; queste povere sciacquette - povere, povere, povere anime - che nemmeno ci provano a farsi rispettare come persone, più che come donne, e sono solo - povere, povere, povere anime - carne da cannone buona neanche per esser sbranata da Rocco Siffredi. Eh? Chi mai può aver voglia?


Pubblicherò magari tutto quanto l'Inno dei Malfattori in un prossimo futuro.
Per ora, solo una strofa. Giusto per commentare l'ultima uscita dell'antiliberale Joseph Ratzinger, che chiede di estendere anche ai farmacisti il diritto all'obiezione di coscienza già riconosciuto ai medici antiabortisti.
Potrei sbattermene allegramente delle cose che dice il capo dei cattolici, dato che sono ateo (non orgoglioso di esserlo, eh... Non direi mai una cazzata simile. Sarebbe giusto come dire "orgoglioso di essere eterosessuale"). Ma proprio non posso far finta di non sentire. Soprattutto sapendo quanto la politica in Italia sia debole (debole lo è in generale, comunque. E non solo, ahi ahi ahi, in Italy) davanti ai desiderata del Vaticano. Tra chi applaude (la destra divorziata), chi si oppone folcloristicamente (comunisti assortiti, sempre tanto teatrali e scoppiettanti, socialisti assortiti, sempre tanto, tanto teneri ma un po' patetici e Marcogiacinto col suo movimento - sua proprietà privata - transnazionale e liberalelibertinolibertario) e chi "si pone in rispettoso ascolto di quello che è comunque un magistero autorevole, perché la parola del papa è comunque da ascoltare nella sua dimensione pastorale e profetica" (e parlo del mio partito, il NUOVO PARTITO DEMOCRATICO TUTTO MAIUSCOLO, il mio partito COMUNQUE DEMOCRATICO, con il suo leader COMUNQUE SEMPRE OVUNQUE QUANTUNQUE COMUNQUE. Il mio partito che è tanto MODERNO (COMUNQUE), anzi tantissimo modernissimo, e quindi ad oggi ancora non si sa se si potrà richiederne la tessera: non ci sono tessere da richiedere, per ora, comunque quantunque forse si, chi lo sa, in fondo quando smetterò di fare il sindaco di Roma io andrò in Africa. Garantito).


Io non mi metterò in ascolto.
Io starò nel NUOVO COMUNQUE PARTITO fino a quando mi diranno, o da solo mi dirò (più facile), che è ora di togliersi di torno. Nel frattempo, non sarò politically correct con i papisti. Manco per il cazzo. E se mi accuseranno di essere nel mio piccolo (nel mio infimo) un impiccio al dialogo con i cattolici e di non fare le cose nel modo giusto, anzi COMUNQUE GIUSTO, io dirò ok, volentieri: le cose preferisco farle male.
Perché, eh si, io sono un malfattore.

Questo sono io, a Roma. Campo dei Fiori. Sotto la statua di Giordano Bruno, martire del libero pensiero.
Bruno. Non uno qualunque. Non uno comunque.

domenica 28 ottobre 2007

Dichiariamo guerra al popolo?

Oggi "la Repubblica" titola "Erba, curiosi in fila per avere i biglietti".
Il giornale informa che il 29 gennaio si terrà al Palazzo di giustizia di Como la prima udienza del processo per la strage di Erba.
Bene. Pare che da qualche giorno, ogni mattina, ci sia della gente che si presenta all'ingresso del tribunale e chiede di poter prenotare un posto nell'aula dove fra qualche mese compariranno i due subumani che hanno sterminato quattro loro vicini di casa tra cui un bimbo piccolo (sul caso è appena uscito per Mondadori "Vicini da morire" di Pino Corrias. Mia moglie l'ha letto e le è piaciuto).
Le domande più comuni rivolte alle guardie giurate che fanno la guardia all'entrata dell'edificio sono le seguenti: "Dove si ritirano i biglietti per il processo di Erba?"; "Come si prenota?".
Si prevede che sarà come per il processo alla Franzoni, con la gggggggggggente ordinatamente in fila a prendere il numero per poter entrare tutti assieme in un tribunale della Repubblica che, agli occhi della folla tumultuante, deve rappresentare una sorta di surrogato dello studio televisivo di PORTA A PORTA.
A me tutto ciò fa vomitare. O, per meglio dire, ho più rispetto per un gatto o un cane che per questa manica di untermenschen. Ma non è questo il punto, adesso.

Ieri un mio caro amico mi ha suggerito che dovrei promuovere qualche sondaggio, sul mio blog.
E sia!!!!!!!!
E' un sondaggio pensato per chi mi assomiglia, ovvio.

La domanda è la seguente:"Per quale buona causa dichiarereste guerra al popolo?" (il popolo. La famosa ggggggggggggggente. Ci intendiamo, no?)


Esempio: "Io dichiarerei guerra al popolo per colpa di quelle due cazzo di gemelle di Garlasco che, mentre venivano intervistate dai giornalisti sull'omicidio della cugina, trovavano il tempo per distribuire curricula professionali: vedi mai vedi mai vedi mai, se Padre Pio mi aiuta, che io trovi un lavoro a STUDIO APERTO di ITALIA 1!!!!!!!!!!! Anzi: ma quale lavoro?!? Vedi mai che mi riprendano con le telecamere!!! Vedi mai che io finisca in televisione!!!!!! Tanto ormai pagano anche solo per finirci, in televisione: a far che non importa. A che cazzo serve saper FARE qualcosa?".
Sono stato chiaro, si?

Accorrete numerosi.


giovedì 25 ottobre 2007

Nichilismo (ovvero: molto, ma molto, meno di zero)





Guardate questa faccia da politburo de noantri. Non l'ha pensata Giovannino Guareschi. E' uscita proprio così. Giulietto Chiesa dicono sia un giornalista. E' stato per anni corrispondente da Mosca per l'Unità (giornalista embedded? Ma che andate a pensare? I comunisti, in Italia, sono stati i VERI liberali: perciò Chiesa era - ed è - un uomo libero. E dunque se avete pensato anche qualcosa del tipo "Chiesa? Nomen omen?" siete solo dei malpensanti). Poi è passato a LA STAMPA. Poi, lo confesso, l'ho perso di vista. So però che da qualche anno è eurodeputato. Ignoro chi/che cosa rappresenti. Qualche anno fa questo compagno (di innumerevoli merende, immagino) se ne andava in giro per il mondo con Achille Occhetto (e se al suono di queste due parole i maschietti sono corsi a toccarsi gli zebedei, beh, hanno tutta la mia comprensione) a far che non saprei. E con la biografia possiamo fermarci qui.

Il bel tomo di cui sopra ha firmato un documentario che si intitola Zero. Opera che sarà osannata, nei prossimi giorni, dal Manifesto, da Liberazione, dal Tg3, da Santoro ad Annozero (tra zeri ci si intende), forse persino dal Flores d'Arcais su Micromega (altro liberale che se lo dice da solo) e peccato che non c'è più Diario, sennò pure loro.



La regia di Zero è di Franco Fracassi e Francesco Trento. La produzione è di Thomas Torelli per "Telemaco", con il sostegno di 400 piccoli azionisti popolari (la società civile! Il "ceto medio riflessivo" del professor Ginsborg! Wow!). Zero è diventato pure un libro (minchia!!!!!) per l'editore Piemme. Zero si propone come "la più approfondita inchiesta mai svolta sull'11 settembre" (e sti cazzi!!!! Sti cazzissimi!!!!!!!). La tesi di fondo di zero Chiesa? Presto detto: tutto quello che pensavate di sapere sull'11 settembre, voi poveri illusi, voi manipolati da un sistema informativo di proprietà del Capitale, E' FALSO. L'attentato alle Twin Towers e quello al Pentagono sono stati pianificati e messi in atto da qualcuno (QUALCUNO NELL'OMBRA... Brrrrrrrrrrr) con l'intento di fabbricare il casus belli per un conflitto da cui l'Impero Americano prevedeva di uscire vincitore e perciò in grado di dominare il mondo (brrrrrrrrrrrrrrrr. E ancora brrrrrrrrrrrrrr). E adesso beccatevi questo sillogismo vertiginoso del filosofo Chiesa: " Se è vero come è vero che la guerra in Iraq è stata costruita su una menzogna, questa circostanza non può che essere la prova indiretta della menzogna che ne è stata a monte: la versione ufficiale sui fatti dell'11 settembre". Che raffinatezza intellettuale, nevvero?
Su la Repubblica Carlo Bonini ci informa che "per due ore le voci del Nobel Dario Fo, di Lella Costa e Moni Ovadia fanno da raccordo a immagini e testimonianze che aggrediscono la versione ufficiale offerta dall'amministrazione americana, dalla commissione d'inchiesta del Congresso, dalle agenzie federali che, a diverso titolo, hanno lavorato ai fatti e alle responsabilità del martedì di sangue delle Torri Gemelle e del Pentagono, riducendola ad una barzelletta per gonzi". Dispiace un po' di vedere un uomo intelligente, colto e ironico come Moni Ovadia coinvolto in Zero. Non ci si stupisce di trovarci Dario Fo (e peccato manchi Franca che però è assente giustificata: sta a piangere in Parlamento perché la politica, sapesse contessa, è tanto ma tanto sporca). Ci si chiede come mai non ci siano Sabina Guzzanti e Gianni Minà, che avrebbero potuto offrire un grande contributo. Bonini annota che il montaggio dei materiali del documentario "decide di fare a meno di ogni contraddittorio documentale e testimoniale che pure esiste ed è copioso (dando così per acquisita e nota al grande pubblico la ricostruzione ufficiale dei fatti)"; e fa rilevare, sommessamente, che "l'organizzazione di un complotto per coprire ciò che sarebbe davvero accaduto l'11 settembre avrebbe dovuto coinvolgere un tale numero di funzionari civili e militari, nell'amministrazione, nei servizi di sicurezza, nella Forze armate, da rendere impossibile qualsiasi tentativo di "cover-up". Dunque come è potuto accadere che in sei anni nessuno abbia visto, sentito, raccontato?".




Illuso, illuso Bonini. Ma non lo sa che gli americani sono un popolo intrinsecamente malvagio? Eh? Non lo sa? Chiesa invece ne è DOLOROSAMENTE (perché i comunisti son persone che soffrono) consapevole. E la sua missione di militante nelle Forze del Bene consiste nel dimostrare al mondo intero che Adolf Hitler è venuto al mondo nel Wisconsin.
Zero piacerà un sacco, America merda, a quelli che proprio non sono disposti a bersela. E non sono nemmeno disposti a transigere. Perché sanno, fortissimamente sanno, che UN ALTRO MONDO (e sticazzi!!!!! Sticazzissimi!!!!!!!!!) E' POSSIBILE.

Alla fine, un consiglio di lettura da un (incazzatissimo, una volta tanto) Tic.
Recuperate, se potete, quello straordinario racconto che è "Il libro dei re e degli sciocchi" di Danilo Kis. Lo trovate in "Enciclopedia dei morti", Adelphi, 1984.
Racconta la storia dei "Protocolli dei savi anziani di Sion". Perché non penserete mica che il mare di merda partorito da Giulietto Chiesa sia poi tanto diverso dai "Protocolli", vero?

Nichilismo: dottrina basata sulla svalutazione radicale della realtà e dei valori in essa contenuti.
P.S.
E' possibile, possibilissimo, parlare male di un documentario che NON SI E' VISTO né mai si vedrà. Basta avere un buon naso, per sentire la puzza di merda. Non occorre vederla, la merda.

martedì 23 ottobre 2007

Nel Paese dei fregnacciari

"L'Italia non è un Paese povero. E' un povero Paese."
(Charles De Gaulle)

Oggi su "la Repubblica" Filippo Ceccarelli racconta una storia molto istruttiva.
Nel 1973 ci fu uno sciopero generale dei lavoratori delle costruzioni. Il capo della Digos a Roma, Bonaventura Provenza, e il questore Giuseppe Parlato incaricarono in quell'occasione un giovane funzionario della Ps, Carlo De Stefano, di contare - letteralmente - quanti fossero gli scioperanti presenti nel luogo della manifestazione. Che era Piazza San Giovanni in Laterano.
Come fare?
De Stefano, futuro e attuale direttore dell'Ucigos, escogitò allora un metodo che fece di lui, scrive Ceccarelli, "il maggior conoscitore delle piazze romane, vuote e piene, deserte o stracolme che siano". Si trattava di calcolare la metratura esatta di uno spazio e di misurarne poi la densità. In ogni metro quadrato possono stare, in genere, dalle tre alle quattro persone: dato incontestabile, stante l'impossibilità per dei corpi solidi di compenetrarsi. De Stefano cercò di tener conto anche di altre variabili: la posizione del palco degli oratori in Piazza San Giovanni (che può essere più o meno vicino alla Basilica), la dislocazione della folla nelle vie laterali, l'ampiezza e la velocità del corteo (Ceccarelli, en passant, fa notare che i cortei di un tempo erano più compatti di quelli odierni, sfilacciatissimi invece). Sotto quest'ultimo aspetto va rilevato che il parametro di raffronto è il tempo di deflusso dello Stadio Olimpico (80 mila posti) dopo una partita di grande rilievo (mettiamo Roma-Lazio).
Tutti questi elementi devono poi essere messi in relazione con l'afflusso dei pullman (calcoliamo 50 persone a pullman) e dei treni straordinari (13 carrozze fanno tra le 700 e le 900 presenze).
De Stefano - che non potendo usare un elicottero scrutò il tutto da un terrazzo - comunicò perciò a Provenza e Parlato che quel giorno del 1973 i partecipanti alla manifestazione di Piazza San Giovanni erano dagli 80 ai 90 mila. Il sindacato, quella volta, ne dichiarò 300 mila.
Quindi da allora SI SA che Piazza San Giovanni in Laterano - ma deve essere proprio stracolma - ospita al massimo 150 mila individui. Non ci sta perché non ci può stare, dunque, il milione e mezzo di persone dichiarato dagli organizzatori del Family day dello scorso maggio.
Altri dati? Piazza Navona può contenere tra le 80 e le 90 mila persone. Piazza del Popolo 60 mila. Il Circo Massimo NON RIESCE proprio ad ospitare più di 300 mila unità, a dispetto dei tre milioni propagati dalla Cgil in occasione della manifestazione contro le modifiche al mitico articolo 18 (ma chi se lo ricorda?) del marzo del 2002. Annota il brillante (pure troppo, a volte) Ceccarelli: "Fu quella certamente fra le più affollate manifestazioni della storia repubblicana. Eppure, rispetto ai criteri di comunicazione propagandistica, per non dire bugiarda, ciò che più fa riflettere è che il coefficiente di scostamento numerico è passato da uno a tre degli anni sessanta a uno a dieci di oggi".
Un'ulteriore cifra truccata? Alleanza Nazionale due settimane fa ha dichiarato che alla manifestazione del Colosseo ha partecipato mezzo milione di persone. Secondo il metodo De Stefano si può dire che erano 70, al massimo 80 mila.
E per finire in gloria, "Siamo un milione!!!!!" (e un sapido "sti cazzi" ce lo metto proprio volentieri) ha gridato qualcuno dal palco della GRANDE MANIFESTAZIONE POPOLARE DELLA SINISTRA RADICALE ANZI DELLA VERA SINISTRA in Piazza San Giovanni sabato scorso. In realtà coloro che non sono disposti a transigere erano tanti, certo: ma non più di 150 mila.
Concludendo? Beh, concludendo in Italia abbiamo una stampa che certi calcoli finge di non saperli fare (Ceccarelli costituisce eccezione, ovviamente) perchè non è abituata a far domande ai politici, di sinistra o di destra che siano. Quindi i suddetti politici, di sinistra o di destra che siano, possono tranquillamente mettersi a fare a gara a chi la spara più grossa essendo ben certi che ogni cazzata passerà impunita.
In coda, Fulco Pratesi: "Consiglio a tutti coloro (organizzatori, cronisti, autorità) che parlano di un milione di partecipanti a questa o quella manifestazione di piazza, di assistere un giorno ad una partita di pallone nello Stadio Olimpico di Roma (...). E poi di calcolare quanto spazio può occupare in città una folla pari a 12 volte il pubblico di tifosi che riempie le gradinate dello stadio (circa 100 ettari). Se veramente si volesse sapere quanta gente è scesa in piazza basterebbe utilizzare il sistema usato dagli ornitologi per calcolare il numero degli individui in uno stormo di uccelli. Scattare una foto dal cielo, suddividere la folla in quadrati equivalenti, contare quante persone sono presenti in un singolo quadrato e moltiplicarle per i quadrati. Troppo difficile?".
Domanda retorica. Credo infatti che Pratesi sappia che dei fatti, in Italia, non importa un cazzo a nessuno.
Il nostro povero Paese: gli Stati Uniti della Fregnaccia.

sabato 20 ottobre 2007

Il Prence



Il titolo con Saint-Exupery c'entra qualcosa? E a Machiavelli qualche rimando?
Boh! Chi lo saprà mai? Di comprare il libro non se ne parla proprio. E non mi passa per la testa neppure di sfogliarlo in libreria. Dunque ignorerò per sempre se il titolo di questo lavoro abbia o meno un intento celebrativo. Sia o meno una presa per i fondelli. A naso direi che è un'opera simpatizzante: infatti l'oggetto dell'indagine dei tre autori (perché ci si sono messi in tre) ha tantissimi amici. Ovunque.
E degli amici non si parla mai male.
Detto ciò, mi permetto di suggerire qualche titolo per future biografie del Prence in questione:


1 - "Il primo tifoso della Juventus" (dopo la morte dell'Avvocato il titolo appartiene a lui: no contest);


2 - "Il Kennedy ufficioso";


3 - "Mai stato comunista. Walter Veltroni dalla Nutella al cielo";


4 - "Al potere preferisco l'Africa" (questa magari non la capiranno tutti).


venerdì 19 ottobre 2007

Un poeta

Julio Cortàzar è stato sepolto a Parigi, nel cimitero di Montparnasse. Riposa assieme alla sua terza moglie, Carol Dunlop. Sulla tomba c'è una piccola scultura, che non si capisce bene se rappresenti un fiore o un sole che sorge. Mia moglie E. dice un bruco, o una nuvola.
Il suo ultimo libro, "Salvo el crepùsculo", alternava prosa e poesia e uscì postumo. Il titolo era tratto da un brevissimo componimento del giapponese Basho: "Questa strada/ non la percorre più nessuno/ salvo il crepuscolo".
Secondo lo scrittore uruguaiano Mario Benedetti si tratta del libro più soggettivo di Cortàzar: una confessione a cuore aperto, succedaneo - l'unico succedaneo possibile - di quell'autobiografia che Julio Cortàzar non scrisse mai.
Qui di seguito, due poesie di questo grandissimo scrittore. Tradotte da Danilo Manera.



Dopo le feste
E quando tutti se ne andavano
e restavamo in due
tra bicchieri vuoti e portacenere sporchi,
com'era bello sapere che eri lì
come una corrente che ristagna,
sola con me sull'orlo della notte,
e che duravi, eri più che il tempo,
eri quella che non se ne andava
perché uno stesso cuscino
e uno stesso tepore
ci avrebbero chiamati di nuovo
a svegliare il nuovo giorno,
insieme, ridendo, spettinati.

Il bravo bambino
Non saprò slacciarmi le scarpe e lasciare che la città mi morda i piedi,
non mi ubriacherò sotto i ponti, non commetterò errori di stile.
Accetto questo destino di camicie stirate,
arrivo puntuale al cinema, cedo il posto alle signore.
Il prolungato scompiglio dei sensi non fa per me, opto
per il dentifricio e gli asciugamani. Mi vaccino.
Ma tu guarda che povero amante, incapace di entrare in una fontana
per portarti un pesciolino rosso
tra la rabbia di gendarmi e bambinaie.

giovedì 18 ottobre 2007

Non ci sono. Me ne sono andato.

"Se non dovessi tornare,

sappiate che non sono mai partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai."
(BIGLIETTO LASCIATO PRIMA DI ANDAR VIA
di Giorgio Caproni)



Mi tocca proprio - perché già qualche giorno fa avevo eccetera - riparlare di Bob Dylan. Non riesco ad evitarlo.
Visto lunedì sera "I'm not there" di Todd Haynes.
Vado subito al sodo: ne consiglio la visione solo ed esclusivamente ai dylanologi di stretta osservanza.
O meglio, solo a coloro i quali sono in grado di rispondere senza tentennamenti alle seguenti domande:
1 - Cos'è TARANTULA?
2 -Perchè Richard Gere, uno degli interpreti del film, ha pensato bene di raccontare in una conferenza stampa di essersi letto, dietro suggerimento di Haynes, il libro di Greil Marcus "The Invisible Republic" (conosciuto anche, o soprattutto, come "That old, weird America", tradotto in italiano da ARCANA come "Quella strana, vecchia America")? Ovvero: ma cosa diamine sono i "Basement tapes"?
3 - Chi era Albert Grossman?
4 - Di che caspita canta Dylan in "Idiot wind"?

E (ma queste sono più facili),
5 - Che cosa accadde al Festival di Newport? Ovvero: ma perché Pete Seeger si incazzò così tanto con Dylan?
6 - Che c'entrano Woody Guthrie e quella sua chitarra che, perdio, "ammazzava i fascisti", con Bob Dylan?


Todd Haynes è un dylanologo impenitente. Sa che Dylan ha vissuto molte vite, beato (forse...) lui. E lo dice subito, ai titoli di testa, che "I'm not there" è ispirato "alla musica e alle molte vite di Bob Dylan". E sa pure che il suddetto, come disse qualcuno non ricordo chi, ha tanti di quei lati da risultare alla fine sferico, beato (forse...) lui.
Haynes ci prova a misurare qualche lato di Bob Dylan. Ci prova sul serio ad inseguirlo e a fermare qualche fotogramma di un altro film, quello che Dylan stesso ha diretto e interpretato per quasi cinquant'anni recitando innanzitutto se stesso e comunque la parte di altri cento personaggi. E prova anche a rintracciare e registrare le centinaia di voci con cui Dylan ha cantato: da quella di Robert Johnson a quella di Walt Whitman, passando per quella di Mississippi John Hurt e di Sleepy John Estes, di Arthur Rimbaud e di Charlie Poole. Tutti cittadini di quella repubblica invisibile di cui ha detto Greil Marcus.
E sa, Haynes, che Dylan è un tipo sfuggente. Tu arrivi in un luogo dove sei sicuro di trovarlo e lui non c'è, se n'è appena andato. E allora ti metti sulle sue tracce e lui magari alla fine ci ritorna, in quel posto. O forse non se n'era mai andato per davvero, da quel posto, ma era sempre stato lì ed eri tu a non vederlo, nascosto com'era dietro tutte le sue maschere.

"Ho affrontato tutto questo come se dovessi scrivere una tesi di laurea. Però non volevo che il film fosse un saggio. Volevo ricreare la sensazione di ESSERE davvero negli anni sessanta e settanta, volevo far sentire l'aria del tempo, portare lo spettatore nella pelle di Dylan e fargli percepire anche tutte le pressioni che Dylan ha subito. Per ottenere questo non potevo fare un biopic, un film biografico tradizionale. I biopic tendono a ridurre, a sintetizzare una vita in alcuni episodi, e alla fine danno per lo più una lettura univoca del personaggio che mettono in scena. Io volevo fare un film dalla struttura aperta, che espandesse il personaggio anziché restringerlo, che ne restituisse la complessità e le contraddizioni. Facendolo interpretare da sei attori, è come se volessi suggerire che in certi momenti della sua vita Dylan è una cosa, ma subito diventa una cosa completamente diversa" (et voilà: dalla viva voce del regista. Fonte, IL MUCCHIO SELVAGGIO, n. 639 - ottobre 2007).


A fare un film biografico non tradizionale Haynes c'è pienamente riuscito, secondo me. E pure a scrivere una tesi di laurea. Di incredibile acribia. Epperò verbosa assai. E macchinosa la sua parte.
Entusiasmante, per un iniziato (snob) come Tic. Molto meno, immagino, per chi di Dylan conosce giusto quelle quattro canzoni di cui una è "Blowin' in the wind", magari imparata, frequentando ambienti A.G.E.S.C.I., in agghiacciante traduzione italiana.
Concludo scrivendo che Cate Blanchett è davvero inquietante e che Dylan pare abbia gradito l'inseguimento di Todd Haynes. Ma sembra che - almeno fino a qualche giorno fa era così - non abbia ancora visto il film.















mercoledì 17 ottobre 2007

A proposito (di canzoni e) di maratoneti



In questi ultimi giorni la melodia di "Tom Courtenay" degli YO LA TENGO (da "Electr-o-pura", il loro disco del 1995; ripresa poi in quella strepitosa antologia che è "Prisoners of love" del 2005 ) mi ha perseguitato ferocemente. Manco fossi un cristiano ai tempi di Diocleziano.
E insomma, grazie agli YO LA TENGO ho pensato molto a Tom Courtenay.

E non intendo adesso la loro bellissima canzone (che comincia con le parole "Julie Christie, the rumors are true/as the pages turn, my eyes are glued"). No. Intendo proprio Tom Courtenay l'attore.

E, pensa che ti pensa, mica mi sono fermato: dal Tom Courtenay attore, infatti, sono passato al regista Tony Richardson. E da Richardson sono finito dritto dritto ad Alan Sillitoe. Insomma un bel casino, in cui voglio provare a mettere ordine.

Il 5 febbraio 1956 - anno fatidico per un sacco di motivi, lo sappiamo - vennero presentati a Londra, al National Film Theatre "O Dreamland" di Lindsay Anderson, "Momma don't allow" di Karel Reisz e Tony Richardson e "Together" di Lorenza Mazzetti, tre cortometraggi destinati a ribaltare le sorti di un cinema britannico che in quegli anni si presentava assai depresso e duramente provato dalla scarsa affluenza di pubblico (basti pensare solo a questo dato: da 1.396 milioni di biglietti del 1950 si passa ai 501 milioni staccati nel 1960).

L'effetto della serata fu veramente dirompente. Per l'occasione qualche bello spirito coniò il nome, assai epigrafico, per così dire, di "free cinema". Durante la proiezione fu distribuito un volantino in cui si sottolineava come tutti i film presentati fossero stati "prodotti al di fuori del normale ambito industriale. Questo ha permesso agli autori di poter esprimere punti di vista strettamente personali". E vi si affermava che "la perfezione non è nei nostri propositi": lo è "il credere nella libertà, nell'indipendenza dell'uomo, nel significato della vita di ogni giorno".


Ecco. Artisti della settima arte lontani dall'industria cinematografica e indipendenti, per una lezione di cinema di impronta realistica: anche crudamente e violentemente realistica, se proprio vogliamo dircela tutta. Dopo una serie di documentari, il "free cinema" esplose con quel manifesto che fu il lungometraggio "Look back in anger", del 1959 (tradotto nell'idioma gentil, sonante eccetera come "I giovani arrabbiati"). E il realismo diventava provocazione, ribellione anarcoide alle convenzioni borghesi.
I registi del "free cinema" giravano spessissimo in esterni. A volte nelle periferie più depresse, negli slums più popolari. Storie che spesso avevano nella letteratura le loro fonti.
Tony Richardson attinse da John Osborne e Alan Sillitoe.
"The Loneliness of the Long distance Runner" (in Italia, chissà perché "Gioventù, amore e rabbia". Che a me suona un po' come "Pane, amore e fantasia") fu uno dei caposaldi del cinema degli Angry Young Men. Lo interpretò (ci siamo, adesso ci siamo proprio) quello straordinario attore (quello straordinario volto) che era Tom Courtenay (un working class hero della più bell'acqua, tra l'altro).

Il racconto di Sillitoe da cui è tratto il film uscì nel '59. Ed è un capolavoro come il film di Richardson. Ma davvero.

Protagonista il giovane Smith, che non è precisamente un bravo ragazzo. Dopo un furto in una panetteria, finisce a Borstal, un riformatorio modello. Ha doti da buon fondista, gliele scoprono e il direttore, che vuole vincere la coppa sportiva delle prigioni, lo lascia allenare tranquillamente: lunghe corse per la campagna fredda e deserta. E nella corsa a Smith resta tanto tempo per pensare e per architettare la sua guerra, le sue beffe: "Il panciuto direttore dall'occhio bovino disse a un panciuto deputato dall'occhio bovino che sedeva vicino a quella puttana panciuta dall'occhio bovino di sua moglie che io ero l'unica speranza per conquistare la Coppa Nastro Azzurro Borstal Per La Maratona (gara aperta a tutta l'Inghilterra), il che era vero, e mi fece scoppiare in una risata, nell'intimo, e io non dissi a nessun bastardo panciuto dall'occhio bovino una parola che potesse dar loro una vera speranza, pur sapendo che tanto il direttore credeva che il mio silenzio volesse dire che lui aveva quella coppa già piantata sulla nel suo ufficio tra gli altri due o tre trofei muffiti" (da "La solitudine del maratoneta", di Alan Sillitoe, prima edizione italiana nei "Coralli" Einaudi, 1964. Cito dall'edizione "Nuovi Coralli" del 1981, pag. 47 ).
Ma non ce l'avrebbe avuta, nel suo ufficio, quella coppa, il direttore di Borstal. Proprio no. Smith non ha intenzione di far contento proprio nessuno, e fanculo a tutti quanti: "No, quella coppa non gliela farò vincere, anche se lo stupido bastardo che s'arriccia i baffi ha riposto in me tutte le sue speranze" (pag. 16).
E quando c'è la gara, ed è lì lì per vincerla, Smith rallenta. E si fa superare: "non farò gli ultimi cento metri a costo di sedermi a gambe incrociate sull'erba e di farmi tirar su e trasportare fin là di peso dal direttore e dai suoi accoliti senza il mento, il che è contro le loro regole dunque potete scommettere che non lo farebbero mai perché non sono tanto in gamba da infrangere le regole" (pag. 62).

E dunque, fanculo a tutto e a tutti. Ma proprio a tutto e a tutti. E grazie ancora agli YO LA TENGO. Per i bei pensieri.


martedì 16 ottobre 2007

Il Donadoni censurato

Alla vigilia della partita di calcio Italia-Georgia il Commissario Tecnico della nostra Nazionale dichiara - ad Enrico Varriale, inviato di Rai Sport - che sarebbe andato volentieri a votare alle primarie del PARTITO DEMOCRATICO (tutto maiuscolo) se non fosse stato bloccato in ritiro. Ma i telespettatori del Tg2 quando il servizio di Varriale è andato in onda, sabato 13, non hanno potuto sentire né la domanda del giornalista né la risposta di Roberto Donadoni. Il direttore del telegiornale in questione Mauro Mazza (neofascista in gioventù, ora in carico ad An) ha deciso di tagliare entrambe prima della messa in onda. Di conseguenza, vibranti proteste da parte di molti dei redattori di Tg2 e Rai Sport: sospettano che Mazza avrebbe sforbiciato (Enrico Varriale e) Donadoni perché convinto che le parole del Ct avrebbero potuto portare tanti tifosi ai seggi delle primarie.


Com'è, come non è, a me di sapere se c'è stata censura non importa un benemerito.

Piuttosto mi chiedo e chiedo: come ce lo immaginiamo un tizio che va a votare per Veltroni, per Rosibindi e per chi volete voi solo perché Roberto Donadoni ha detto che lui ci sarebbe andato a votare, eccome, se solo avesse potuto farlo?

venerdì 12 ottobre 2007

IL PARTITO DEMOCRATICO ( notare i caratteri maiuscoli, prego...)

Una volta, quando pensavo al Partito Democratico, la mia mente correva immediatamente alla vita e all'opera di questo signore.











E' il Presidente FRANKLIN DELANO ROOSEVELT.



Oppure pensavo a questo signore, il Presidente JOHN FITZGERALD KENNEDY.











O magari al Presidente LYNDON B. JOHNSON.











O, male che andasse, al vispo Presidente CLINTON.









Adesso, invece, quando penserò al PARTITO DEMOCRATICO (tutto maiuscolo, perdio!), la mia mente andrà inevitabilmente a LUI, alla sua vita, alle sue opere (anche letterarie!!!!!!!!!!!!!!!!).

W. (He is THE BOSS. The real Boss, I mean. Tanto real che, in confronto a W., Bruce Springsteen pare Enzo Ghinazzi, in arte Pupo. Come canta bene W., eh?).






Oppure penserò a lei.






La signora Rosibindi (questo è il cognome. Come fa, di nome? Marcella, vero? O forse Jole?).


O magari a lui.







Coso (che oggi notifica: "In questo momento sta nascendo un bambino" e domani senz'altro lo si vedrà in giro a chiedere: "Scusate, ma in che modo nascono i bambini? Mi piacerebbe un sacco saperlo!!!". Bene, io mi candido a spiegarglielo. Qualcuno glielo faccia sapere, a Coso).


O, con sincera gratitudine, a lui.







Il sergente Garcia (ah, se potessi incontrarlo!!! Gli chiederei: "Sergente, ma dove caspita lo ha lasciato, il caporale Reyes?").


Ma c'è anche Piergiorgio Gawronski!!!!!!







Non ho trovato una sua foto, perciò inserisco quella di suo zio Jas.

E c'è pure, dulcis in fundo, Jacopo Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare (un finanziere, mi dicono. A dimostrazione che nel PD ci possono stare anche gli uomini in divisa: gente che giammai, lo sappiamo, si farebbe vedere in giro con dei comunisti. In questo caso particolare, stiamo parlando di un uomo delle Fiamme Gialle. La sua fotografia è più grande delle altre qui presenti perché sta nelle mani operose di Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare, in tutta evidenza, il futuro del partito).
















E son proprio bei tempi, non c'è che dire.



C'è un lupo dentro Lindsey




"The wolf that lives in Lindsey" è una canzone di Joni Mitchell. La trovate in un suo lavoro del 1979 che si intitola MINGUS, un omaggio a quello che è stato forse il più grande contrabbassista della storia del jazz e sicuramente uno dei più grandi compositori del Novecento, non solo in ambito jazz. Genio disadattato e infelice, uomo dolcissimo e intrattabile allo stesso tempo, violento e generoso, sincero e spietato (ci ha lasciato, oltre a musica sublime, un testo autobiografico davvero memorabile, "Beneath the underdog", pubblicato nel 1971. Il titolo italiano è "Peggio di un bastardo". In catalogo ce l'ha MARCOS Y MARCOS. Caldamente raccomandato anche se, puta caso, di contrabbassisti jazz non ve ne importasse proprio nulla).


E insomma la signora Mitchell, si diceva.

E Lindsey.

La canzone è l'unica in MINGUS ad essere interamente firmata da Joni Mitchell (le altre hanno musica di C.M. e di J.M. solo parole).

Ed è una delle canzoni più inquietanti che io abbia mai ascoltato. Un pezzo con lupi che ululano e la chitarra in accordatura aperta con Mi basso digrignante. Perché, credetemi, è così: le corde dello strumento digrignano. E ci si mette anche la performance vocale di Joni Mitchell, che a volte sembra un po' lamentosa, fino ad apparire in qualche modo ululante.

Comincia così: "Of the darkness in men's minds/ what can you say...". E racconta di Lindsey che "loved the ways of darkness" e ha un lupo nel cuore.

"There lives a wolf in Lindsey/ that raids and run/ through the hills of Hollywood/ and the downtown slums". Lindsey va a caccia. E uccide. Meglio: ama uccidere.

Semplicemente una canzone su un serial killer?
No, qualcosa di più: una canzone sull'istinto, su "the inner laws of spirit/ and the outer laws of nature" che nessun uomo, in fondo, può sperare di sconfiggere. "No man can", canta Joni


C'è chi pensa sia troppo, per una canzone?


Albondigas de bonito (polpettine di tonno)

Ingredienti:
1 kg di tonno;
150 gr di prosciutto crudo (può pure non esserci);
un vasetto di peperoni sott'olio;
due spicchi d'aglio;
un uovo;
un uovo sodo (anche questo può non esserci);
mollica di pane;
farina;
vino bianco;
olio d'oliva;
prezzemolo;
sale;
olive snocciolate.
Preparazione: pulite il tonno, tagliatelo a pezzettini e conditelo con sale, prezzemolo tritato e aglio (non tritato). Lasciate marinare per 24 ore. Aggiungete i peperoni, il prosciutto (che può pure non esserci, abbiamo detto), l'uovo sodo (come sopra) e le olive: tutto tagliato a piccoli pezzetti. Unite l'uovo sbattuto e la mollica di pane che avrete messo precedentemente ad ammorbidire nel latte. Lavorate l'impasto a mano in modo da amalgamare bene tutti gli ingredienti. Formate poi le polpettine ed infarinatele. Friggetele nell'olio ben caldo. Potete servire queste polpettine accompagnate da una maionese (magari arricchita con capperi e qualche filetto d'acciuga).
E... Bon appetìt!

giovedì 11 ottobre 2007

Il mio credo (James G. Ballard)

In grazioso omaggio, un testo di James G. Ballard, tratto da "Re/search" n.8-9, 1984. Nella traduzione di Gianni Turchetta pubblicata da LINEA D'OMBRA, numero 43, novembre 1989.




So che è molto lungo. E che in un blog i testi dovrebbero e bla, bla, bla... Lo so ma, come dire? Me ne strafotto? Ecco.


















Credo nel potere che ha l'immaginazione di rifare il mondo, di liberare la verità che è in noi, di trattenere la notte, di oltrepassare la morte, di rendere magiche le autostrade, di ingraziarci gli uccelli, di assicurarci le confidenze dei matti.


Credo nelle mie ossessioni, nella bellezza degli incidenti stradali, nella pace delle foreste sommerse, nell'esaltazione delle spiagge di vacanza deserte, nell'eleganza dei cimiteri di automobili, nel mistero degli autosilos, nella poesia degli alberghi abbandonati.


Credo nei sentieri dimenticati di Wake Island, che indicano gli Oceani Pacifici della nostra immaginazione.



Credo nella misteriosa bellezza di Margaret Thatcher, nell'arco delle nostre sopracciglia e nello splendore del nostro labbro inferiore; nella malinconia dei coscritti argentini feriti; nei sorrisi da perseguitati del personale di stazione in attività di servizio; nel mio sogno di Margaret Thatcher accarezzata da quel giovane soldato argentino in un motel dimenticato sotto lo sguardo di un dipendente di stazione tubercoloso in servizio attivo.



Credo nella bellezza di tutte le donne, nei loro tradimenti immaginari, così vicini al mio cuore; nell'unione dei loro corpi disincantati con l'incanto degli scivoli cromati delle casse del supermarket; nella loro calda tolleranza delle mie perversioni.



Credo nella morte di domani, nella fine del tempo, nella nostra ricerca di un tempo nuovo nei sorrisi delle cameriere degli auto-grill e negli occhi stanchi dei controllori di volo di aeroporti fuori stagione.



Credo negli organi genitali dei grandi uomini e delle grandi donne, nelle posizioni del corpo di Ronald Reagan, Margaret Thatcher e Lady Diana, nei dolci odori emanati dalle loro labbra quando guardano le macchine fotografiche del mondo intero.



Credo nella follia, nella verità dell'inesplicabile, nel senso comune delle pietre, nella demenza dei fiori, nelle malattie che gli astronauti dell'Apollo hanno messo da parte per la razza umana.



Non credo in niente.



Credo in Max Ernst, Delvaux, Dalì, Tiziano, Goya, Vermeer, De Chirico, Magritte, Redon, Duerer, Tanguy, nel Facteur Cheval, nelle Watts Towers, in Boecklin, Francis Bacon e in tutti gli artisti che non possiamo vedere perché sono chiusi negli istituti psichiatrici di tutto il pianeta.



Credo nell'impossibilità dell'esistenza, nell'umore delle montagne, nell'assurdità dell'elettromagnetismo, nella farsa della geometria, nella crudeltà dell'aritmetica, nelle intenzioni assassine della logica.



Credo nelle adolescenti, nella corruzione che dimostrano quando si mettono in posizione per giocare, nella purezza dei loro corpi in disordine, nei segni della loro pudenza lasciati nei bagni dei motel d'infima categoria.



Credo nel volo, nella bellezza delle ali, e nella bellezza di tutto ciò che ha volato almeno una volta, nella pietra lanciata da un bambinetto che porta con sé tutta la saggezza degli statisti e delle levatrici.



Credo nella dolcezza del bisturi, nella geometria senza limiti dello schermo cinematografico, nell'universo nascosto dei supermarket, nella solitudine del sole, nel chiacchierìo dei pianeti, nella nostra ripetitività, nell'inesistenza dell'universo e nella noiosità dell'atomo.



Credo nella luce emessa dai video-registratori nelle vetrine dei grandi magazzini, nelle capacità d'intuizione messianica delle griglie del riscaldamento nei saloni dei concessionari di automobili, nell'eleganza delle macchie d'olio sulle carlinghe dei 747 parcheggiati sulle piste dell'aeroporto.



Credo nella non-esistenza del passato, nella morte del futuro, e nelle infinite possibilità del presente.



Credo nello sregolamento dei sensi in Rimbaud, William Burroughs, Huysmans, Genet, Celine, Swift, Defoe, Carroll, Coleridge, Kafka.



Credo nei progettisti delle piramidi, dell'Empire State Building, del Fuehrerbunker di Berlino, dei sentieri di Wake Island.



Credo negli odori del corpo di Lady Diana.



Credo negli ultimi cinque minuti.



Credo nella storia dei miei piedi.



Credo nei mal di testa, nella noia dei pomeriggi, nelle superstizioni del calendario, nel tradimento degli orologi.



Credo nell'angoscia, nella psicosi e nella disperazione.



Credo nelle perversioni, nelle infatuazioni per alberi, principesse, primi ministri, stazioni deserte in esercizio (più belle del Taj Mahal), nuvole e uccelli.



Credo nella morte delle emozioni e nel trionfo dell'immaginazione.



Credo in Tokyo, Benidorm, La Grande Motte, Wake Island, Eniwetok, Dealey Plaza,.



Credo nell'alcolismo, nelle malattie veneree, nella febbre e nell'esaurimento.



Credo nel dolore.



Credo nella disperazione.


Credo in tutti i bambini.


Credo nelle carte geografiche, nei diagrammi, nei codici, nelle scacchiere, nei puzzle, negli orari delle linee aeree, nei segnali degli aeroporti.


Credo in tutte le scuse.


Credo in tutte le ragioni.


Credo in tutte le allucinazioni.


Credo in tutte le rabbie.


Credo in tutte le mitologie, le memorie, le bugie, le fantasie, le evasioni.


Credo nel mistero e nella malinconia di una mano, nella gentilezza degli alberi, nella saggezza della luce.







mercoledì 10 ottobre 2007

American gothic

Letta su LA REPUBBLICA.

"La Casa Bianca è abitata da milioni di fantasmi", ha fatto sapere Jenna Bush, una delle due figlie del presidente. "La gente davvero mi prenderà per matta. Ma non sto scherzando: li ho sentiti davvero". Jenna ha raccontato dei suoi fantasmi al TEXAS MONTHLY.

E' ancora lei che parla: "Una volta, di notte, dal caminetto della mia stanza si sentiva qualcuno che cantava un'opera. Quando l'ho detto a mia sorella Barbara lei non ci credeva, ma la settimana successiva mentre eravamo insieme nella mia camera da letto abbiamo udito le note di un pianoforte: era un brano degli anni Cinquanta".

Tutto ciò sembra provenire direttamente da una storia di Shirley Jackson (la conoscete? E' l'autrice de L'incubo di Hill House, un romanzo del 1959 che racconta di una casa pericolosissima, abitata da sinistre presenze. L'ha ripubblicato Adelphi nel 2004). O di certo Bradbury. Oppure di Stephen King (la Casa Bianca come l'Overlook Hotel?).

Pare non sia stata la prima, questa simpatica signorina, a trovare inquietante la Casa più importante del mondo. Secondo Harry Truman, nelle stanze presidenziali circolava l'ombra di Abraham Lincoln. E il presidente americano che si rilassava suonando il pianoforte era proprio Truman: Jenna Bush ha avuto l'onore e il privilegio di ascoltarlo suonare dal vivo?

Gli americani sanno raccontare storie di fantasmi come pochi altri popoli al mondo. Prima o poi vi parlerò di due canzoni che amo molto: Camouflage di Stan Ridgway e Big Joe and Phantom 309, una storia scritta da Tommy Faile e cantata da Tom Waits in Nighthawks at the diner. Due tra le migliori ghost stories di sempre.

Belle anche queste della giovane Bush, comunque.

Histoire d'O.

"Il nostro allarme su presunte irregolarità aiuta (...) ci aspettiamo smentite circonstanziate".



Indovina indovinello: chi l'ha detto?
Silvio B. dopo le elezioni politiche del 2006?
Nooooo.

L'ha detto O., che sospetta brogli (l'imbroglione di turno sarebbe il sindacato) nel referendum sul welfare (tra l'altro: ma quanti sono gli italiani che lo conoscono davvero, il significato della parola "welfare"? Non sarebbe meglio dire, in italiano appunto, "stato sociale"? Che c'è? Non lo vogliamo dire perché siamo consapevoli che il nostro, più che uno stato sociale, è soprattutto uno stato assistenziale? Siamo così sorvegliati, nell'uso della lingua italiana? O ci vergogniamo, per caso? L'ultima è domanda retorica: in Italia non si vergogna mai un cazzo di nessuno. Perciò, mi sa, diciamo "welfare" perché siamo degli ipocriti).
E comunque: brogli! Brogli! Brogli!
E' vero? E' falso? Ma chissenefrega, a questo punto? Basta il sospetto. E ne avanza pure. Sospettate, sospettate: qualche cosa resterà.


Detto ciò, Silvio B. va preso SEMPRE seriamente.

O., invece, non va MAI preso seriamente.

martedì 9 ottobre 2007

Blind Willie McTell (as himself)



Alessandro Carrera, uno dei massimi esegeti italiani dell'opera di Bob Dylan, ha scritto che BLIND WILLIE MCTELL è "una conversazione desolata fra Dylan e lo spirito della terra, condotta sull'orlo della fine del tempo, davanti alla concreta e terrificante possibilità che anche l'immortalità stia per morire".
Semplicemente, BLIND WILLIE MCTELL è la più bella canzone che sia mai stata scritta sul Blues. Quella che meglio ne coglie l'essenza. Lo spirito. Secondo me è di una pregnanza simbolica che lascia letteralmente senza fiato (e se dovessero decidere di assegnare il Nobel per la letteratura a Bob Dylan basterebbe questa come prova a carico).
Il famoso squilibrato di Duluth aveva deciso di escluderla (DI ESCLUDERLA!!!!) da "Infidels", il suo disco del 1983 (ricordo ancora quando lo comprai, appena uscito. E ricordo il bellissimo, visionario, videoclip che accompagnava "Jokerman", la canzone che lo apriva).
Per otto anni questo capolavoro è rimasto (più o meno) inedito (in realtà un nastro finì non so come nelle mani di Steve Wynn, il leader di quella band da sogno che furono i Dream Syndicate. Ne seguì una cover elettrica DA URLO).
Dylan incise BLIND WILLIE MCTELL il 5 maggio del 1983. O meglio, incise quel giorno la versione che, otto anni dopo, decise di pubblicare includendola nella prima uscita delle sue BOOTLEG SERIES (1-3). Non fosse abbastanza chiaro, lo ripeto: è, secondo me, una delle più grandi canzoni mai scritte da Sua Maestà Zimmerman (quindi, una delle più grandi canzoni DI SEMPRE).

Che dire di uno così? Di uno che tiene per anni nei cassetti una cosa simile? Che è completamente pazzo?


Blind Willie McTell era nato - una coincidenza casuale? - proprio un 5 maggio. Non si sa se del 1898 o del 1901. Non si sa nemmeno quale fosse il suo vero nome. Per Alessandro Carrera si chiamava Willy Samuel McTier. Per altri, Eddie McTier. Morì il 1 agosto 1959.
Nel 2003 è uscito un cofanetto su JSP. Si intitola THE CLASSIC YEARS 1927-1940: un grande giornalista di cui vi parlerò, prima o poi, ha scritto che è "una delle più grandi raccolte di blues, non solo pre-bellico, che siano mai state pubblicate". Un'ottantina di canzoni. Da "Writin' paper blues" a "The dyin' Crapshooter's Blues", da "Dark Night Blues" a "Statesboro Blues" (che conoscono bene i fan dei fratelli Allmann). E altre meraviglie. Canzoni in cui è il Mito, o lo Spirito della terra di cui scriveva Carrera, che parla. E parlando urla. Sussurra. Supplica. Minaccia. Piange. E ride (perché capita molto spesso nel Blues, contrariamente a quanto comunemente si pensi).
Un grande, insomma.

Che è stato cantato da un altro grande.

Blind Willie McTell (Dylan)



Seen the arrow on the doorpost/Saying, "This land is condemned/All the way from New Orleans To Jerusalem."/I traveled through East Texas/Where many martyrs fell/And I know no one can sing the blues/Like Blind Willie McTell


Well, I heard the hoot owl singing/As they were taking down the tents/The stars above the barren trees/Were his only audience/Them charcoal gypsy maidens/Can strut their feathers well/But nobody can sing the blues/Like Blind Willie McTell.


See them big plantations burning/Hear the cracking of the whips/Smell that sweet magnolia blooming/(And) see the ghosts of slavery ships/I can hear them tribes a-moaning/(I can) hear the undertaker's bell/(Yeah), nobody can sing the blues/Like Blind Willie McTell.


There's a woman by the river/With some fine young handsome man/He's dressed up like a squire/Bootlegged whiskey in his hand/There's a chain gang on the highway/I can hear them rebels yell/And I know no one can sing the blues/Like Blind Willie McTell.


Well, God is in heaven/And we all want what's his/But power and greed and corruptible seed/Seem to be all that there is/I'm gazing out the window/Of the St. James Hotel/And I know no one can sing the blues/Like Blind Willie McTell.


Adesso provo a tradurvela.


Ho visto la freccia in cima alla porta/Diceva: "Questa terra è condannata, /da New Orleans a Gerusalemme"/Ho attraversato l'East Texas/dove molti martiri sono caduti/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell.

Ho sentito risuonare il verso della civetta/mentre smontavano le tende/le stelle sopra gli alberi spogli/furono il suo unico pubblico/Le ragazze zingare che portano il carbone/ sanno bene come pavoneggiarsi/ma nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.

Ho guardato le grandi piantagioni bruciare/ sentito schioccare le fruste/ annusato il profumo dolce delle magnolie in fiore/ e ho visto i fantasmi delle navi negriere/ Posso ancora ascoltare i lamenti delle tribù/ e ascoltare la campana del padrone/ e nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.

C'è una donna laggiù al fiume/ con un bellissimo giovane/ vestito come un gentiluomo/ ha in mano del whiskey di contrabbando/ C'è una fila di detenuti per strada/ posso sentirne le grida ribelli/ e so che nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.

Dio se ne sta lassù in cielo/ e tutti noi desideriamo quello che è suo/ ma oltre a potere, avarizia e seme mortale/ sembra non ci sia altro/ Sto affacciato alla finestra/ del St. James Hotel/ e so che nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.




domenica 7 ottobre 2007

Kilgore Trout se n'è andato





“Scrivere è un mestiere come un altro. Il falegname costruisce mobili. Lo scrittore costruisce storie con cui diverte il lettore nel tempo libero”. Così Kurt Vonnegut.
Allora sarebbe tutto qua?
Lo scrittore, secondo lui, era “a canary in a coal mine”. Un canarino in una miniera di carbone.
I minatori usavano un metodo particolare per evitare di rimanere asfissiati dai gas che a volte si sprigionano nel sottosuolo: si portavano dietro, quando andavano al lavoro, un canarino. Quando la bestiola cadeva stecchita sul fondo della sua gabbietta, era meglio darsela a gambe levate.
La gabbia di Vonnegut, ha scritto qualcuno, non ricordo chi, era l'America. Ovvero i grandi Stati Uniti d'America. Gli Stati Uniti dello spreco insensato, della violenza gratuita, dell'indifferenza istituzionalizzata. Ma forse la gabbia era invece proprio la società umana. Di ogni dove (e di ogni tempo: perché, on his opinion, tutto è, è sempre stato e sempre sarà). Mica è stata chiamata in causa solo la società del ricchissimo Occidente, dunque.

Non ho mai conosciuto uno scrittore tanto serenamente stupefatto davanti all'assurdità del nostro stare al mondo e alla violenta incomprensibilità dell'esistenza. Tanto Candido (notata la maiuscola, si?). Capace anche di ridere dello spettacolo macabro dell'impotenza umana davanti alla violenza del potere. Gallows humor, direbbero gli anglosassoni. Ma senza ombra di esibizionismo nella parola e senza calcoli di sorta: con la consapevolezza, sempre presente, che l'innocenza del punto di vista è vitale per la sopravvivenza, come ben sapeva uno dei suoi maestri dichiarati, Mark Twain.
Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e fu preso prigioniero. Durante il periodo della prigionia venne trasferito a Dresda, dove fu costretto a lavorare in una fabbrica che produceva sciroppi. La notte del 13 febbraio 1945 un bombardamento rase al suolo la città e uccise più di 135.000 persone.

Kurt Vonnegut riuscì a salvarsi nascondendosi nel sotterraneo di quel mattatoio che finirà per dare il titolo ad uno dei suoi romanzi migliori. Scrive appunto Mattatoio n.5 e arriva a dire che l'unica persona a beneficiare di quella violenza insensata e agghiacciante era stato in fondo proprio lui, visto l'enorme successo che arrise al libro. Sapeva essere (soavemente) spietato. Pure con sé stesso, all'occorrenza. Una volta gli chiesero come facesse a continuare a sorridere dell'assurdità del mondo. Rispose che la risata è una risposta fisiologica. Come le lacrime.
Kurt Vonnegut è morto a New York mercoledì 11 aprile. Aveva 84 anni. Mi mancherà tanto. Così va la vita.

The truth can be adjusted



Visto MICHAEL CLAYTON, venerdì sera. Piaciuto molto. Ho letto da qualche parte, ma non ricordo dove, che sarebbe un film "buonista". E' possibile che tale affermazione risponda a verità: alla fine il bene (attenzione, però: il bene. Non il buono) trionfa. Nella vita, in genere, col cazzo. Ma insomma, bene così. Magari in questi giorni avevo proprio bisogno di un lieto fine. O solo di pensare - ingenuamente? Sia! - che il sistema (quale sistema? Il sistema politico del ricchissimo Occidente? Il sistema di mercato del ricchissimo Occidente? Boh?! Fate voi), per quanto incasinato o corrotto possa essere, alla fine trova sempre un modo per autocorreggersi

Tra thriller e legal drama. Non inedito, effettivamente, nella trama e nello sviluppo narrativo. Ma con grandi prove d'attore. Forse, per Clooney, la miglior interpretazione di sempre: mai visto così malinconico, così domo. E c'è un grande Tom Wilkinson.

Qualcuno ha paragonato MICHAEL CLAYTON (credo su LA REPUBBLICA ) a I TRE GIORNI DEL CONDOR di Sidney Pollack. Nel mio piccolo, non sono mica tanto d'accordo. Quello (che uscì in tempi da lupi per gli States e per il ricchissimo Occidente: nel 1975, immediatamente a ridosso del Watergate e di una pesantissima crisi energetica) aveva un finale in nessun modo consolatorio.
Comunque, nel film di Tony Gilroy recita pure Sidney Pollack (anche produttore con Steven Soderbergh, lo stesso Clooney ed Anthony Minghella). E forse è solo per questo motivo che al recensore di REPUBBLICA è venuto in mente quel (bel) vecchio film con Robert Redford. O forse è capitato perché Redford è decisamente un bell'uomo. Come George Clooney.

giovedì 4 ottobre 2007

W.

"Nei confronti di Veronica Lario non c'è nessuna proposta di entrare in squadra o di venire con noi nel PD, ma qualcosa di molto più importante: l'apprezzamento per una donna che ha mostrato in tantissime circostanze autonomia culturale e curiosità intellettuale". W. dixit.
E ancora:"Sarebbe bello disporre di un contesto dove Veronica Berlusconi possa dare un suo contributo".
Ricapitoliamo:
1)Autonomia culturale;
2)Curiosità intellettuale;
3)Un suo contributo.
E sti cazzi. Sti cazzi.
Nell'attesa che qualcuno me la spieghi.

Bartleby e compagnia




L'incipit è folgorante.
“Non ho avuto fortuna con le donne, sopporto con rassegnazione una penosa gobba, non mi resta un solo parente stretto vivo, sono un povero solitario che lavora in un ufficio spaventoso. Per il resto sono felice”.
Il soggetto di cui si racconta si autodefinisce “cercatore di bartleby”. Che sarebbero quegli esseri che “ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo” (esseri con qualcosa di demoniaco? A me a questo punto viene in mente quello che Mefistofele dice a Faust: “Ich bin der geist der stets verneint”. Io sono lo spirito che sempre nega). Sia come sia, i bartleby prendono il nome dallo scrivano di un racconto di Herman Melville che “non è mai stato visto leggere nemmeno un giornale e che, per lunghi intervalli di tempo, se ne sta in piedi dietro un paravento, rivolto verso un muro di mattoni di Wall Street”. Bartleby non beve mai birra, o té, come gli altri. Pure le domeniche le passa in ufficio. Non si sa nulla di lui: non ha mai detto chi è, non ha mai detto da dove viene. Se glielo si chiede, ma se gli si chiede qualsiasi cosa, o gli si affida un lavoro, una commissione, risponde sempre alla stessa maniera: “Preferirei non farlo”.
E insomma, il nostro “cercatore” si propone di indagare sull'ampio spettro di quella che definisce “sindrome di Bartleby” in letteratura: “il male endemico – secondo lui - delle lettere contemporanee, la pulsione negativa o l'attrazione per il nulla che fa sì che certi creatori, pur avendo una coscienza letteraria molto esigente (o forse proprio per questo), finiscano per non scrivere nulla”. Si prefigge, insomma di seguire le tracce della letteratura del NO.
Scrittori che, a un certo punto, come lo scrivano di Melville, preferiscono non fare. Gente che magari vorrebbe, ma non scrive nulla. Oppure gente che, se esordisce, rinuncia presto a scrivere (come Rimbaud, Rulfo, Salinger). O , semplicemente, scrittori che raccontano di artisti che smettono di produrre, o non iniziano nemmeno.
Ed è una vertigine, tra André Gide che “costruì un personaggio che attraversa tutto un romanzo con l'intenzione di scrivere un libro che non scrive mai (Paludi)” e Robert Musil che “lodò e trasformò quasi in mito l'idea di un “autore improduttivo” ne L'uomo senza qualità”. E ancora, "Il capolavoro sconosciuto" in cui Balzac ci parla di un pittore capace di dar forma ad un pezzetto del piede di una donna sognata”. E Robert Walser, la cui opera riflette tutta sulla vanità di ogni impresa, compresa la vita. Robert Walser che “voleva essere una nullità e il suo maggior desiderio era venire dimenticato”. E Traven, il misteriosissimo Traven. E Savinio. E Perec.
Il Virgilio di questo viaggio alla scoperta della fuga - dalla scrittura, dall'arte, dal mondo - e della negazione è Bobi Bazlen: “Credo che ormai non si possano più scrivere libri. Per cui non ne scrivo più. Quasi tutti i libri non sono altro che note a pié di pagina, gonfiate fino a diventare volumi. Per questo scrivo solo note a pié di pagina”. Credo che a Bazlen – le cui "Note senza testo" furono pubblicate dalla casa editrice Adelphi nel 1970, cinque anni dopo la sua morte - Vila-Matas sia arrivato passando per Del Giudice e il suo romanzo "Lo stadio di Wimbledon". Del Giudice ha raccontato che quando cominciò a scriverlo voleva mantenere nell'impianto narrativo l'idea di Bazlen secondo cui non è più possibile continuare a scrivere. Ma il libro di Del Giudice, scrive Vila-Matas “non è altro che la storia di una decisione, quella di scrivere”. E come potrebbe essere diversamente?
Enrique Vila-Matas è nato a Barcellona nel 1948. Delle altre sue opere tradotte e pubblicate nel nostro Paese riparlerò. Intanto, date retta, accettate il mio consiglio ed accattatevi questo gioiello. Tra le altre cose, devo a "Bartleby e compagnia" la scoperta di un autore per me straordinario, Roberto Bolaňo.

mercoledì 3 ottobre 2007

Luzzati a Venezia




Lele Luzzati è morto nella sua città, Genova, nel “Giorno della Memoria”. Un infarto in casa, a 86 anni.
“La mia passione – ebbe a dire una volta – la metto nelle scene, nelle ceramiche, nei costumi, in tutte le cose che faccio”.
Al suo mestiere c'era arrivato per caso. Appena diplomato, dovette fare i conti con le leggi razziali del Fascismo. Si trasferì perciò a Losanna, dove frequentò l'Ecole des Beaux Arts. Fu lì che mise in scena “Lea Leibowitz”, dramma ispirato ad una leggenda ebraica scritto e diretto da Alessandro Fersen. “C'erano pochissimi soldi, mi dissero di arrangiarmi: le mie scenografie povere, fatte di ritagli, specchietti e pezzi di stoffa, sono nate così”.
In Italia ritornò alla fine della guerra. Alternava l'attività di illustratore, quella di decoratore e ceramista e quella di scenografo e costumista. Negli anni Cinquanta con Elsa Albani, Ferruccio De Ceresa e Alberto Lupo formò il nucleo attorno a cui nascerà il Teatro Stabile di Genova.
Restò a vivere a Genova anche quando venne chiamato a realizzare le scenografie alla Scala (e posso capire. Se avete visto Genova, e anche solo immaginato Milano, potrete capire anche voi).
Con Aldo Trionfo inventò la “Borsa d'Arlecchino”, un locale aperto nei sotterranei della Borsa genovese dove, ai loro inizi, passarono ragazzi che si chiamavano Carmelo Bene e Paolo Poli (non ho scritto “inizi di carriera” per rispetto innanzitutto alla memoria di Bene. Che non credo abbia mai neppure pronunciato la parola “carriera”).
Del 1960 è il sodalizio di Luzzati con Giulio Gianini, e pure il loro primo cartone animato dal titolo “I paladini di Francia”. Nei primi anni Sessanta nacque anche la “Compagnia dei quattro”: Luzzati era uno, gli altri tre si chiamavano Franco Enriquez, Valeria Moriconi e Glauco Mauri. Una ventina le scenografie a sua firma.
Lunghissimo fu poi il sodalizio con Tonino Conte, al “Teatro della tosse”. Teatro instabile, “volutamente instabile”. E prima e durante un sacco di illustrazioni, su centinaia di libri. Pensando a Lele Luzzati a me vengono in mente i titoli di testa de “L'armata Brancaleone”. E quelli di “Sorgente di vita – Rubrica di vita e cultura ebraica”, una delle poche cose che seguivo volentieri alla televisione (la programmava la RAI, ad ore antelucane).
Li conoscete i suoi Pulcinella (con i gendarmi a marcarli stretto), i suoi cavalieri, i Papageno e Papagena, si?
Io ho due litografie di Luzzati, a casa mia. La prima (“La scuola rabbinica”) l'ho acquistata il 20 gennaio di quest'anno, dunque pochi giorni prima che il Maestro morisse, a “La Stamperia del Ghetto” del signor Enzo Aboaf. A Cannaregio. Ghetto di Venezia, per capirci. Se amate anche voi Lele Luzzati, fateci un salto. Magari di domenica. Gli ebrei, almeno quelli osservanti, non chiudono bottega, di domenica. E il signor Aboaf è un uomo molto simpatico.