martedì 30 settembre 2008

Che cosa è rimasto di Fausto Bertinotti?

Poca roba, secondo me.

Giusto la sua rivista, Alternative per il socialismo, che non ho mai letto né mai leggerò e nondimeno non ho alcuno scrupolo a definire illeggibile.

E forse un pugno di versi del povero, patetico Sandro Bondi, evocativi come il dito in gola prima del conato di vomito.
Eccoveli serviti (ma molti di voi li conosceranno già).





A Fausto Bertinotti, «comunista senza esserlo»


Immagini della storia
Orribile bellezza
Gloria mortale
Spenta pietà
Disperata speranza

lunedì 29 settembre 2008

Col cuore in mano (come piace a W.), parte seconda


Sostiene Veltroni che con Berlusconi rischia di realizzarsi "anche in Italia il modello Putin. Una democrazia sostanzialmente svuotata, una struttura di organizzazione del potere che rischia di apparire autoritaria".
Sostiene D'Alema che, se si arrivasse in Italia ad un sistema presidenziale, "Berlusconi potrebbe concorrere alla massima carica dello Stato perché ci sarebbero quei pesi e quei contrappesi che consentirebbero anche a lui di governare meglio il Paese".
La sintesi del Veltroni pensiero e del D'Alema pensiero, a uso e consumo dei militanti del PD, risulta pertanto essere la seguente: "Putin potrebbe concorrere alla massima carica dello Stato italiano perché, nonostante una struttura di organizzazione del potere che rischia di apparire autoritaria, ci sarebbero quei pesi e quei contrappesi che consentirebbero anche a lui di governare meglio il Paese".
Sostiene tic - e dategli torto - che Veltroni e D'Alema hanno rotto il cazzo.

domenica 28 settembre 2008

Paul Newman

Il mio Paul Newman preferito è Henry Gondorff.

"È inutile essere un artista se devi vivere come un impiegato".

Poi c'è Butch Cassidy.

- “Li abbiamo seminati. Tu credi che li abbiamo seminati?”
- “No.”
- “Neanch'io...”

Infine Fast Eddie Felson.

“Sono il più forte che tu abbia mai visto. Anche se mi batti, resterò sempre il migliore.”

venerdì 26 settembre 2008

Oh, happy day!

Oggi è una gran giornata, per me!
In primis perché, dopo qualche mese, ho rivisto Gil Grissom e l'ho trovato in forma smagliante (nonostante fosse affetto da una brutta influenza...).



Poi perché, grazie a la Repubblica, ho scoperto che “il presidente della Sardegna Renato Soru è tra le personalità che hanno provato i massaggi aromaterapici del Forte Village di Pula”.
Ma non basta! Eh, no!
Sempre leggendo la Repubblica sono venuto a sapere che “l'attrice Sabrina Ferilli ama il to-qui-do, un massaggio giapponese che scarica la tensione. Una delle sue méte è Fonteverde, nel Senese”. E infine (e a questo punto mi sono quasi commosso) che “il presidente della Fiat Luca di Montezemolo ama la 'stone therapy', fatta con pietre laviche al Capri Palace Hotel di Napoli”.

Com'è che se ne uscì, quella volta, D'Annunzio? “La grazia mi si manifesta in un succedersi di epifanie”?
Ecco! Ecco che finalmente posso intendere il senso profondo delle parole del Vate!


giovedì 25 settembre 2008

Io oggi rondo. E tu?




Il Sindaco della città di M. (un bell'uomo, va detto) ha sostenuto, nei giorni scorsi, che l'amministrazione comunale (di centrosinistra) non può proprio dir di 'no' ai fondi che l'amministrazione regionale (di centrodestra) ha stanziato per “incrementare la percezione di sicurezza nei cittadini del Friuli-Venezia Giulia” su impulso dell'assessore leghista Federica Seganti, una bella signora triestina.
Dovete sapere (ma ne ho già parlato in un post del 24 giugno: forse qualcuno se lo ricorda) che siccome "lo stato di apprensione che attanaglia i cittadini è ormai acclarato e spetta alla politica dare risposte concrete per lenire questo disagio e restituire alle nostre città un'atmosfera serena e tranquilla” (sono parole della Seganti), la Giunta regionale del Friuli-Venezia Giulia ha stanziato ben 16,3 milioni di euro per la Sicurezza (scritto maiuscolo, 'Sicurezza': è lo Zeitgeist ad imporlo). Di questi, 500 mila euro andranno ai comuni per finanziare piani di prevenzione, nelle aree più soggette ad episodi criminosi, con l'utilizzo di personale volontario (in pratica, le ronde di privati cittadini tanto care alla Lega).
Dichiarazione del Sindaco della città di M. (un bell'uomo, va detto) pubblicata dal quotidiano Il Piccolo in data 24 ottobre 2008: “Le telecamere, l'illuminazione, la presenza di soggetti che danno una mano al controllo del territorio possono essere strumenti utili alla rassicurazione. Come le ordinanze relative alle regole del vivere civile che firmerò a breve. Il tutto sempre adottato con misura”.
Per quanto riguarda le telecamere, la misura, per la città di M., fra qualche mese sarà di oltre trenta 'occhi elettronici' complessivi: e a questo punto un sapido 'mecojoni' ce lo metto proprio volentieri, ostia!
L'illuminazione pubblica sarà potenziata al punto che sembrerà Natale tutto l'anno: bellissimo, no?
Dulcis in fundo (rullo di tamburi) i volontari per la sicurezza!!!
Oggi il Maschio Alfa della Lega Nord locale, il consigliere regionale Federico R., se n'è uscito così: “Rileviamo con favore che, da un po' di tempo a questa parte, Sindaco e giunta di M. hanno smesso l'ironia da quattro soldi su temi che da anni la Lega Nord porta avanti sulla vita cittadina”.
Non fa tenerezza? E' chiaro che ci soffriva un bel po', il povero boss della Lega Nord locale, ad essere preso per il culo dalle sinistre. Ma saremo stronzi, noi professoroni delle sinistre?
Ecco allora il compitino (facile facile, via) assegnato dai leghisti al Sindaco di M. (un bell'uomo, va detto): “Il piano predisposto dall'assessore Seganti prevede tutte le soluzioni. Riteniamo in primo luogo che M. debba essere più illuminata perché attualmente è troppo buia. E che sia auspicabile un'adeguata presenza di gruppi volontari, magari che prima appartenevano alle forze dell'ordine, non utilizzandoli esclusivamente per segnalare fenomeni di microcriminalità ma anche, come la Lega Nord si è sempre battuta, contro i maleducati e l'antidegrado (sic) della città”.


(nell'immagine, un volontario padano: fortissimo e tutto verde!!!)

Applausi per il Sindaco della città di M. (un bell'uomo, va detto) anche da Forza Italia: “Bene le telecamere ma servono anche gruppi di sorveglianza sia di volontari che di Polizia municipale, perché da sole le telecamere non bastano. Se ce ne sono così tante, chi li controlla poi i filmati?”.
Eh, già: bella domanda! Chi ci si mette? Trattasi di un lavoro infame, esattamente il tipo di lavoro che i nostri figli non vogliono più fare. Furbi, quelli di Forza Italia: han capito che a qualcuno delle sinistre elitarie e antipopolari potrebbe venir in mente di metterci degli immigrati, a visionare quanto filmato da 32 (trentadue) telecamere: tanti si prevede saranno, fra qualche mese, i teleobiettivi puntati sul nostro disordine cittadino.
A Forza Italia, comunque, fa piacere che il Sindaco della città di M. (un bell'uomo, va detto) “ogni tanto accolga anche le esternazioni (sic) della minoranza”, vivaddio.
Forza Italia vuole Sicurezza perché la gente richiede Sicurezza. Perciò, “i gruppi volontari, monitorando il territorio contro la maleducazione, gli atti di bullismo, contro chi imbratta i muri con bombolette spray, danno la percezione di quella sicurezza ai cittadini, nonostante (sic) gli amministratori siano sempre chiusi nel palazzo”.
La mia città... Forte, eh?

mercoledì 24 settembre 2008

Hommage à Louisa May Alcott

Piccole donne.


Piccole donne crescono.

martedì 23 settembre 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.38)


"Nietzsche è impazzito, ma se l'è meritato. Qui invece ci sono troppi pazzi che non se lo sono sudato. Questo è il problema."

(Carmelo Bene)

lunedì 22 settembre 2008

Ritorna la Dandini!!!


Se ne sentiva la mancanza, in effetti.
Proprio ieri sera mi chiedevo: "Ma come faccio a vivere senza la Dandini e i satirici de sinistra?" ed ecco che la Dandini mi si manifesta, con incredibile tempismo, a pagina 38 de la Repubblica di oggi per comunicarmi che il suo talk show, Parla con me, tornerà su RaiTre dal 21 ottobre e a questo punto a me non resta che contare i giorni che mancano all'appuntamento.
Serena dice che non avrà "l'ossessione del centrodestra al governo, del Berlusconi Ridens. Siamo stanchi delle etichette destra-sinistra, noi andremo controcorrente".
E andando controcorrente avrà un successone. Garantito.
In Italia, infatti, il pubblico premia sempre quelli che vanno controcorrente. Per non parlare poi di quelli che si autodefiniscono 'scomodi'.
Dalle nostre parti, generalmente, quelli che stanno scomodi sono sempre piazzatissimi.
Ci avete mai fatto caso?

domenica 21 settembre 2008

Scusa, puoi ripetermi come si chiama il tuo blog?


"Io non ho mai avuto problemi con la droga. Ho avuto problemi con la polizia."

(Keith Richards)



P.S.
talkischeap. Si chiama talkischeap.

venerdì 19 settembre 2008

Col cuore in mano (come piace a W.)


D'Alema a Veltroni: "Dobbiamo lavorare insieme".
Tic a D'Alema e Veltroni: "Avete rotto il cazzo".

giovedì 18 settembre 2008

Miseria e nobiltà


Chiedono al Bokassa del Viagra (lo fa un inviato de Le Iene: un suo dipendente, quindi) se egli si senta o meno “antifascista”. La risposta: “Io penso solo a lavorare e a risolvere i problemi degli italiani”.

Il professor Augusto Monti cominciò ad insegnare italiano e latino presso il liceo classico «Massimo D'Azeglio», a Torino, nel 1924.
Aveva alle spalle molti anni di insegnamento in ginnasi e licei di mezza Italia, da Bosa a Chieri, da Reggio Calabria a Brescia.
Al «D'Azeglio», in cattedra, c'erano alcune figure notevoli, professori che lasciavano il segno, come ebbe a dire Norberto Bobbio: ad esempio Zino Zini (che insegnava filosofia, era comunista e aveva collaborato a L'Ordine Nuovo di Gramsci) e Umberto Cosmo (ex redattore de La Stampa ed ex neutralista, che insegnava italiano).
Monti finì ad insegnare nella sezione B (Bobbio era nella A), avendo per allievi Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Einaudi.
Proprio Massimo Mila ne lasciò un ritratto indimenticabile.

Gli capitavamo tra le mani, dunque, appena emessi dal ginnasio, e lì per lì ci sbigottiva con la severità soldatesca dei modi e la fierezza del cipiglio dietro le lenti spesse da miope: un volto duro, tormentato, scavato da rughe profonde, un volto da “riformatore”, da persona a cui non piace il mondo così com’è, ma non ha nessuna intenzione di limitarsi a deplorazioni e piagnistei, bensì, a questo mondo, è fermamente decisa a cambiar la faccia.
Erano gli anni che le ultime resistenze crollavano davanti al fascismo, e non c’era mattina che prima d’entrare in classe Monti non si fosse letto nel “Corriere della Sera” la sua razione quotidiana di notizie spiacevoli: Matteotti, il 3 gennaio, Amendola, Gobetti, a Torino le leggiadre imprese di De Vecchi e Brandimarte. Ma di queste cose noi non si sapeva nulla; a noi risultava soltanto che il professore d’italiano aveva sempre i nervi.
Guai se sentisse un bisbiglio in classe: certi colpi batteva sulla cattedra, che nessuno capiva come riuscisse a restare impassibile, col male che doveva farsi alle nocche. E se per caso, durante la lezione, avvertiva il rumore d’un temperino che cautamente tagliasse le pagine di un libro ( - Chi poteva immaginare, accidenti! Che avrebbe cominciato dalla fine? -), apriti cielo! Avevi finito di far bene.
Ma la scuola di Monti non tardava ad aprirsi in due settori ben distinti: le ore in cui “interrogava”, ed erano per i più – e pure per lui – l’inferno, che non si sapeva mai cosa diavolo volesse, certe domande ti faceva che nessun libro ne forniva la risposta, e se tu recitavi appuntino la lezione – biografia dell’autore, elenco delle opere e “giudizio”- lui ti ascoltava con una faccia come se gli stessi narrando di sua madre le peggiori infamie, e poi magari ti concedeva il sei, la sospirata sufficienza, ma con un sospiro di sopportazione, che tanto valeva ti dicesse in faccia quello che pensava: che sangue da una rapa non se ne può cavare.
Ma c’erano, e ben più numerose, le ore in cui Monti “spiegava”: ed erano il paradiso. La lezione culminava sempre nella lettura del testo; inquadramento storico, analisi stilistica, commento critico e spiegazione letterale dei passi difficili, tutto era semplicemente un aprire la strada e rimuovere ostacoli, perché avvenisse, alla fine della lezione, l’epifania, perché la lettura facesse la prova del nove di tutto quanto era stato spiegato, e quelle pagine che fino a poco prima t’erano parse magari nient’altro che un noioso vecchiume, si animassero meravigliosamente vive, giovani, ilari, entusiasmanti. (…) Monti a legger Dante, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Manzoni: che teatro! Quell’uomo così arcigno, all’aspetto, si faceva presto a scoprire ch’era l’uomo più divertente della terra, e c’era davvero chi, malato, si alzava da letto per non perdere l’ora in cui Monti spiegava e leggeva il settimanale canto di Dante. Quella scoperta dei classici, che in genere si fa per conto proprio dieci, venti, trent’anni dopo la scuola, quando d’essere un arnese di scuola i classici, appunto, hanno cessato, Monti te la faceva far lì, seduta stante, con un insegnamento che ripristinava la vita in tutte quelle cose che la scuola tende a imbalsamare.
Era la scuola della riforma Gentile: analisi estetiche, molto spirito e poca lettera, gran discorrere di “mondo poetico” e pazienza se non sai la data precisa della nascita di Ludovico Ariosto; puoi sempre andartela a vedere sul libro di testo o su un’enciclopedia, ma quell’altro la scuola ti deve apprendere – a leggere l’Ariosto , a gustare l’Orlando e le Satire, l’Ariosto sapere che è - ché se tutto ciò non lo impari direttamente da quelle ottave e da quelle terzine, attraverso la parola del maestro, nessun libro te lo potrà insegnare mai più.
(…) E guai se in classe, nell’ora di italiano, quando “spiegava”, Monti cogliesse qualche sgobbone che, la testa china sul banco, vergando all’impazzata la matita su un foglio, cercasse di quelle meravigliose spiegazioni, di fermare qualcosa per iscritto.
- Cosa fai, tu? cosa scrivi?
- Prendevo appunti…
- Porta qua.
Tric, trac, il foglio lacerato sulla faccia, i pezzi nel cestino, e il solito sermone, duro, severo, che se l’avesse sorpreso a giocare a tre sette col compagno di banco, non sarebbe stato tanto: - Non son cose da imparare a memoria, queste. Apri le orecchie. E il cervello, se l’hai. Poi rileggiti il testo, e ascolta quello che dice. Non c’è altro. Torna a posto. Ed era tutto così, a quella scuola, tutto ottenuto per vie che parevano indirette, e non erano. Tutto la negazione di quella bestialissima, fra le più bestiali invenzioni moderne, che è la propaganda. Idealismo involontario. Antifascismo involontario. In tre anni di quella scuola – e che anni! 1924-1927- mai che da quella cattedra una parola di “politica” si sia sentita cadere, se non fosse la politica del De Monarchia, del Principe, degli Ultimi casi di Romagna. Mai sentito la parola fascismo: Mussolini, De Vecchi, Gobetti, Amendola, Matteotti, nomi che mai si sentirono suonare in quell’aula.
Tu uscivi, da quel liceo, che manco sapevi qual governo ci fosse nel tuo paese. Ma tanti piccoli Bruti, si usciva, tanti odiator di tiranni, e pronti a mordere, ad azzannare, ed abili, alla prima occhiata che si desse fuor del nido, a riconoscere subito il marcio dove stava, e incapaci di chiuderci un occhio e farci l’abitudine. Macché: scomodi, duri, angolosi, tutto prender di petto, compromessi niente, “pensa a’ famiglia” niente, “e chi te lo fa fa” niente.
Di fronte a quei risultati Monti stesso rimaneva esterrefatto e costernato, e quando i suoi pulcini li vide filare, come montoni di Panurgo, chi al confino, chi nelle brigate internazionali di Spagna, chi in galera ( e naturalmente ci tirarono pure lui), si mise le mani nei capelli e cominciava perfino a giustificarsi e a tentare uno scarico di responsabilità.
- Mi dovete dar atto, che io in classe, di politica, mai una parola vi ho detto.
- Ma no; professore! Mai una parola. Cosa le viene in mente? Lei non c’entra. Ci lasci fare. Siamo noi che siamo fatti così.
Combinazione, tutti a quel modo erano fatti, di quell’Atlante, i Ruggeri.

Ragazzi (e poi uomini) straordinari che ebbero Augusto Monti maestro in classe o entrarono in contatto con lui per la sua attività di bibliotecario nel liceo torinese. Oltre a Mila, Einaudi e Pavese, Leone Ginzburg e Vittorio Foa, Norberto Bobbio e Tullio Pinelli.
Con loro il professor Monti si incontrava spesso anche fuori di scuola, per conversare e discutere, confrontarcisi e litigare: in centro a Torino, al caffè Rattazzi, o nelle piole di periferia.
Non volle mai iscriversi al PNF e perciò, nel 1932, temendo di essere cacciato dalla scuola, lasciò l'insegnamento.
Fu arrestato una prima volta nel '34. Il secondo arresto gli valse una condanna a cinque anni di carcere da parte del Tribunale Speciale. Non volle firmare, a 55 anni, una domanda di grazia e andò in galera senza far drammi, con stoica serenità: prima a Regina Coeli, poi a Civitavecchia

Subito dopo il suo arresto un funzionario dell’OVRA, alludendo agli altri arrestati, quasi tutti suoi allievi, gli chiese: “Ma cosa insegnavate, voi, a scuola?”. Rispose: “Ho sempre insegnato ai giovani ad amare e rispettare le idee”. “Ma quali idee?”. E Monti, lapidario: “Le loro idee”.
Quando qualcuno mi chiede che cosa sia, per me, l'antifascismo, io racconto questa storia.

martedì 16 settembre 2008

Il sangue dei nonni


C'è stata, in questi giorni, una polemica tra Giampaolo Pansa, ideologo di Alleanza Nazionale (o almeno, di quella parte di AN che si riconosce nelle tesi espresse da Ignazio La Russa nel corso della recente commemorazione del 65° anniversario della difesa di Roma: «Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia». Quelli che combatterono i tedeschi a Roma, quindi, sono più o meno uguali a quelli che combatterono gli anglo-americani, secondo La Russa), e il vicesegretario del PD, Dario Franceschini. Intervistato da il Giornale (numero del 10 settembre ultimo scorso), il signor Pansa, divertito, dichiara: «Mai avrei pensato, in tutta la mia vita, che mi sarei ritrovato a difendere La Russa dagli attacchi dei moderati del Partito democratico! Mai. Su Salò, per giunta... Questa polemica ha qualcosa di antistorico e barbaro che non capisco e non voglio capire. L’antifascismo ringhiante di Veltroni e Franceschini oggi non è credibile. Anche perché, proprio Franceschini tre anni fa... ».
Pansa, perché parla proprio di Franceschini?
«L’ho visto, in televisione indignato contro La Russa, in cattedra sull’antifascismo. E sono rimasto di stucco».
Perché? Non è legittimo?
«Vede, nella Grande Bugia ho raccontato la storia di una ragazza che da bambina girava per le vie di Poggio Renatico, il suo paese, con gli occhi sempre bassi».
Per la vergogna?
«No. Era figlia di un fascista, ma non se ne vergognava. Però le vie erano tappezzate di scritte su suo papà, Giovanni Gardini. Dicevano: "A morte Gardini!"».
E chi era Gardini?
«Un amico di Italo Balbo: con la Rsi divenne Podestà di San Donà di Piave. Dopo l’8 settembre fuggì per salvare la pelle. Per fortuna ci riuscì».
Perché me lo racconta?
«La bambina si chiamava Gardenia, ed era destinata a diventare madre di un bimbo. Di Dario. Cioè Franceschini. E sa chi me l’ha raccontato?».
Chi?
«Lo stesso Franceschini! Ecco perché, quando vedo semplificazioni antistoriche, e che a farle è il Pd, scuoto il capo».
Cosa non la convince?
«Non credo che il problema del Pd sia la storia del ’45. Mi cascano le braccia se vedo Veltroni abbarbicato a questo antifascismo perdente e suicida. Perché so che il suo vero problema è Di Pietro che fa la faccia feroce. Lui allora rilancia, senza esserne convinto, perché gli stanno rubando il patrimonio».
Parliamo del primo inverno della paura, nel 1943.
«Non capisco cosa ci sia si scandaloso in quel che ha detto La Russa».
Forse il suo ruolo?
«Ma il ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. È un politico, un ministro. Posso citarle i numeri di Salò?».
Degli arruolati.
«Sì. Secondo le fonti della Rsi, furono più di 800mila».
Stime di parte?
«Non molto contestate, a dire il vero, ma il nodo è un altro. Vogliamo dire che erano 500mila? Il fatto è chi erano davvero questi ragazzi».
Intende il loro identikit?
«Dico che è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti! Molti di loro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne: cinema, scuola, radio... le divise dei figli della lupa... ».
E quindi?
«E quindi, la maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo, che non aveva nemmeno mai conosciuto».
Giudizio storico o politico?
«Dico che quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere».
Pansa rimpiange ad alta voce i meravigliosi anni Settanta: «Erano tempi meno feroci. Forse il Pci aveva altre bandiere, il mito dell’Urss. Ecco, a me preme spiegare che quei ragazzi di cui parla La Russa, non erano quattro miserabili scherani, come vuol far credere chi polemizza con lui».
E chi erano?
«Uomini che si trovarono giovanissimi nel tempo delle scelte dure. Alcuni di loro potevano essere nostri padri. O fratelli. O persino, come nel caso di Franceschini, i nostri nonni».
Avete preso nota, si? Il ministro della Difesa non è mica un sacerdote della Repubblica, tenuto all’imparzialità. Non siede al Quirinale, lui: è un politico... Se ne deduce (io, almeno, deduco moooolto volentieri: sarà che Giampaolo Pansa mi sta cordialmente sui coglioni...) che Ignazio La Russa, volendo, potrebbe pure inneggiare al principe Borghese e alla X° MAS o - perché no? - ai nostri valorosi alleati germanici e, stando a quanto afferma il signor Pansa, non ci sarebbe proprio nessun problema. Tanto il politico La Russa non è tenuto a niente: può quindi scorreggiare fascismo quanto gli pare e dove gli pare.
Ma sentite cos'ha risposto il Franceschini, così simpaticamente chiamato in causa: "l’accusa che Pansa mi ha formulato è di avere «ringhiato» contro La Russa e le sue affermazioni sui giovani di Salò mentre non avrei potuto farlo proprio per la mia storia. Innanzitutto non mi pare di aver «ringhiato», ma a una domanda di un giornalista ho educatamente risposto che condividevo le parole del presidente della Repubblica, così diverse da quelle del ministro della Difesa pronunciate poco prima, e ho tentato di ricordare che l’antifascismo è un elemento fondante della nostra democrazia repubblicana e pertanto dovrebbe essere un valore condiviso da tutte le forze politiche. Ma poi credo, francamente, che proprio la mia vicenda familiare, molto simbolica come molte storie italiane, mi consenta di esprimere qualche giudizio non ideologico, ma vissuto. Ripercorro con poche parole questa storia nella sue completezza, per i lettori più che per Pansa, che la conosce tutta anche per averla riportata in uno dei suoi libri e che ieri invece nell’intervista (e questa è la parte che mi ha lasciato un po’ di amarezza) ha raccontato solo in parte, omettendo il finale. Mio nonno materno, cui ho voluto un gran bene, aderì prima al fascismo, poi alla Repubblica di Salò. Ci credeva, e negli incarichi amministrativi che ebbe riuscì a farsi benvolere da tutti. Dopo la Liberazione per qualche anno restò lontano dalla famiglia e dal suo paese natale, Poggio Renatico, per evitare le vendette e le rappresaglie che segnarono drammaticamente quel tempo. Così mia mamma, innocente e bambina, il mattino andava a scuola con la testa bassa, per non leggere sui muri del paese le frasi minacciose contro suo papà. La parte che Pansa non ha raccontato, ma è quella che più simbolicamente dimostra come gli italiani abbiano costruito la riconciliazione nazionale molto prima delle loro classi dirigenti, è che, poco tempo dopo la Liberazione, quella ragazza, mia mamma, si fidanzò e poi si sposò con mio padre, un giovane ex partigiano, componente il Cln sfuggito alla fucilazione, da poco diventato deputato della Democrazia Cristiana. Mio nonno approvò quella scelta e la mia famiglia è stata per anni unita sull’affetto e sul rispetto. Anche l’Italia, dopo le laceranti ferite del primissimo dopoguerra, è stata in fondo così. Ora la domanda è: perché questa mia vicenda familiare dovrebbe ostacolare un mio giudizio sul fascismo e una mia contrarietà al tentativo, oltre mezzo secolo dopo, di mettere tutti sullo stesso piano: chi combatteva per una causa giusta e chi dalla parte sbagliata? Non è un problema di rispetto per la vita di tutti. È che la storia non può essere cambiata e che la nostra democrazia ha le radici in quel riscatto nazionale reso possibile dalle donne e dagli uomini della Resistenza, dopo le vergogne della dittatura, degli omicidi politici, delle leggi razziali, dell’alleanza col nazismo, dei morti di una guerra tragica e folle. Quando si piange in Normandia di fronte a quel prato struggente pieno di croci bianche, quando si visita Auschwitz, quando si prega a Marzabotto o alle Fosse Ardeatine, a qualcuno può venire in mente di mettere sullo stesso piano i soldati americani e i loro nemici, le vittime innocenti dell’odio razziale e i loro carnefici? Furono in molti, e fu così anche per mio nonno, a trovarsi dalla parte sbagliata in buona fede, spesso anche solo per ubbidienza e non facendo del male a nessuno, ma non si può riscrivere la storia, non si può cercare di equiparare ciò che non è equiparabile soltanto per giustificare, come è stato forse, anche inconsapevolmente, in questi giorni per Alemanno e La Russa, le proprie passate imbarazzanti militanze. In ogni democrazia matura lo scontro politico, anche il più duro, avviene sempre dentro un sistema di regole e di valori comuni. Gli episodi e le frasi infelici di questi giorni proprio su questo devono interrogarci. Possono gli avversari politici anche in Italia, più di sessant’anni anni dopo la fine del fascismo, ormai vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, condividere senza distinguo i valori fondanti della nostra Costituzione e riconoscere una storia nazionale condivisa? O dobbiamo aspettare che passi un’altra generazione?”.
Davvero magnifico, il signor Giampaolo Pansa, nevvero? Se hai avuto un nonno fascista, tu non lo puoi mica criticare, il fascismo. E se per caso ti venisse l'uzzolo di farlo, nipote degenere, sappi che le tue sono solo bieche “semplificazioni antistoriche”.
Sia come sia, sono convinto anch'io del fatto che il problema del PD non sia la storia del ’45. Il problema del PD (che è pure il problema di ogni italiano che abbia un minimo – un minimo - di onestà intellettuale e di decenza morale), nel 2008, è saper rintuzzare per benino certe merdate revisioniste.
Magari – che so? - ricordando che la Seconda Guerra Mondiale, scatenata dal nostro valoroso alleato germanico, si concluse con circa 50 milioni di morti, dei quali quasi il 50% fra la popolazione civile: chissà, forse le nude cifre del disastro potranno aiutare qualcuno a capire perché, alla fine del conflitto, fu sparso, qua e là, un po' di sangue dei vinti.
Ma questo è un discorso tutto sommato abbastanza semplice da fare.
Volendo andare un pochino sul difficile, si potrebbe far presente che, dopo la fine della guerra, quelli che avevano partecipato alla Resistenza o avevano sofferto nel glorioso ventennio (ed erano parecchi) pretendevano, pensa un po', che i membri del regime fascista non sfuggissero a una qualche punizione. E fu allora che (rullo di tamburi) si regalò loro la famosa epurazione. Ovvero, uno straordinario, indimenticabile, lavacro pubblico di certi peccatucci nazionali.
Allora, epurare la pubblica amministrazione da coloro che erano stati fascisti iscritti significava più o meno chiuderla, dal momento che la tessera del fascio, ai tempi della buonanima, era stata resa obbligatoria per tutti i funzionari dello Stato. E vabbé.
Ma per il resto, le commissioni di epurazione furono veramente spietate, sapete? Infatti lasciarono libere alcune tra le peggiori canaglie del fascismo. Furono davvero molti i dirigenti del PNF assolti con formulazioni risibili, quando non decisamente oltraggiose. Ad esempio Paolo Orano, capo di stato maggiore di Benito Mussolini durante la marcia su Roma, membro del Gran Consiglio e sottosegretario agli Interni, che fu liberato perché il tribunale fu incapace di stabilire un «nesso causale» tra il suo comportamento e la distruzione della democrazia. Ad esempio Renato Ricci, che fu riconosciuto non colpevole in quanto la Guardia nazionale di Salò, di cui era stato comandante, fu considerata nient'altro che una forza di polizia interna.
La magistratura, poi, non fu toccata manco di striscio e, quando dovette giudicare a sua volta... Avrete già intuito che cosa accadde, vero?
Massì, bravi: ci fu un mare di prosciolti dall'accusa di collaborazione col passato regime.
Ah, tempi durissimi, quelli dell'epurazione. Per dire della sua inesorabile efficacia, nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in servizio erano stati funzionari sotto il fascismo. Lo stesso valeva per tutti (tutti...) i 135 questori e per i loro 139 vice. Solo cinque di essi avevano partecipato, in qualche modo, alla Resistenza.
Nel giugno 1946 arrivò finalmente il Guardasigilli Palmiro Togliatti (un realista: in Italia non mancano mai...) a metter tutto in ordine con la sua famosa amnistia, perciò bye bye all'epurazione e finiti i patimenti. Quanto segue lo potete trovare in Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi, di Paul Ginsborg.
Mi suonava bene e allora ecco qua: “Proposta per motivi umanitari, l'amnistia sollevò una valanga di critiche. Grazie alle sue norme sfuggirono alla giustizia anche i fascisti torturatori. Venne stabilita una distinzione grottesca e disgraziata tra «torture normali »e «sevizie particolarmente efferate». Con questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini quali lo stupro plurimo di una partigiana, la tortura di alcuni partigiani appesi al soffitto e presi a calci e pugni come un sacco da pugile, la somministrazione di scariche elettriche sui genitali attraverso i fili di un telefono da campo. Per quest'ultimo caso la Corte di Cassazione stabilì che le torture «furono fatte soltanto a scopo intimidatorio e non per bestiale insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente ordinaria». Alla fin fine l'unica effettiva epurazione fu quella condotta dai ministri democristiani contro i partigiani e gli antifascisti che erano entrati nell'amministrazione statale subito dopo l'insurrezione nazionale. Lentamente ma con determinazione De Gasperi sostituì tutti i prefetti nominati dal Clnai con funzionari di carriera di propria scelta. E nel 1947-48 il nuovo ministro democristiano degli Interni, Mario Scelba, epurò con sveltezza la polizia dal consistente numero di partigiani che vi erano entrati nell'aprile 1945”.
Poveri i vinti, eh? Quanto son stati perseguitati, dai malvagi antifascisti!
Ma per fortuna adesso è arrivato Giampaolo Pansa, a riscattarne la memoria e a difenderli da noi, i nipoti ingrati!
Come dite? Che gli italiani non hanno avuto la loro Norimberga come avrebbero meritato e che il popolo italiano non sa un cazzo di niente dei suoi criminali di guerra che operarono in Africa o nei Balcani? Beh, mi dispiace tanto ma siete solo degli antifascisti ringhianti, antistorici e barbari: quei criminali di guerra che, dite voi, non han mai pagato dazio, sono anche loro uomini, sapete? Uomini che si trovarono giovanissimi nel tempo delle scelte dure. E seppero scegliere: evidentemente, per il meglio...
Un caro saluto, nipoti indegni che non siete altro, dal nonno più nonno di tutti.



lunedì 15 settembre 2008

David Foster Wallace se n'è andato


Si è impiccato tre giorni fa nella sua casa di Claremont, in California.
Lo ricorderò rileggendomi Lyndon, uno dei suoi racconti più belli.


- Mi chiamo Lyndon Baines Johnson, figliolo. Nel Senato degli Stati Uniti ho il posto di Senatore dello stato del Texas, Usa. Sono il ventisettesimo uomo più ricco della nazione. Ho il più grosso pisello di Washington e la moglie con il nome più carino di tutte. Perciò non me ne frega niente delle conoscenze del paparino di tua moglie, devi stare composto davanti a questo Senatore, ragazzo.

domenica 14 settembre 2008

Nel caso questa ve la siate persa


Son mica vignette, quelle di Altan: son fucilate...

venerdì 12 settembre 2008

Però, quel Italo lì, anca lù un inscì bravo fioeu...


Berlusconi ad Atreju '08, festa di Azione Giovani, raccontando del suo recente incontro con Gheddafi, se n'è uscito in questo modo: “Il Colonnello si lamentava con me del periodo della colonizzazione, pensate che loro festeggiavano il Giorno della Vendetta” (già, pensate un po', n.d.r.) “e noi non abbiamo contezza degli eccidi degli anni della colonizzazione.” (eh, no: noi non ce l'abbiamo, la contezza, n.d.r.) “Ma io gli ho detto che Italo Balbo in Libia ha fatto cose egregie, cose buone. Lui mi ha risposto che Balbo ha costruito caserme e opere pubbliche sempre per i colonizzatori e questo non andava bene”.
Italo Balbo...


Il più bel ritratto di Italo Balbo di cui io sia a conoscenza lo potete trovare in Mussolini e le donne, di Gian Carlo Fusco. Un libro, uscito per la prima volta in volume nel 1973 (in realtà in un'antologia dal titolo, alquanto curioso, di Playdux, pubblicata per i tipi di Tattilo Editore), che raccoglie materiali la cui origine si può far risalire agli inizi - tra la fine degli anni Quaranta e la metà dei Cinquanta - della carriera giornalistica e letteraria di un autore che, a parte la qualità sopraffina della sua scrittura, è stato, a giudizio di molti, il più grande narratore orale dell'Italia del dopoguerra: ripubblicato da Sellerio nel 2006, caldamente consigliato dal vostro affezionatissimo. Io ve ne regalo un assaggio, voi poi correte in libreria, intesi?


Si sapeva, infatti, che il duce aveva nominato Balbo governatore della Libia, nel '34, dopo le sue imprese transatlantiche, per levarselo dai piedi fingendo di premiarlo. Allarmato da una popolarità internazionale (specialmente fra gli italiani d'America) che minacciava di oscurare la sua. E i meglio informati non ignoravano neppure che il maresciallo-governatore era decisamente contrario all'entrata in guerra «a fianco dell'alleato germanico ». La sera del fatale 10 giugno, in un salone della sua fastosa residenza tripolina, trovandosi fra amici, aveva dichiarato: «E' il principio della fine! Mussolini ha perso la trebisonda. L'Italia verrà travolta dal crollo dei tedeschi!».
Balbo non era certo uno sprovveduto. Sapeva perfettamente che due o tre degli «amici » fra i quali si trovava quella sera erano agenti dell'OVRA, ad alto livello, incaricati di riferire a Mussolini ogni sua parola. Uno, in particolare, che gli era stato sinceramente fedele per quasi vent'anni, a partire dalle feroci scorribande squadristiche nella bassa ferrarese, ma che nel '38 era passato fra gli «ovrini» di lusso, stipendiato per spiarlo. Balbo era talmente al corrente dell'attività svolta, alle sue spalle, dal personaggio in questione, che più di una volta aveva detto: «Poveraccio! Non è mica cattivo. Solo che gli ci vogliono almeno quattro o cinque grammi di coca al giorno, e le diecimila lire al mese che gli occorrono per comprarla, in qualche modo deve pure procurarsele!». Ma nonostante la matematica sicurezza che le sue «gigionate disfattistiche» (il duce le definiva così) sarebbero arrivate, puntualmente, alle orecchie del dittatore, se ne fregava e rincarava la dose. Con crescente strafottenza. Non si faceva illusioni. Se il «carnevale mussoliniano» (parole sue) si stava avvicinando alla fine, sarebbe stata la fine anche per lui. Ma voleva, perlomeno, finire in bellezza. Da perfetto
playboy. Perché la sua vera natura, sotto la crosta del potere politico e della gloria aviatoria, era rimasta quella di un playboy. Passato, col trionfo del fascismo, dallo squallore velleitario della provincia ai fasti nazionali. E lo dimostra il fatto che quando, nella primavera del '40, la principessa A.d.F, sua «favorita» del momento, gli chiese: «Di' un po', Titì, qual è il personaggio dell'antica Roma che ammiri di più? Cesare?».
«No!” rispose.
«Marc'Aurelio?».
«Nemmeno!».
«Ho capito! Forse è Costantino. Perché nel '33, quando sei tornato dalla trasvolata, sei passato, in trionfo, sotto il suo arco» .
«Me ne fotto di Costantino e del suo arco, amica mia! Se ci tieni proprio a saperlo, l'unico personaggio della romanità per il quale provo ammirazione e simpatia è Petronio Arbitro!».
E cos'era stato Petronio, se non uno splendido
playboy, che aveva pagato con la morte il lusso di sfottere Nerone? Così come lui, ora, rischiava forse la vita, sfottendo Mussolini.
Balbo morì a 44 anni. Li aveva compiuti 22 giorni prima, il 6 giugno. Aveva fatto la grande guerra negli alpini e alla fine del '18, a 22 anni, era stato smobilitato col grado di capitano. A differenza di tanti altri reduci, aveva subito ripreso gli studi. Nel '20, a Firenze, si laureò in scienze politiche. Era laico, mazziniano, professava idee liberali ad oltranza. Con quel ciuffo ribelle sulla fronte e quel pizzetto aggressivo, aveva qualcosa di ottocentesco, di romantico. Tant'è vero che «madama» Saffo, proprietaria del miglior casino di Firenze, tutto specchi e velluti, lo chiamava «il mi' bel Mameli». Ma lui, a dire il vero, dalla Saffo ci andava molto di rado (anche se la signora era disposta a fargli credito di qualche marchetta) perché era sempre a corto di lire. E forse fu proprio per la micragna, più che per un'improvvisa conversione politica, che accettò, nel 1921, l'offerta dei grossi terrieri padani, diventando segretario del fascio per Ferrara e provincia. Duemila lire, a quei tempi, erano lo stipendio di un generale. Se le guadagnò. Capitanando, quasi ogni giorno, cialtronesche spedizioni contro le leghe contadine e le cooperative, rosse e bianche, nella pianura nebbiosa che si stende fra il Po e Ravenna. I «play-teppisti» ai suoi ordini si chiamavano Olao Gaggioli (detto «Sciagura»), Arturo Breviglieri, Lorenzo Gambi, Franco Gozzi, Umberto Pedriali.... Il fior fiore dello squadrismo ferrarese, raccolto nel cosiddetto «Celibano». Un circolo riservato ai fascisti provatamente capaci di tutto, i cui iscritti avevano in tasca una tessera di pelle impressa a fuoco. Pelle di porco. Che, però, simboleggiava quella dei «porci sovversivi». Inutile dire che i «celibanisti», fra una spedizione e l'altra, tenevano le loro assemblee sociali nel distinto casino gestito da «madama» Marion. L'unica donna che avesse ricevuto,
ad honorem, la famosa tessera di pelle.
Dopo la marcia su Roma, il quadrumviro Balbo, in continua ascesa, cominciò ad incontrare sempre meno e sempre meno volentieri gli scagnozzi che gli avevano dato manforte negli anni della «vigilia». Nel settembre del '29, quando festeggiò, da vero «playras», la sua nomina a ministro dell'aeronautica, riunendo a Forte dei Marmi circa duecento amici (belle amiche, soprattutto), per un movimentato fine settimana «a porte chiuse», non un solo esponente della vecchia guardia ferrarese fu della partita. E nel 1933, allorché, reduce dalla seconda trasvolata atlantica, incontrò, in un salotto romano, la giovane attrice che poi doveva diventare la sua amica, sentendo che parlava con lievissimo accento emiliano, le chiese, in tono palesemente allarmato: «Dica un po'! Lei non sarà mica, per caso, di Ferrara o dei dintorni!».
«Ma no! Sono di Modena!».
«Meno male!».


Avrete notato, immagino, quante baldracche compaiano in questo brillante resoconto. I fascisti, si sa, quando non sono dei tragici omosessuali repressi, sono animali da casino. Gente tosta, virilissima: gente che è abituata a pagarle, le donne, eccheccazzo!
Un po' come il nostro Maschio Dominante, cav. Berlusconi Silvio, dite voi? Mah...
Balbo fu mandato da Mussolini, infastidito dalla sua popolarità, a «fare le sabbiature» (si espresse proprio così, quel Maschio Dominante degli italiani di tanti anni fa) in Libia, venendo in questo modo relegato ai margini del PNF.
Gli giravano i coglioni, parlando del suo vecchio capo banda. Una sera, nel 1938, durante uno dei suoi splendidi ricevimenti, disse: «Nel 1911, i socialisti, contrari alla guerra italo-turca, definirono la Libia “uno scatolone di sabbia”. Fra quei socialisti c'era anche Mussolini. Il quale mi ha mandato qui proprio per inscatolarmi. Ma ha sbagliato! Perché stando a Roma, potevo rompergli, al massimo, le scatole. Mentre qua posso rompergli addirittura lo scatolone!».
Spendeva e spandeva alla grande: fu lui il primo ad essere soprannominato “Sciupone l'Africano” (poi toccò ad Emilio Fede quando faceva l'inviato RAI nel continente nero, alle falde del Kilimanjaro). Ci rideva su, «orientando il pizzo, come l'ago di una bussola, in direzione di Roma».
Un giorno, scherzando con Orio Vergani su Allegria di naufragi di Ungaretti, disse: «Anch'io mi preparo a naufragare allegramente!».
Italo Balbo morì alla fine del giugno 1940, quando il suo “S61” venne centrato per errore dalle nostre batterie antiaeree nel cielo di Tobruk. Conclude Gian Carlo Fusco che «forse, il suo naufragio personale, (...) fu assai meno allegro di quanto avesse sperato. Ma gli evitò, perlomeno, la tragedia convulsa e insensata del naufragio collettivo nell'aprile del '45. Un vero playboy finire nella death-fair di piazzale Loreto? Giammai!».


Per un approfondimento sul periodo ferrarese di Italo Balbo, vi rimando a Mimmo Franzinelli e al suo bellissimo (e utilissimo...) Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922
Vi si racconta, tra le altre cose, anche di Tommaso Beltrani, promotore del fascismo ravennate, chiamato a Ferrara da Balbo, di cui divenne luogotenente per attuarne “le inflessibili direttive”. Ovvero, botte, botte, botte e sempre botte; botte, botte, botte in quantità.
Nel giugno del 1923 “Balbo lo designa segretario della federazione di Ferrara, carica dalla quale è estromesso il 30 aprile 1924, essendosi trovato in minoranza nelle lotte di corrente”. Emarginato da ruoli direttivi, si vendica consegnando ai Repubblicani, in cambio di 7000 lire, “un corposo dossier, assai compromettente per Balbo (...) che ventilava sue corresponsabilità nelle violenze culminate nell'assassinio di don Minzoni”.
Gli eredi Balbo, va detto, si incazzano sempre molto se qualcuno adombra delle responsabilità dirette da parte del loro congiunto nel delitto Minzoni.
A me piacerebbe un sacco, però, se qualcuno (magari proprio un prete) spiegasse pubblicamente a Silvio Berlusconi chi era Giovanni Minzoni. Così, tanto per vedere l'effetto che fa.


P.S.
Di Gian Carlo Fusco, grandissimi anche Guerra d'Albania e Le rose del ventennio, entrambi Sellerio, e il formidabile Duri a Marsiglia, Einaudi.
Se poi, come prevedo, per Fusco impazzirete, leggetevi anche L'incantatore. Storia di Gian Carlo Fusco, firmato dal bravissimo Dario Biagi e pubblicato da Avagliano Editore: una biografia che è un romanzo. E di quelli avvincenti.
Soddisfatti o rimborsati, eh!

giovedì 11 settembre 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.37)


"In un Paese come il nostro il ripristino del privilegio viene considerato il ripristino di una maggiore efficienza."

(Federico Caffè)


P.S.
Mi ricordo di queste parole ogni qual volta sento concionare Renato Brunetta o Maurizio Sacconi, socialisti di Forza Italia. Chissà perché...
Se ignorate chi sia, 'sto Federico Caffè, fate un salto in libreria. Sulla sua figura Ermanno Rea scrisse, a suo tempo, un libro molto bello, L'ultima lezione.
Recentemente riedito da Einaudi.

mercoledì 10 settembre 2008

Un post molto stronzo



Non sto con lui perché è una persona potente. Sto con lui perché è alto.


P.S.
Qui di seguito, il testo di Short People, una canzone che parla davvero malissimo dei piccoletti. La trovate in Little Criminals, del 1977, che è uno dei più bei dischi di Randy Newman.



Short People got no reason
Short People got no reason
Short People got no reason
To live

They got little hands
And little eyes
And they walk around
Tellin' great big lies
They got little noses
And tiny little teeth
They wear platform shoes
On their nasty little feet

Well, I don't want no Short People
Don't want no Short People
Don't want no Short People
'Round here

Short People are just the same
As you and I
(A Fool Such As I)
All men are brothers
Until the day they die
(It's A Wonderful World)

Short People got nobody
Short People got nobody
Short People got nobody
To love

They got little baby legs
And they stand so low
You got to pick 'em up
Just to say hello
They got little cars
That go beep, beep, beep
They got little voices
Goin' peep, peep, peep
They got grubby little fingers
And dirty little minds
They're gonna get you every time

Well, I don't want no Short People
Don't want no Short People
Don't want no Short People
'Round here

martedì 9 settembre 2008

Un post politicamente scorretto


A Cernobbio, al Workshop Ambrosetti (chissà poi che cazzo sarà mai, 'sto Workshop Ambrosetti), il ministrino della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, ha dato qualche numero (...) sui risparmi possibili nella pubblica amministrazione (un'azienda – di Stato, però: robaccia, quindi – che vale il 15% del Prodotto Interno Lordo e quasi equivalente al settore privato in termini di valore aggiunto). Il quotidiano La Repubblica riferisce che “secondo Brunetta se si riuscisse ad aumentare la produttività dei dipendenti pubblici del 10-15% si otterrebbero benefici per 10-15 miliardi di euro all'anno. E ancora di più si potrebbe ottenere tagliando gli sprechi nell'indotto della pubblica amministrazione, che vale ben 220 miliardi. Tra maggiore produttività e minori sprechi si raggiungerebbe un beneficio di 40-50 miliardi all'anno, che arriverebbero a 200 miliardi nei cinque anni di governo. Praticamente quindici punti di Pil”.
E alla fine di tutto ciò, come per magia, il ministrino Renato Brunetta
riuscirà finalmente a diventare
altissimooooooooooooooooo!!!

Claretta Petacci


"Non sarebbe più gentile Venticelli?"

(Ettore Petrolini)


Che soave canagliata, nevvero?

domenica 7 settembre 2008

Tu quoque, Eugenio?

Non si sfugge all'omelia domenicale di Eugenio Scalfari. Almeno, io non riesco a sfuggirle, e ormai da anni annorum.
Oggi Scalfari scrive: "Il governo, la sua maggioranza e gran parte dei “media” cercano dal canto loro di accentuare questo processo di disfacimento dell'opposizione. In vari modi.
Uno di essi, il più frequentato, si svolge intorno alla parola “dialogo”. S'invoca il dialogo, si vuole il dialogo e se ne tesse la tela attraverso il dialogo con pezzi dell'opposizione o addirittura con singoli personaggi. «La sventurata rispose» scrive il Manzoni quando la Monaca di Monza parla con il suo amante e acconsente al rapimento di Lucia”.

Che? Ma insomma, uffa...
Non è mica andata come dice Scalfari, sapete?
Allora, c'era «un giovine, scellerato di professione, uno de' tanti, che, in que' tempi, e co' loro sgherri, e con l'alleanze d'altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall'empietà dell'impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose».
Battuta epigrafica, tre parole tre. Si tratta di una delle più celebri reticenze della letteratura italiana - fa il paio con «quel giorno più non vi leggemmo avante» messo in bocca a Francesca da Rimini nel canto V dell'Inferno di Dante - e rappresenta l'inizio della storiaccia tra la Monaca e quello scellerato di Egidio.
Con il ratto di Lucia Mondella la prima risposta della sventurata al suo drudo non c'entra una mazza che sia una. Vediamo di spiegarlo meglio.

Venuto a sapere che la povera Lucia era ospite della Monaca di Monza, il malvagio e dissoluto «Don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s'era risoluto di cercare il soccorso d'un terribile uomo» per farla rapire.
Trattasi, avrete colto, dell'innominato. Che si rese graziosamente disponibile. Scrive il Manzoni: «Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno de' più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l'innominato». Dunque Egidio chiede alla Monaca di consegnare Lucia al terribile uomo. Ancora Manzoni: «Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l'ultima, non fu che un primo passo in una strada d'abbominazione e di sangue. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia. (...) La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall'orribile comando; tutte fuorché la sola ch'era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì».
Così andarono le cose.
Un paio di giorni fa mi son fatto due risate a spese di un ignoto articolista de Il Giorno che aveva preso un notevole sfondone su Shakespeare, oggi mi ritrovo su la Repubblica 'sta cappella su Manzoni. Di Scalfari in persona.
E mi sento come Massimo Alfredo Giuseppe Maria Buscemi, quel tizio sempre impassibile che nella prima edizione di Quelli che il calcio (eh, si: una volta lo seguivo anch'io, il calcio) veniva ogni tanto inquadrato e interpellato: il suo compito era quello di ricordare a memoria, e sciorinare allo scelto pubblico, la storia delle carriere, con tanto di presenze e gol, di calciatori d'altri tempi.
Alla immancabile domanda di Fabio Fazio, “Ma perché lei ci dice tutto questo?”, Buscemi rispondeva, altrettanto immancabilmente, "Per la precisione!”.