domenica 25 novembre 2007

Varcando le cupe frontiere (mit Herr Aue)




Ho passato un po' di tempo in compagnia di Herr Aue. E' stata un'esperienza che non raccomando a nessuno. Inquietante. A volte insostenibile.
E non perché Le Benevole sia un romanzo di 943 pagine fitte fitte: io sono molto duro a cuocere, sapete?
Ecco a voi, perciò, le parole dell'Obersturmbannfuehrer Aue. Vedrete che capirete da soli.
“Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io l'avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell'altro. Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato dalla storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l'eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un'epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie e i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori”(Le Benevole, pag. 21).
Ancora? Ecco.
Ma non penso di essere un demonio. Per ciò che ho fatto c'erano sempre delle ragioni, giuste o sbagliate, non so, in ogni caso ragioni umane. Quelli che uccidono sono uomini, come quelli che vengono uccisi, è questa la cosa terribile. Non potete mai dire: “Non ucciderò”, è impossibile, tutt'al più potete dire: “Spero di non uccidere”. Anch'io lo speravo, anch'io volevo vivere una vita buona e utile, essere un uomo fra gli uomini, uguale agli altri, anch'io volevo aggiungere la mia pietra all'edificio comune. Ma la mia speranza è stata delusa, e si sono serviti della mia sincerità per compiere un'opera che si è rivelata malvagia e perversa, e io ho varcato le cupe frontiere, e tutto quel male è entrato nella mia vita, e nulla di ciò potrà mai essere riparato, mai”(pag. 25).
E dunque vedete. Avrete notato il tono...
Herr Aue (protetto alla fine della guerra dalle Eumenidi - le Benevole, Les Bienvieillants del titolo di un romanzo scritto in francese da un americano - cantate da Eschilo nell'Orestea, che si contrappongono alle Erinni, le divinità della vendetta. Le stesse Eumenidi che, nonostante il matricidio di Clitennestra, hanno protetto Oreste dalla furia degli dei e che hanno però il compito di tenere sempre vivo il ricordo di quello che è stato, ovvero la responsabilità, per qualcuno, di crimini orrendi) Herr Aue, dicevo, cerca insidiosamente la nostra complicità. Non la implora: la chiede cortesemente. La chiede da uomo di mondo che solo le circostanze, lo spirito di tempi completamente impazziti, hanno potuto sviare da una vita di studi e di soddisfazioni accademiche e da una rispettabile e rispettata professione borghese.
La mia complicità non l'ha mai ottenuta. E non perché Herr Aue delle sue azioni non si è MAI pentito (“Come ha dichiarato così bene il mio commilitone Eichmann, a Gerusalemme, con tutta la diretta semplicità degli uomini semplici: - 'Il pentimento è una cosa da bambini'”, pag. 656). Dei confessionali a me non importa (è noto) un accidente (anzi, per meglio dire: importa meno, forse, di quanto importi a Herr Aue). Il fatto è che io detesto, da sempre, gli uomini di mondo. Cosa avrebbe dovuto affascinarmi? Il fatto che questo signore sia sì un nazista, ma un nazista coltissimo? Mi pare pochino, via, perché potesse scattare qualcosa tra noi.
Che Aue appaia come un nazista, come dire, un po' fuori norma, qualcuno lo ha fatto notare, a Jonathan Littell. Che si è detto d'accordo: “Ma un nazista sociologicamente credibile non avrebbe mai potuto esprimersi come il mio narratore. Non sarebbe mai stato in grado di fare luce sugli uomini che lo circondano. Quelli che sono esistiti come Eichmann o Himmler, e quelli che ho inventato io. Max Aue è un raggio X che esplora, uno scanner. Effettivamente non è un personaggio verosimile. Non cercavo la verosimiglianza, ma la verità. Non vi è romanzo possibile se ci si aggrappa al solo registro della verosimiglianza. La verità romanzesca è di un altro ordine rispetto a quella storica o sociologica”. Sostiene Littell. E mi può andare bene. Solo che io non sono tanto sicuro del fatto che Herr Aue non sia un personaggio verosimile.
Non valgono quindi per me (per mia fortuna, ne sono consapevole) le preoccupazioni manifestate da Claude Lanzmann, l'autore di Shoah: “Il romanzo è intitolato ai morti ma il suo eroe è un uccisore di ebrei mentre stanno scomparendo gli ultimi testimoni dell'Olocausto e si passa dalla memoria alla Storia. Littell ha creato un velenoso fleur du mal. Attenzione dunque a non estrarre dalle viscere della Storia demoni troppo talentuosi, possono esercitare sul lettore un fascino assassino ad accettarli perché sono simili a noi, umani troppo umani”.
Capisco che il problema non può essere solo un problema mio (anche se io posso fornire unicamente le mie personalissime, e discutibilissime, ça va sans dire, impressioni sul testo di Littell) e che Lanzmann possa essere un po' preoccupato dell'enorme successo arriso al libro in Francia (l'editore Gallimard pare avesse previsto per Le Benevole una tiratura iniziale di sole 5000 copie. Il libro, poi, di copie, ne ha vendute centinaia di migliaia – alla faccia della sua mole – ed è arrivato al Prix Goncourt): perché i libri, lo sappiamo, possono anche essere molto pericolosi. Certi libri di gran successo lo sono stati sicuramente, nel corso della Storia umana. Littell però riesce secondo me a sfuggire, nel romanzo, al pericolo, da molti paventato (non solo da Claude Lanzmann, quindi), di una valorizzazione estetica del male. Eppoi, ma a quanti di noi questo Aue - così ferito nell'anima, (e perciò) così spaventosamente nevrotico, così feroce - può essere simile?

E non mi pare nemmeno che, pur raccontando la storia di un pervertito dalla sessualità completamente devastata, l'autore giochi sulla fascinazione che certa estetica nazi-decadente potrebbe magari esercitare su anime (non dico semplici, ma) assai facilmente impressionabili (ed eccitabili...): ci sono arrivati molto prima di lui - e, a quanto ne so, con molte polemiche in meno - Luchino Visconti e, in versione, come dire, più pop, la Cavani. E, dopo di loro, legioni di pornografi...
Ha scritto Georges Bataille. "I boia non hanno parola, oppure, quando parlano, lo fanno con la parola dello Stato". Ecco, Maximilien Aue ne ha fin troppe, di parole. E sono parole terrificanti.
Ancora Littell: “Ho scoperto la frase di Bataille dopo avere terminato il mio libro. Mi ha illuminato retrospettivamente. All'inizio, pensavo che nei testi dei carnefici avrei trovato cose a cui mi sarei potuto aggrappare. Tra questi e tutti i carnefici che ho frequentato nella mia vita lavorativa (Littell è stato operatore di organizzazioni umanitarie: in Bosnia dalla parte serba, in Cecenia, in Afghanistan, in Rwanda, n.d.r.) pensavo che avrei avuto il mio bel daffare. Invece, più mi inoltravo nella lettura, più mi accorgevo che non c'era niente. Non avrei mai potuto proseguire restando nel registro della ricreazione della fiction classica con l'autore onnisciente, alla Tolstoj, arbitro del bene e del male. Il solo modo era mettersi nei panni del boia. Dunque, di boia ne ho visti e conosciuti. Sono stato accanto a loro. Sono partito da quel che sapevo, vale a dire io, con il mio modo di pensare e di vedere il mondo, mi dicevo che mi dovevo mettere nei panni di un nazista».
E' questo che ho trovato disturbante, inquietante, a volte insostenibile in questo (grande) romanzo: pensare a Littell, solo, davanti ad una pagina bianca, che cerca di mettersi nei panni di un boia. In proposito, sentite questa, se non è straniante, se non è terribile: “Come la maggior parte della gente non ho mai chiesto di diventare un assassino. Se avessi potuto, l'ho già detto, mi sarei occupato di letteratura” (Max Aue, a pag. 23)

4 commenti:

Anonimo ha detto...

mi è parso un grande romanzo. anche se non lo ho ancora metabolizzato a sufficenza. non ho provato ne fascinazione ne repulsione.forse un pò d'ammirazione per chi tenta ancora un romanzo a tratti di stampo ottocentesco. e risparmio le considerazioni sulla banalità del male..

tic. ha detto...

La stessa ammirazione che ho provato io.Ci vuole coraggio a fare quello che ha fatto Littell. E ci vuole anche coraggio a pubblicarlo, un romanzo del genere.

Ho seguito, da un anno a questa parte, il dibattito critico che c'è stato sul testo (il dibattito critico prima di affrontare la lettura).
Dopo aver letto LE BENEVOLE certe critiche mi sono parse davvero irritanti.
A parte la pitoccheria di chi rimprovera all'autore di aver venduto tante copie del suo libro (embè?).
Quello che mi ha urtato veramente è rilevare una volta di più che c'è gente (recensori, perché parlare di critici letterari mi pare un po' troppo: ormai i critici letterari sono più rari del Gronchi rosa) che non è più capace di affrontare l'analisi di un testo letterario rimanendo all'interno del perimetro del testo letterario medesimo. Voglio dire che Littell è stato fucilato quasi esclusivamente con argomenti che, in senso stretto, non hanno a che fare con il suo romanzo.
L'accusa poi che un libro che parla della Shoah dal punto di vista di un ufficiale delle SS per 943 pagine possa esser stato fabbricato in laboratorio per essere venduto alle masse era la più risibile.

Molte belle teste l'hanno apprezzato però. Hanno colto quello che è immediatamente evidente: l'impegno dell'autore (enorme il lavoro di documentazione) e la letterarietà - non saprei come altro definirla - raffinatissima del testo.

Anonimo ha detto...

hai letto la recensione di D'orrico sul Corriere?
"Io l'ho letto perchè mi pagano, voi perchè dovreste?"
Ecco spiegato perchè dice che Faletti è il più grande scrittore italiano, perchè lo pagano...

tic. ha detto...

Ma certo. Lo pagano. E anche tanto...
Eppoi D'Orrico è uno che... FA TAAANTO FIGO lanciare sassi in piccionaia. Pour epatér le bourgeois. Solo che non c'è più (e forse in Italia non c'è mai stato veramente), le bourgeois. E anche se ci fosse, diciamocelo, mica si farebbe scandalizzare da un fesso come D'Orrico.