venerdì 28 dicembre 2007

Ma che musica, maestro!!!

Domani partiamo per la Toscana. Capodanno a Montepulciano.
Perciò sarà questo l'ultimo post dell'anno 2007 in talkischeap.
Ho pensato a lungo a cosa scriverci, su sto cacchio di ultimo post, e non mi è venuto in mente niente di meglio che consigliarvi un paio di dischi da urlo usciti nell'anno che sta chiudendo i battenti.

Il primo è firmato Mavis Staples ed è un'opera commovente.
Mavis, forse qualcuno di voi già lo sa, stava negli Staple Singers (assieme al babbo Pops e alle sorelle), uno dei gruppi vocali più famosi e longevi di sempre. Iniziarono a cantare negli anni Cinquanta e hanno cantato di tutto a partire dal gospel per approdare col tempo alla musica secolare. Sono gli autori, per dire, di quel caposaldo del soul e del R'n'B che è Beatitude: respect yourself, del 1972, consigliatissimo (e trust in tic).
Con We'll never turn back (uscito per la benemerita Anti/Self, impresa che si sono inventati quelli della Epitaph records, ovvero, tra gli altri, il mio amatissimo Brett Gurewitz dei Bad Religion; cfr. http://www.anti.com/home/) Mavis Staples si è proposta di contribuire (alla sua maniera: quindi con la voce pazzesca che si ritrova) alla riflessione sull'eredità di quel Movimento per i Diritti Civili che negli anni Sessanta provò a liberare la sua gente (che era “sick and tired of being sick and tired”, come ebbe a dire Fannie Lou Hamer) dall'oppressione a cui era costretta nel deep south degli Stati Uniti. Ecco perché nella prima delle foto che trovate all'interno del libretto del CD sono ritratti assieme Pops Staples e il reverendo Martin Luther King.
Il regista di tutta l'operazione è stato mister Ry Cooder, e non credo proprio ci sia bisogno di presentazioni né di aggiungere altro.
We'll never turn back inizia con una versione esaltante di Down in Mississippi di J.B. Lenoir per chiudersi con quel magnifico spiritual (che Cooder reinterpretò a suo tempo nel suo Paradise and Lunch – pure consigliatissimo: trust in tic) che è Jesus is on the Main Line. In mezzo ci sono la sacrosanta ira del Signore (che, almeno per la durata del cd, ESISTE eccome, ostia!) e le voci dei Ladysmith Black Mambazo. Ringrazio di cuore la signora Staples, tra le altre cose, perché We'll never turn back mi ha spinto a rimettere nel lettore Alabama Blues e Down in Mississippi di J.B. Lenoir (dischi consigliatissimi: trust in tic).


Altra cosa veramente molto bella che ho ascoltato nel 2007 è Mescalito (Lost Highway/Universal) di Ryan Bingham, uno che il cowboy l'ha fatto veramente (pare cavalcasse tori e domasse cavalli nei rodei).
Se amate le canzoni in cui suonano banjo, fiddle, mandolino e national slide guitar, beh, è il disco che fa per voi. Le referenze dell'uomo sono tra le migliori che uno che lavora nel suo campo potrebbe desiderare: Joe Ely e Terry Allen sono letteralmente impazziti per lui (se non sapete chi sono Ely ed Allen, mi dispiace veramente tanto: non riesco proprio ad immaginare come si faccia a vivere senza saperlo. Comunque non abbiate timore, povere anime, perché io vi salverò: vi parlerò a lungo di questi due grandissimi texani, tra qualche tempo. Cominciando da una immensa canzone cantata da Ely – ma non scritta da lui – che si intitola Gallo del cielo...). E ringrazio di cuore Ryan Bingham perché in una canzone di Mescalito, Ghost of Travelin' Jones, ho risentito, dopo un bel po', la voce di Terry Allen e, porca la puttana, sono stati brividi.
La qualità della scrittura di Bingham è sul serio elevatissima, e badate che ci troviamo di fronte uno che ha solo 25 anni (e che appare quindi già maturo al primo disco). Che sia perché, come trovate scritto sul sito della Lost Highway (http://www.losthighwayrecords.com/splash/splash.html) , “ Ryan Bingham knows a thing or two about pain”?
Grandi canzoni americane (ma grandi sul serio), tra folk, country-rock e blues.




Buon anno nuovo (ma solo a chi mi ama). E vi regalo anche una mia foto con sorriso durbans. Perché non si dica che son poco generoso...

giovedì 27 dicembre 2007

Piccole città

La piccola città americana che si è inventato Daniel Clowes si chiama Ice Haven.Ice Haven, nell'idioma gentil suona come qualcosa del tipo 'rifugio ghiacciato', o magari 'porto ghiacciato'. Rifugio, comunque, mi pare funzioni meglio.
Nella nostra prima passeggiata per la città ci accompagna Random Wilder, un uomo che spera, col tempo, di essere celebrato come il sommo poeta di Ice Haven: “'Qui non fa poi così freddo come sembra', questo dicevano sempre quelli della generazione di mio padre per incoraggiare i visitatori riluttanti, quando ancora si parlava di espansione... Ma il nostro adorabile nome, 'rifugio ghiacciato', concepito per evocare fatati paesaggi invernali, richiamava alla mente solo cupezza e geloni”.
Daniel Clowes è nato nel Michigan (uno Stato americano molto ma molto freddo) quarantasei anni fa ed è diventato famoso con la serie a fumetti “Eightball”. E' un grandissimo disegnatore che è stato capace di conquistarsi un suo spazio ben al di là del mondo dei fumetti (o meglio, del mondo degli appassionati di fumetti). Ricordo alcune copertine di dischi da lui firmate. Ad esempio, queste due qui sotto. Le ho scelte giusto perché la musica dei Supersuckers e (soprattutto) quella dei Cheater Slicks mi garba(va)no assai. E ricordo anche l'animazione da lui realizzata per il videoclip di I don't wanna grow up versione Ramones (lo sapete che è di Tom Waits, nevvero?). Clowes, poi, pubblica regolarmente su riviste come Esquire, The New Yorker, Vogue, Time e Newsweek e dai suoi lavori a fumetti sono stati tratti due film di un certo successo: Ghost World, interpretato tra gli altri da Thora Birch, l'intrigante (per Kevin Spacey...) adolescente di American Beauty, e Art School Confidential. Un terzo film è attualmente in lavorazione.
Ice Haven (pubblicato in Italia da Coconino Press - http://www.coconinopress.com/) si colloca nella stessa tradizione letteraria (molto americana) di Our Town (in Italy “Piccola città”) di Thornton Wilder (e non credo proprio che il cognome del poeta frustrato Ransom sia Wilder per caso...). Clowes intreccia tra loro le vicende di alcuni dei suoi abitanti e le racconta con uno stile veramente molto particolare, da lui stesso definito come un blend di realismo fotografico e di astrazione tipicamente fumettistica, pieno zeppo di riferimenti agli anni Cinquanta. Alessio Trabacchini ha giustamente parlato, per Ghost World, della vera e propria ossessione di Clowes per quel decennio, “il sintomo più evidente del tentativo silenziosamente disperato di infondere personalità e consistenza, attraverso l’imitazione di un passato mitico, ai luoghi, alle persone, a se stessi”. Tutto questo vale pure per Ice Haven.
Clowes è un autore coltissimo, che racconta le sue storie imitando lo stile dei Peanuts o dei cartoons dei Flinstones mentre recupera dalla storia del ventesimo secolo americano la vicenda criminale, tetra e terribile, di Leopold e Loeb (gli assassini che cercavano il delitto perfetto...), per usarla come contraltare alla misteriosa scomparsa del suo piccolo, infelicissimo, David Goldberg.
Sono storie, magistralmente raccontate, di enormi solitudini, di frustrazioni, di amori infelici. Fa tanto, veramente tanto freddo, ad Ice Haven, insomma.
Ma io comunque vi consiglio di farci una passeggiata, magari in compagnia di Random Wilder (se riuscite a reggerlo, eh... E' logorroico più di me). Vi condurrà volentieri per i suoi marciapiedi, dove potreste imbattervi – e ve lo auguro con tutto il cuore – in Violet e Vida. Magari Wilder vi mostrerà anche il monumento (monumento naturale: siamo in America) più importante della città: una roccia, un “capolavoro d'erosione: nostro marchio e pietra miliare, noto agli indigeni come “il nostro amico” dopo che così lo battezzò il sindaco Earley nella campagna elettorale del 1916”.
Nella mia (piccola) città che si chiama Monfalcone il monumento più importante è la Rocca. Non è un monumento naturale, ma un fortilizio che ha molti secoli sulle spalle.
Negli ultimi giorni, da noi, si è parlato parecchio di presepi, sapete?
Alcuni genitori di bimbi in età da asilo hanno protestato (anzi hanno vibrantemente protestato. Anzi, no, meglio: hanno furiosamente protestato) perché nelle strutture educative frequentate dai loro piccoli mancavano i presepi. Una mamma, la signora S.S (no, non sta per Schutz Staffeln, che non crediate... Sono solo le iniziali di nome e cognome) ha (appunto) protestato infuriata (si, proprio infuriata: perché è così che lo si scrive, solitamente, sul quotidiano locale, monopolista dell'informazione nella mia beneamata città: “infuria la protesta dei cittadini”. La protesta è fatta così, d'altronde: prima esplode, poi dilaga, quindi infuria per un po' di tempo. Almeno fino al prossimo titolo del cazzo sul quotidiano locale monopolista eccetera eccetera) per stigmatizzare il mancato allestimento del presepe nell'asilo del figlio. E lo ha messo per iscritto. Sentite qua: ”Non è possibile che in uno Stato cattolico e libero come il nostro si possano permettere certe cose. E' una vergogna assoluta. Ho mandato mio figlio alla scuola materna, pur avendo la possibilità di tenerlo con me al mattino, proprio perché è giusto che impari a socializzare con gli altri bambini, ma soprattutto perché possa essere istruito e possa imparare tutto ciò che da me e solo con me non imparerebbe”. La signora infuriata ha qualche domanda da fare al Potere: “Cosa lo mando a fare a scuola? Se poi non ha la possibilità di fare la recita di Natale o se non ha la possibilità di imparare le canzoni tradizionali perché all'interno di questo asilo multi-etnico non si permette di parlare della nostra religione?”. Capito la signora , gente mia bella gente? Provo a riepilogare: “Non è possibile... In uno Stato cattolico... E' una vergogna assoluta... Cosa lo mando a fare a scuola? Asilo multi-etnico...”.
A chi si trovasse (chissà poi per quale motivo) a leggere questo post e non sapesse manco per sbaglio né cosa sia né dove si trovi Monfalcone e ignorasse pure cosa sia accaduto, negli ultimi tempi, a Monfalcone, dico solo che Monfalcone è una (piccola) città della Venezia Giulia che ospita da un secolo tondo tondo uno dei cantieri navali più grandi d'Europa. In questi anni sono arrivati a Monfalcone un sacco di immigrati a lavorare (in condizioni spesso, ehm... Come dire? Di merda? Ecco) nel cantiere navale alla costruzione delle navi da crociera più grandi del mondo (questa cosa la si sente dire spesso, dalle nostre parti, ma fra poco non sarà più tanto vera visto che parrebbe che Genova stia per farci il culo a strisce con la Genesis, una città galleggiante da 5.400 passeggeri battezzata da qualche simpaticone col nome di una delle band più invincibilmente pallose della storia del rock). Gli immigrati provengono principalmente dal Bangladesh (dove i più son, ahi ahi ahi ahi ahi, mussulmani), poi dall'Europa dell'est (e ci sono pure immigrati, generalmente disprezzatissimi, provenienti dal meridione d'Italia. Ma di questi adesso non parliamo). Alcuni di questi disgraziati, perché tali sono (perché tale è sempre chi lascia la propria terra sfigatissima in cerca di lavoro per approdare in Italia, terra invece fortunatissima: tra le altre cose, anche per aver dato i natali a Mario Borghezio), si sono tirati dietro le famiglie. Ecco perché l'asilo frequentato dal bimbo della signora S.S. è “multi-etnico”.
Sulla questione è intervenuto (e come avrebbe potuto non?) il leader locale della Lega Nord, tal F.R., che, come scrive sul quotidiano locale la signorina T.C. (prossimo premio Pulitzer, sicuro come la morte), “ha presentato un'interrogazione al sindaco (omissis) per chiedergli di segnalare la situazione al Prefetto, sollecitando altresì il Provveditore agli studi, e di rivolgere un appello a dirigenti e insegnanti delle scuole cittadine 'affinché garantiscano ai bambini la possibilità di vivere un Natale senza assurde autocensure'”. Le ultime parole sono del boss leghista medesimo, che prosegue e sentite un po': ”Forse a causa di una eccessiva e nociva presenza di dirigenti e insegnanti atei o comunque privi della sensibilità nei confronti della cultura e delle tradizioni nazionali e locali di riferimento, sempre meno scuole materne ed elementari allestiscono un presepe e tanto meno ricordano con cenni storici l'evento della Natività (la parola 'natività', lui, la pronuncia in maiuscolo, n.d.r.). Numerosi genitori si lamentano di questa ingiustizia che i loro bambini sono costretti a subire da parte di chi vorrebbe trasformare il Natale in una indefinita e anomica festa del vuoto consumismo”. No, dico: avete avvertito, si, il sublime afflato di spiritualità? E vi è piaciuta quella sulla eccessiva e nociva presenza di dirigenti e insegnanti atei?
Lasciando perdere le risposte di quel Potere (di centro-sinistra) chiamato così perentoriamente in causa dalla signora S.S., la cosa per me più interessante (perché maggiormente istruttiva) della querelle monfalconese sui presepi sono state due lettere pubblicate dal quotidiano locale monopolista eccetera.
In una il signor L.P. scrive: “Per quanto si vede in giro, penso che al peggio non c'è ancora limite. Per il futuro dovremo aspettarci che i cultori del politicamente corretto pretendano di togliere gli alberi di Natale ed i Presepi, posti nelle piazze e negli angoli dei nostri paesi. Le croci sui tetti delle chiese dovranno essere mascherate, le campane imbavagliate per non recare disturbo. I capitelli in campagna bisognerà occultarli e adornarli di graffiti”. Ma chi sarebbero questi nostrani “cultori del politicamente corretto”? E il signor L.P. prontamente risponde: “Sono i comunisti, con e senza falce, sono i cattolici adulti, sono i no global, sono i disubbidienti, sono la sinistra anticapitalista, sono gli atei, speriamo di non aver dimenticato nessuno”. E speriamo davvero, povero signor L.P. Speriamo con Lei e per Lei che non ci sia rimasto nessuno a tramare nell'ombra (ma... E i massoni? Che cosa caspita staranno facendo i massoni in questo preciso momento?).
Poi c'è una lettera vergata di suo pugno dalla signora S.S., nientemeno. La mamma infuriata - polemicamente parlando - da cui siamo partiti, si sente “in dovere di chiarire e approfondire alcune cose”. La signora Gott mit uns tiene a precisare innanzitutto una cosa: “(...) la mia lamentela nulla ha a che vedere con alcun colore politico dal quale mi dissocio in assoluto come mi dissocio da qualunque idea razzista che potrebbe aver avuto il lettore leggendo l'articolo” (sta parlando, avrete inteso, proprio dell'articolo firmato sul quotidiano locale dal futuro premio Pulitzer, signorina T.C.).
E io dico fantastico! Siamo veramente al sublime. La signora Himmler è chiaramente una di quei moderati di cui van cianciando da secoli ormai Casini, Rutelli, Pezzotta, Ricotta e Triccaballacche. Massì, dai: i moderati, quelli che qui si lavora, signor mio, e non si parla di politica (perché questo e basta son sempre stati, on my opinion, i famosi moderati italiani. Solo che a casa mia noi malmostosi li chiamiamo qualunquisti e conformisti, questi famosi moderati, e non è precisamente un complimento). E perciò le ha dato tanto, ma tanto fastidio che la Lega Nord si sia buttata a pesce sulla sua protesta. Una protesta che, pensava lei, avrebbe dovuto bastare a se stessa. E si è anche preoccupata, la cara signora S.S., che non le si potessero muovere delle volgarissime accuse di razzismo. Perché qualcuno deve averle ben spiegato, chissà quando, che il razzismo è una cosa veramente brutta. Da lasciare volentieri ai Leghisti, che son gente che è messa lì apposta per sporcarsi le mani, per togliere le castagne dal fuoco ai moderati come la buona signora S.S. che è solo una povera mamma taaaaanto in ansia per il proprio pargolo, il quale ha diritto (in quanto bambino cristiano cattolico romano, par di capire) ad una corretta educazione. E non parlatele di fratellanza, che la signora (sicuramente) legge Libero o Il Giornale, quotidiani fatti su misura per i moderati come lei e come il signor L.P., e quindi le hanno insegnato da tempo a riconoscere il politically correct, hai visto mai che le capitasse di incontrarlo: “Pensate veramente che tutti siano interessati alla fratellanza e alla pace? Io ero presente alla festa della scuola con mio figlio, e nonostante i tagli fatti a favore delle etnie extracomunitarie, ho contato solamente tre (3) genitori extracomunitari. E tutti gli altri? Forse non sono così interessati ai nostri valori di fratellanza e di integrazione. Ma noi continuiamo pure a tagliarci fuori, così gli altri sorrideranno e noi piangeremo e forse dovremmo trasferirci tutti all'estero dove magari qualcuno farà qualcosa per i bambini italiani”.
Non so se anche a voi, a questo punto, ma a me è venuta in mente una (grandissima e) famosa battuta di quell'eccezionale umorista che è stato Beppe Viola: “Razzista io? Parla lei che è negro”.
E chiudo, finalmente, con una domanda: ma cosa abbiamo fatto di male, noi italiani, per meritarci questa Vandea miserabile?

martedì 25 dicembre 2007

Fuck Christmas

Oggi è il santo natale.
C'è bontà nell'aria e io la sto avvertendo. Persino merde come Gentilini e Borghezio - con le loro belle radici cristiane e tutto il resto dell'armamentario del cazzo che le contraddistingue e sempre le contraddistinguerà - oggi son più buone. Ne sono arciconvinto.
Per celebrare degnamente in rete questa (santa, santissima) ricorrenza ho deciso di pubblicare un testo dedicato proprio alla (santa, santissima) ricorrenza.
Si tratta dell'immortale Fuck Christmas, dei Fear. Eccovela qua, in tutto il suo splendore poetico:



Don't dispair just because it's christmas


children they're all so gay at christmas


all the children on the street


hope they get something good to eat


but for me it's not so great


fuck christmasfuck christmasfuck christmasfuck christmasfuck christmasfuck christmasfuck christmasfuck christmasfuck christmas.


Questo capolavoro, inizialmente pubblicato solo su 45 giri, lo potete trovare nella versione CD del primo lp dei Fear, significativamente intitolato The record. Non lo definirei precisamente una canzone, ecco... Diciamo un proiettile, che mi pare meglio. Dura, ehm, 44 secondi.
Qualche bello spirito ha definito i Fear, non ricordo dove, come “i Blues Brothers dell'hardcore punk" e la cosa può anche starci, per quanto mi riguarda. Ma credo che la suggestione sia dovuta principalmente al fatto che proprio John Belushi era un loro fan scatenato (se non fosse stato scatenato, d'altra parte, non sarebbe stato John Belushi).
Prima di chiudere ve ne racconto una. I Fear divennero famosi (relativamente, dai...) negli States dopo la puntata di Halloween 1981 del Saturday Night Live Show, dove furono presentati da Donald Pleasance.
Al SNLS li volle appunto Belushi: sarebbe tornato a scasinare nello Show, per una puntata, se la produzione avesse preso anche i Fear.
Bene. La band fece in tempo a suonare due pezzi, poi alcuni loro fan (entusiasti e scatenati. Alla Belushi) distrussero il set.
Il leader dei Fear si chiamava Lee Ving ed era una vera sagoma. Lo si capisce bene ascoltando The record: humour al vetriolo e simpaticissimi calci in culo. Dall'iniziale Let's have a war a We destroy the family, da quella botta di vita che è Beef Boloney alla versione efferata di We gotta get out of this place degli Animals passando per New York's alright if you like saxophones (no, dico... New York va bene se vi piacciono i sassofoni...).
Lee Ving aveva una faccia da film. Infatti recitò (?) in varie pellicole. Soprattutto negli incompresi Ottanta (per dire, io lo ricordo in Streets of fire di Walter Hill e in Get Crazy di Allan Arkush). Nel corso degli anni ha fatto poi un sacco di cose. Mise pure in piedi una band country, lo scellerato. La chiudo qui, perché devo correre a farmi una doccia prima di presentarmi a casa dei miei al pranzo di natale.


Dedico questo pezzo a Lee Ving, che è questo tizio qui sopra (fotografato di recente, però. Non ai tempi dei Fear). Possa valere come ringraziamento per i calci in culo.

lunedì 24 dicembre 2007

I'm Being Followed By the Rolling Stones (Murray Lachlan Young)


Datosi che ieri si è parlato (a lungo) di Rolling Stones, oggi mi è venuto in mente che avrei potuto pubblicare un testo decisamente gustoso. Murray Lachlan Young ne è l'autore. Lo faccio due volte volentieri: non solo per gli Stones ma anche per il mio amico Lello Voce (potete ammirare la sua pelata d'ordinanza qui sotto). Che c'entra Voce? E mo' ve lo spiego. Dovete sapere (ma i più già sanno. Indubbiamente) che fino al 30 ottobre io ero l'assessore alla Cultura (sempre maiuscolo, perdio!) della città (ehm...) di Monfalcone, provincia di Gorizia. Lo sono stato per sei anni e mezzo, mica scherzi.
Bene (mica tanto, ma insomma... Facciamo finta que si). Qualche anno fa abbiamo pensato (anzi, per dirla proprio tutta: l'assessore alla Cultura della regione FVG, Roberto Antonaz, ha pensato) di organizzare in Monfalcone un festival (e checcazzo! Siamo o non siamo il Paese dei santi con le stimmate, dei navigatori su Icarus e dei festival?) dedicato alla Poesia (sempre maiuscolo, perdio!). Io per un po' di tempo ho nicchiato, a dire il vero: ero considerato dal popolo un assessore molto incline all'elitarismo culturale, assai poco amante dei GRANDI EVENTI (questi in maiuscolo, doverosamente. E a questo punto un sapido bestemmione ci starebbe proprio bene) e per nulla incline a valorizzare la cultura (questa in minuscolo) locale. Ero tiepido con la Poesia, insomma, poiché (da schifosissimo politicante codardo, indubbiamente) non volevo avvalorare in nessun modo l'opinione corrente su di me. Non volevo prestare il fianco a niente e nessuno, insomma. Alla fine, però, ho ceduto.
Siccome a Monfalcone abbiamo la fortuna di avere un signore che si chiama Carlo de Incontrera che si occupa di organizzare la stagione musicale del Teatro Comunale e che è un personaggio conosciuto da tanta bella gente, mi sono rivolto a lui e alla sua agenda telefonica. Me lo ricordo come fosse oggi: "Carlo, dobbiamo così e così, e insomma la Poesia (maiuscolo) e chi può curare una cosa simile perché io, guarda, non so a chi rivolgermi e cerchiamo di fare una cosa seria e non una cagata che poi ci facciamo una figuraccia, come città (beh, si... Insomma...) e non mi pare il caso". E Incontrera, a quel punto, ha pensato bene di telefonare ad Edoardo Sanguineti, nientemeno. Si conoscevano, d'altronde, e quindi... Il Sanguineti, contattato all'uopo, ha detto "No, io no. Io non posso seguirla, l'organizzazione di un festival, però c'è uno molto bravo che potrebbe, io credo, dato che lo fa per mestiere, ecco". E qui entra in campo (come usa da un po' di tempo in qua. Anzi, da un po' di tempo in qua, a voler essere precisi, si scende in campo, non si entra) Lello Voce (che era appunto il tizio molto bravo di cui sopra. Lello, però, non fa solo l'organizzatore di festival di Poesia maiuscoli, per campare la vita, ma è un po' un tipo alla Mark Twain: uno di molti mestieri, intendo).
Insomma, com'è come non è, due ricche edizioni di Absolute Poetry son state perpetrate a Monfalcone me regnante. E ho avuto dunque il privilegio di conoscere Lello Voce che è una gran bella persona. Dirò di più: conoscere Lello Voce (a proposito: http://www.lellovoce.it/) rischia di essere la cosa migliore che mi sia capitata negli ultimi due anni vissuti da assessore.

Tutto questo ricco pistolotto per dirvi che con Lello abbiamo parlato spesso di Murray Lachlan Young (e visto che mi son dimesso non ne parleremo più. E vabbé...). Il tema era il seguente: "Murray Lachlan Young, un grande: lo portiamo a Monfalcone?". E io, quando la cosa veniva fuori, andavo in brodo di giuggiole. Che volete? Son discretamente letterato (eh, già...) e conoscevo da un pezzo questo straordinario poeta e performer. Nell'ormai lontano 1998, infatti, mi ero accattato la raccolta di poesie Casual Sex e altri versi, pubblicata in Great Britain nel 1997 da Bantam Books e uscita in Italy per i tipi di Bompiani nella collana inVersi, a cura di Aldo Nove. Credo sia ormai di difficile reperibilità.
Perciò, ledisengentelmen, (rullo di tamburi!), ecco a voi Mister Murray! Lachlan! Young! Che vi racconterà che cosa gli combinano i Rolling Stones.

I'm Being followed by the Rolling Stones


I have something to tell you.
I'm being followed by the Rolling Stones.
They followed me here and they'll follow me home.
They turn up at nightclubs and parties and bars
trying to make me drink beer and talk about art.
They camp in my garden
they won't let me rest they ring my phone
they're completely obsessed.
I'm being followed by the Rolling Stones.
And that skinny one, thingamy, you know his name,
the one with the big lips, well he's mainly to blame
for he comes round in girls' clothes when I'm all alone
then looks through his fringe and says,
'Oi, is Charlie at home'*
I'm being followed by the Rolling Stones.
I can't go anywhere unmolested.
I can't fright back they'd have me arrested.
I feel like a lunatic no-one believes me.
It doesn't make sense and lest no-one can see
the shadow they cast on my innocent life.
Oh they think is so funny and so do their wives.
And that Texan, oh yes, she's the head of the bunch,
making personal comments while I'm eating lunch.
Criticizing just because I don't know
how to order in French
Couchez avec moi ce soir
I don't know what that is
Or what it tastes like.
They think it's a laugh and they think it's a joke,
but they're driving me close to the end of a rope!
I'm being followed by the Rolling Stones
(* To be said in a Jaggeresque tone)


Ve la traduco, dai... (con l'avvertenza che Couchez avec moi ce soir, volendo far le cose proprio per benino, dovrebbe essere tradotto, dal francese all'inglese, con Let's spend the night together. A buon intenditor...)

Sono inseguito dai Rolling Stones
Vi devo dire una cosa.
I Rolling Stones mi corrono dietro.
Mi hanno inseguito fino a qui mi seguiranno a casa.
Sbucano fuori nei night-club alle feste nei bar
cercano di farmi bere birra, di farmi parlare di arte.
Mi campeggiano in giardino
non mi fanno dormire mi chiamano al telefono
sono davvero ossessionati.
I Rolling Stones mi corrono dietro.
Quello magrolino, come si chiama, lo sapete,
quello che ha le labbra grosse, è sua la colpa,
perché quando me ne sto da solo arriva vestito come una ragazza
guarda dalla sua frangetta e dice:
'Ohi, Charlie è in casa?'*
I Rolling Stones mi corrono dietro.
Non posso andare da nessuna parte senza essere molestato.
Non posso rispondere perché mi farebbero arrestare.
Mi sento come un pazzo, nessuno mi crede .
Non significa nulla nessuno vede
l'ombra che proiettano sulla mia vita innocente.
Pensano che sia così divertente e lo pensano anche le loro mogli.
Quella texana lì, oh sì, è lei il capo del gruppo,
fa commenti su cose personali mentre mangio.
Mi critica perché non so
ordinare in francese
Couchez avec moi ce soir
Non so cosa vuole dire
O che sapore ha.
Pensano che sia da ridere, pensano che sia uno scherzo,
mi stanno portando al suicidio!
Sono inseguito dai Rolling Stones
(* Da pronunciare in tono jaggeresco)

domenica 23 dicembre 2007

Le chiacchiere valgono poco

Un amico del mio amico Kyuzo ha dato un'occhiata al mio povero blog e ha osservato che si chiama come un disco di Keith Richards uscito nell'ormai lontano 1988 (e sticazzi, avevo vent'anni, avevo... E pare ieri, pare... E ad ottobre del prossimo anno saranno vent'anni esatti. E io, ad ottobre del prossimo anno, di anni ne avrò da poco compiuti quaranta se la matematica non è l'opinione che ho sempre sperato dovrebbe essere).

Ebbene, si: ho chiamato il mio blog come il primo disco da solista del chitarrista degli Stones. Perché l'ho fatto? Perché amo il rock'n'roll, ovviamente, e penso che se esiste un posto dove si può capire cosa sia (stato?) il rock'n'roll, questo posto si trovi da qualche parte tra i solchi di Exile on Main Street, che forse non sarà il più bel disco dei Rolling Stones (ma proprio forse...), ma è senz'altro quello su cui Keith Richards meglio ha saputo lasciare la propria impronta di supremo stilista delle dodici battute del blues. Il disco più suo, insomma. Che altro dire? Che Exile on Main Street è il disco più “sudista” degli Stones? Diciamolo. E insomma, se non l'avete mai ascoltato, fatelo. Ve ne renderete conto da soli (se tutto in voi – ma proprio tutto: a partire dal cuore – funziona a dovere. E se per il rock'n'roll avete una qualche inclinazione, beninteso...).
Che altro dire?
1 - Che AMO il modo in cui questo figlio di puttana caracolla su un palco piegato in due sulla sua chitarra.
2 - Che ho sempre presente un vecchio articolo del MUCCHIO (febbraio '85) in cui il direttore Stefani in persona raccontava del passaggio di questo gentiluomo a Venezia e a Roma nel novembre del 1984. Richards aveva quarantun anni, anche se ne dimostrava almeno dieci di più, ed era il luna di miele in compagnia della moglie, Patti Hansen (una gran bella donna, per come me la ricordo in E tutti risero di Peter Bogdanovich dove interpretava una tassista), incinta di tre mesi. Sentite un po': “E' affabile, alla mano. Non gira con le guardie del corpo e non fa resistenza quando gli si porta un disco da autografare. Ascolta soltanto (udite! udite!) del vecchio blues: Muddy Waters, Robert Johnson, Buddy Guy, Charlie Patton. Chuck Berry è una delle poche concessioni al moderno. Ed è su questa musica che spesso si mette ad improvvisare con la chitarra acustica. (...) E' sempre circondato da un codazzo di persone. Se ne rende conto e lo accetta con filosofia. Quando la gente (portieri d'albergo, ristoranti, amici di amici) lo invita e si genuflette, se ne apprezza lo humor e la semplicità allorché afferma di sapere che se non fosse così ricco e famoso lo caccerebbero a calci in culo come l'ultimo degli straccioni. Lascia mance di 20.000 lire a chi gli chiama un taxi ma poi manda a farsi un giro ('to fuck off' in inglese) chi si fa troppo insistente. Spende senza limiti anche perché, curiosamente, più soldi spende e meno tasse paga. Dice che nella vita i quattrini non son tutto, che gli sono volati dalle mani e che avrà speso (beato lui!) in stupidaggini svariati milioni di dollari. Eppure, continua ad andare in jeans rotti e stivaletti bucati”.
3 – Che ricordo questo passo di un articolo di Bill Flanagan pubblicato da MUSICIAN nel 1986. Racconta di un incontro avvenuto a quel tempo tra un rocker amatissimo da Comunione e Liberazione, tal Bono Vox, e Keith Richards.
BONO: Sono un gran chiacchierone. La gente dice che ho molta facilità di parola. Keith non parla molto, preferisce suonare la chitarra, il piano o cantare canzoni country&western, vecchi pezzi di Buddy Holly e il blues. Questo è il suo linguaggio: il rock'n'roll è il suo discorso d'amore. Riusciva a parlarmi attraverso le sue canzoni ed io non potevo rispondergli perché non ho un background musicale. La mia collezione di dischi parte da 'Horses' di Patti Smith. Gli U2 sono cresciuti mandando affanculo il blues. Ogni singola bar band a Dublino suonava le proprie versioni dei vecchi brani e gli U2 hanno sempre cercato di fuggire da quegli ambienti. Ma quella notte Keith Richards batteva le sue mani sui tasti del pianoforte e cantava quei pezzi. Poi smise e cominciò a guardarmi come per dirmi: “Adesso suona tu le tue canzoni”. E io non avevo canzoni da suonare.
RICHARDS: Credo che Bono non avesse mai ascoltato del blues prima di quella notte. La sua collezione di dischi inizia dal 1976! Gli dissi: “Ragazzo, forse possiamo farti sentire qualcosa di nuovo”.
BONO: Quando uscii fuori ero distrutto per la mia incapacità di mettere le mani dentro la borsa e tirare fuori qualche canzone.
Annotò Bill Flanagan: “Ispirato da quella musica, Bono si rintanò in albergo e rimuginò sopra il blues, i neri e l'apartheid. Fu così che nacque Silver and Gold, una melodia blues che registrò insieme a Keith e Woody, il giorno seguente”. Una delle cose migliori degli U2, per chi scrive. In coda, sentite ancora Bono: “Ho un problema. Stiamo scrivendo canzoni per il nostro prossimo album. Nel frattempo ho comprato quei vecchi dischi di Robert Johnson e ora scrivo dei brani che non capisco proprio da dove provengano. Non sono canzoni che gli U2 potrebbero fare. Hanno titoli come Wake up, Dead Man o Devil's In The House Tonight. E allora mi chiedo: cosa sta succedendo nella mia vita artistica?”. Niente, Bono stava semplicemente per incidere il disco più bello (e più americano) della sua band, The Joshua Tree. E, no: Wake up, Dead Man e Devil's In The House Tonight non sono mai state incise dagli U2. Sennò chissà cosa avrebbero detto i ciellini...
4 – Che ricordo le parole poetiche e (teneramente) bislacche con cui Tom Waits raccontò il suo incontro con Richards. Sentite un po' qua: “Ci siamo incontrati in un negozio di biancheria intima, stavamo comprando reggiseni per le nostre donne. C'era un piccolo angolo nel retro dove si poteva bere un bicchierino (ma pensa un po', n.d.r.). Keith è un gentiluomo: quando è arrivato in sala di registrazione (durante le sessions di Raindogs, 1985) e si è tolto il cappello, sono volati fuori uccelli da tutte le parti”. Keith lo si sente roccare alla grande in Union Square: “Pensa che stavo per gettare via quella canzone. 'Chiama lo spazzino, questa è spazzatura'. Ma mi hanno risposto che c'era qualcosa dentro. Poi è entrato lui con la chitarra”. Ancora Waits: “E' un musicista assolutamente intuitivo. Si muove come un animale. Dio, è come essere a teatro – in piedi, al centro della stanza, con la sua chitarra e l'amplificatore. Tutto quello che suona non è normale. E' un killer, amico. Un grande uomo. Come un pirata. E' un perfetto gentiluomo”. Un consiglio: ascoltatevi That feel, su Bone Machine di Waits, anno domini 1992, se volete sentire questi due cani bastardi ululare insieme alla luna. Da brividi, credetemi.

5 – Che mi pare sia arrivato il momento di raccontare una storia di pirati. Lo sapevate, no, che Johnny Depp ha dichiarato di essersi ispirato a Keith Richards per interpretare Capitan Jack Sparrow? E che nel terzo capitolo della saga de I Pirati dei Caraibi c'è un cameo di Richards nel ruolo di Teague Sparrow, il babbo di Johnny Depp? Un pirata con i controcazzi. Aveva proprio ragione Tom Waits.
6 – Che ho sempre pensato a Keith Richards come allo zio reietto, quello da cui il parentado mantiene volentieri le distanze perché nel corso della sua vita sciagurata si è reso protagonista di episodi veramente incresciosi, cose tremende che la gente, signora mia, ancora ne parla. Quello capace di presentarsi al pranzo di Natale, davanti a tutta la famiglia riunita attorno al desco – dopo che per mesi (per mesi!) lo si era dato per disperso - fatto come uno straccio e in compagnia di una baldracca di passo.

7 – Che darei una mano perché Keith Richards fosse mio zio.
8 – Che non mi stanco mai di ascoltare You got the silver, su Let it bleed. Non so descrivere cosa provo quando Richards entra e dice: “Hey, baby, what's in your eyes...”.

9 – Che mi preoccupai un po', qualche mese fa, quando seppi che Keith Richards era stato ricoverato all'ospedale di Auckland, Nuova Zelanda, per una commozione cerebrale procuratasi cadendo da una palma da cocco. Fu una cosa seria: dovettero operarlo al cervello.
Andò tutto bene, per fortuna. Ma, dico, ve l'immaginate la scena di questo tizio che a più di sessant'anni (è nato nel 1943) si arrampica sulle palme da cocco?
10 – Che ho sempre preferito Keith Richards a quell'altro, quello con i labbroni... Massì, dai: quello che sta sempre a sculettare... Com'è che si chiama?




Dedicato a Kyuzo (che poi sarebbe Il Grezzo)

venerdì 21 dicembre 2007

La casa dell'orrore

La Hammer Film Productions... Un mito.


Sentite un po' come venne accolto da alcuni critici britannici The Curse of Frankenstein, primo film a colori della Hammer Productions. Il Sunday Times: “Non ho voglia di parlare di un film semplicemente disgustoso”. Il Daily Telegraph: ”Una pellicola SO, Sadists Only”. The Observer: “Fra i diecimila film che ho visto, questo è uno dei dodici peggiori”. Il commento di The Tribune, infine, lo lascio in inglese, perché suona che è una meraviglia: “Depressing, degrading”. Manca solo un bel “disgusting”, nevvero?
Il pubblico, invece, accorse numeroso e decretò il successo di una pellicola che vedeva affiancati tre talenti - un regista e due attori - che da quel momento sono entrati nell'immaginario di almeno tre generazioni di cinefili.
Il regista si chiamava Terence Fisher, gli attori, beh... Gli attori erano Peter Cushing e Cristopher Lee.

Secondo quel grande esperto di horror che è David J. Skal, benché Psycho di Alfred Hitchcock (uscito nel 1960) sia generalmente considerato “l'inizio della violenza esplicita sui media” (sebbene la sua scena più celebre, quella di Vivien Leigh sotto la doccia, fosse in fondo solamente “il prodotto di virtuosismi al montaggio e di una spruzzatina di cioccolata liquida”), l'esplicita truculenza su celluloide “deve probabilmente più all'opera in Eastmancolor zuppo di sangue della Hammer Films inglese, cominciata con un netto colpo di falce rosso sulla retina del pubblico in La maschera di Frankenstein (appunto The Curse of Frankenstein, 1957, n.d.r.) e Dracula il vampiro (Horror of Dracula, 1958), per la regia di Terence Fisher e l'interpretazione di Cristopher Lee, che nella parte di entrambi i mostri aveva lanciato la propria carriera e forgiato un altro legame di comunanza tra le icone gemelle” della creatura del dottor Frankenstein e del conte transilvano (lunga citazione, questa, tratta dal capolavoro di Skal, The Monster Show, libro del 1993 pubblicato nel nostro Paese nel 1998 da Baldini&Castoldi. Credo che in giro lo si trovi ancora, e lo consiglio caldamente a chi fosse interessato al tema dell'horror, tra cinema – principalmente - pittura, letteratura e fumetto. Però vi si parla molto poco della Hammer, in effetti).
La vita della Hammer cominciò negli anni Trenta con il nome di Exclusive, quando Enrique Carreras, che era proprietario di una catena di cinema, e Will Hinds (impresario di vaudeville, nome d'arte Will Hammer) decisero di mettere in piedi una compagnia di distribuzione specializzata nell'acquisto e nel lancio sul mercato britannico di pellicole americane. L'attività fu coronata da un certo successo e perciò i due decisero di darsi alla produzione. Il nome Hammer comparve per la prima volta per “The Mistery of the Marie Celeste”, del 1937. A scompaginare i piani dei nostri arrivò la Seconda Guerra Mondiale.
Fu solo a conflitto terminato che i progetti di Carrera e Hinds si rimisero in moto. I due soci ripresero a lavorare affiancati dai figli, James Carreras e Anthony Hinds. Del 1948 il primo lavoro, River Patrol. Tra il '50 e il '55 la Hammer realizzò qualcosa come 44 film, tutti rigorosamente di serie B. Undici regie erano, massì, di Terence Fisher.
La svolta arrivò nel 1955. Credo che almeno qualcuno, tra quelli che mi leggono di solito, abbia sentito parlare, in qualche occasione, di un certo dottor Quatermass...
Il titolo originale era The Quatermass Experiment (in Italy, L'astronave atomica del dottor Quatermass), la regia di Val Guest. Pensate che la pellicola uscì con il divieto ai minori di 18 anni (era, insomma, direbbero gli anglosassoni, X-rated) e a me viene da ridere. Gli incassi furono veramente clamorosi.

Tornando a The Curse of Frankenstein, era dagli anni Trenta – ovvero dai tempi di James Whale e Boris Karloff – che non si parlava del dottor Frankenstein nel mondo del cinema. Il ruolo dello scienziato che non si fa particolari problemi a rubare il mestiere a Dio venne affidato a quello che era stato proclamato “miglior attore televisivo inglese del 1956”, Peter Cushing; la sua disgraziata creatura fu interpretata da un attore che fino ad allora aveva avuto qualche problema a trovare delle parti per la sua statura (metri 1,93) un po' fuori dell'ordinario: Christopher Lee.



Una curiosità: Terence Fisher, per realizzare il film, ritenne opportuno non leggere il romanzo di Mary Shelley, e lo sceneggiatore, Jimmy Sangster, ci diede appena un'occhiata veloce... E, chissà come, il film riesce a non tradire troppo il libro. Meno, comunque, del Frankestein anni Trenta della Universal.
Nel film colpiva il colore, l'Eastmancolor di cui scriveva Skal, “che Jack Asher riuscì ad elaborare - ha scritto Marco Zatterin - in mille sfumature cromatiche dal marcato sapore autunnale”. Il colore sarà la cifra distintiva di quello “stile Hammer” che raggiungerà uno dei suoi apici proprio nel Dracula del '58, in cui Asher lavorerà sul predominio del rosso, tendente al profondo porpora, e dell'azzurro tendente al turchese. Un uso del colore a cui, ad esempio (un esempio rappresentativo, ma non certo l'unico possibile), il Neil Jordan de “In compagnia dei lupi”, del 1984 (tratto dalla grandissima Angela Carter), renderà (affettuoso ed) esplicito omaggio.
Fisher in Dracula cercò di evitare campi e controcampi e si affidò ad inquadrature uniche sul bene (il Van Helsing interpretato da Cushing) e sul male (Lee/Dracula).
Amo perdutamente (quindi perversamente) questo film perché è stato il MIO primo Dracula, oltre ad esser stato il primo Dracula della Hammer. Seguirono (per me oltre che per) la Hammer una valanga di Dracula, e dunque ettolitri di sangue. In Brides of Dracula, il conte non sarà Lee, ma David Peel, decisamente un'altra cosa. Immagino lo pensassero pure Fisher ed i boss della Hammer, perché ad un certo punto l'altissimo, imponente, signor Cristopher tornò ad interpretare il malefico succhiasangue dei Carpazi in Dracula Prince of Darkness, del 1966. Lee riuscirà a rendersi inquietante pur non apparendo per metà del film. All'inizio, infatti, è solo una presenza evocata: la polvere in cui è stato trasformato da Van Helsing nel 1958.


Tanti Dracula e pure tanti Frankenstein (da The Revenge of F., del '58 a The Evil of F., del '64; da F. created woman, del '66 a F. must be destroyed, del '69; da Horror of F., del '70 a un F. and Monster from hell, del 1972, inedito da noi). E poi lo Yeti (The Abominable Snowman del 1957) la mummia (The Mummy, 1959), l'uomo lupo (The Curse of the Werewolf, 1960), il fantasma dell'opera (The Phantom of the Opera, 1962). E cosa manca alle paure che da piccoli vi facevano chiedere alla mamma di NON chiudere la porta della vostra cameretta dopo che vi aveva messi a letto la sera? Eh?
Tra parentesi: chi si ricorda di The Hound of Baskervilles, del 1959, con Peter Cushing che interpreta Sherlock Holmes?
Se mai qualcuno vi dicesse che “negli anni Sessanta la Hammer fu un po' il contraltare britannico della Factory di Roger Corman” (una Factory che, ma non saprei dire perché, a me è sempre stata molto più simpatica della Factory di Warhol), quel Roger Corman che fu “produttore a autore di mitici B-movies con Vincent Price a dare volto e corpo agli incubi nati dalla mente di Edgar Allan Poe”, beh... Mi troverebbe d'accordo.
Ma perché ho parlato tanto diffusamente di quella che venne denominata la House of Horror?
Beh, sentite un po' qua: il brand Hammer è stato acquistato da un consorzio guidato dalla holding olandese capitanata da John De Mol, che si è aggiudicato anche i 295 film prodotti in decenni di lavoro.


John De Mol, alias l'Anticristo: fondatore con Joppe Van Der Ende - che di suo è stato l'inventore (e sticazzi...) di Holiday on ice – di quella Endemol a cui è legato Il Grande Fratello, che è come dire il babbo di tutti i reality show, ovvero quel CRIMINE CONTRO L'UMANITA' perpetrato nell'ormai lontano settembre del 1997 e che da allora è stato replicato nei konzentrationslager televisivi di molti Paesi del mondo con, com'è che si dice? Ah, si: con share vertiginosi.
La prima cosa che ho pensato (ma sono sicuro che non l'avrò pensata solo io) è che è come se si fosse chiuso un cerchio: John De Mol (un grandissimo esperto di zombies: roba che Romero, al confronto, è un dilettante) si è comprato la casa degli orrori.

martedì 18 dicembre 2007

Volare, oh oh! (ovvero: l'irresistibile ascesa di mister Mix)

Strepitoso, strepitoso W.!!!
Perché? Abbiate la bontà di seguirmi fino in fondo al post e lo scoprirete.

Oggi il consiglio di amministrazione di Alitalia dovrebbe valutare le proposte di Air France ed AirOne, candidate all'acquisto di Alitalia, per il rilancio della nostra poco gloriosa ex compagnia di bandiera.
Air One, guidata da Carlo Toto, ha trovato sulla sua strada Corrado Passera, l'ad di Intesa Sanpaolo, prima banca italiana. E' stato appunto costui a dare credibilità finanziaria al progetto di Air One. Oggi, su la Repubblica, Passera appare proprio battagliero: "La compagnia e l'azionista pubblico devono decidere tra due proposte, entrambe lettime ma del tutto inconfrontabili. Con l'operazione Air France, Alitalia non c'è più, sparisce in un altro gruppo. L'unione con Air One invece fa nascere un nuovo operatore con la missione di far volare l'Italia. Il nostro Paese non ha molte grandi aziende, soprattutto nei settori strategici, e sarebbe sbagliato perderne inutilmente altre. Sia chiaro, sarebbe anche sbagliato difendere a tutti i costi un'azienda che non ha prospettive, ma qui esistono tutti gli ingredienti per riuscire: il mercato, la dimensione aziendale, le competenze e i capitali".
Foooorte, sto Passera. E che beeella l'immagine: far volare l'Italia, oh oh. Nel blu dipinto di blu, immagino.

Su http://www.lavoce.info/ Andrea Boitani e Carlo Scarpa fanno due conti: "Stando alle informazioni disponibili, Air One-Intesa Sanpaolo offrirebbe un centesimo per azione, contro i 35 centesimi di Air France. Qualche rapido calcolo mostra che accettare l'offerta di Air One per il 49,9 % delle azioni Alitalia comporterebbe per il Tesoro un minor introito di circa 238,7 milioni di euro. E poi Air One ha davvero intenzione di farsi carico dell'intero debito di Alitalia? Bisognerebbe spiegare ai cittadini italiani, che hanno pagato miliardi per le varie ricapitalizzazioni dell'ex compagnia di bandiera, perché adesso dovrebbero rinunciare a un introito e forse continuare ad accollarsi parte del debito. Per difendere l'italianità di una compagnia simbolo?". Boitani e Scarpa osservano poi che le grandi banche stanno tornando sempre più al centro delle vicende societarie italiane e assai opportunamente (e saggiamente) fanno notare che "il peso delle fondazioni bancarie accresce la tentazione delle banche di fare politica, di occuparsi dell'interesse comune (definito da chi?), o della nazionalità di chi acquista le imprese. Il governatore Fazio era stato cacciato più o meno per aver cercato di spingere le banche a questo tipo di comportamenti".
Personalmente, ogni volta che sento parlare di "difesa dell'italianità", di qualsiasi cosa, metto prontamente mano al mio revolver (poi magari posso anche rinfoderare... Ma, a ben vedere, mi capita solo quando si tratta di affari del settore agro-alimentare).
Nel caso specifico di Alitalia, poi, aver saputo nei giorni scorsi che quasi tutte le sigle sindacali, in testa Fit-Cisl e Filt-Cgil, hanno manifestato il loro esplicito sostegno all'opzione Air One-Passera, mi ha reso e mi rende sospettoso alquanto.
Ma sospettoso STA CIPPA... Che vado dicendo? Mi correggo, mi correggo: il sostegno dei sindacati all'italianità di Alitalia MI PORTA A TIFARE PER LA FRANCIA!!! CON TUTTO IL CUORE!!!
La brava Emma Bonino, ministro per le Politiche Comunitarie, lo dice così: "Non è importante la nazionalità dell'acquirente di Alitalia, conta invece il piano di ristrutturazione, di rilancio e di collegamenti di un Paese che non può continuare in questa situazione, a parte le perdite quotidiane".


E W., di tutto ciò, che ne pensa? E, soprattutto, che ne dice?
Beh, come da titolo di Repubblica, dice che un mix per lui sarebbe l'ideale.
Sentite un po' qua: "La cosa che mi piacerebbe di più è che le proposte si incrociassero. Per garantire la forza di un soggetto come Air France e la forza di un soggetto finanziario come Banca Intesa e al tempo stesso però il radicamento nel Paese di una compagnia nazionale".
Un grande, signori miei. Un grande.
Per raccontare uno così ci vorrebbe Maupassant. In subordine potrei anche accettare Federico Moccia. Ma niente di meno.
(Nella foto mister Mix, al secolo Walter Fonzarelli).

domenica 16 dicembre 2007

Vita nei boschi

Fino a poco tempo fa di Charles Burns conoscevo solo la copertina di Brick by brick, disco (dimenticabile) di Iggy Pop del 1990.


O meglio, conoscevo la copertina di Brick by brick, disco (dimenticabile) di Iggy Pop del 1990, senza sapere che fosse opera di Charles Burns. Ora lo so.
Burns ha iniziato a scrivere (...disegnare) The black hole nel 1994. E' uscita da poco nel nostro Paese, per i tipi di Coconino Press, l'edizione definitiva di quest'opera, raccolta in un unico volume di 367 pagine che ho appena finito di leggere.
Alcune recensioni ne parlavano come di un capolavoro assoluto e volete sapere una cosa? Non esageravano neanche un po'.
Charles Burns è venuto al mondo negli anni Cinquanta ed è cresciuto a Seattle, figlio di uno scienziato che in gioventù sognava di fare il cartoonist. Perciò, racconta l'autore, ebbe la grandissima fortuna di poter leggersi i fumetti in santa pace, senza avere qualcuno appollaiato sulla spalla a blaterare qualcosa come: “Guarda che leggere i fumetti ti farà marcire il cervello”. Burns è disposto poi ad ammettere volentieri che il cervello gli andò a male comunque. Son parole sue, eh... Se non ci credete, ecco qua: “My father's a scientist who once wanted to be a cartoonist. So I was able to read comics without being told they were going to rot my mind. As a result my brain rotted...". Talk is cheap, si sa. Ma non si raccontano bugie, da 'ste parti.
Di Charles Burns e del suo tratto si cominciò a parlare alla metà degli anni Ottanta, quando il nostro divenne una delle firme di Raw, la rivista di Art Spigelman. Da quel momento in poi la sua strada fu tutta in discesa. Attualmente è un illustratore di punta, negli States: ad esempio per Time, The New Yorker e The New York Times Magazine. Nell'ambito del fumetto suoi sono i personaggi di El Borbah, Spookyland, Big Baby e The black hole.


The black hole è una storia visionaria, cupa e disturbante. Racconta di un'epidemia che, trasmettendosi sessualmente, colpisce gli adolescenti di una città della provincia americana causando delle mutazioni fisiche più o meno mostruose. Se avete pensato ad una (scopertissima, invero) metafora dell'AIDS, non avete sbagliato. E' lo stesso Burns ad ammetterlo: “Obviously, the direct AIDS metaphor is there - there have always been sexual diseases floating around, but now there's a killer”. Non credo ci sia bisogno di tradurre.
L'autore sa (ricorda) bene che nell'adolescenza è proprio il sesso - e l'incertezza sulla propria identità sessuale - a causare le maggiori ansie.
The black hole, però, è una storia ambientata alla metà degli anni Settanta (diciamo attorno al 1974, visto che ad un certo punto uno dei personaggi presenta Diamond Dogs di David Bowie come un album nuovo di pacca), non negli Ottanta dell'esplosione (anche - e c'è pure chi dice soprattutto - mediatica) dell'AIDS. Si svolge quindi proprio al tempo dell'adolescenza del suo autore. E forse è proprio per questo che Burns riesce – nonostante tutta la tensione suscitata dalla narrazione, con quel senso di minaccia sempre incombente reso splendidamente da un profondo nero di china, e nonostante il disagio e il dolore vissuti dai suoi personaggi – a trasmettere una nostalgia struggente per quell'età della vita in cui, quando si ama, si ama per davvero.
Quando i ragazzi sono colpiti dal virus, si rifugiano nei boschi.
Bene, la cosa che mi è più rimasta addosso di The black hole - oltre al modo che ha Burns di guardare ai corpi dei suoi personaggi: uno sguardo che ricorda, in più occasioni, quello, raggelato e raggelante, di David Cronenberg - è la rappresentazione dei boschi.

Che non sono certo l'eden di cui raccontava quell'esploratore solido e fiducioso della wilderness americana che fu Henry David Thoreau (conoscete – ricordate – Walden? "Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiarne tutto il midollo...". Parole che avete già sentito, vero? Forse in Dead Poets' SocietyL'attimo fuggente di Weir?), ma luoghi pericolosi. Luoghi in cui camminare scalzi non si può proprio, perché si rischia di ferirsi la pianta del piede con qualche scoria della civiltà dei consumi.
No, nell'America di Burns non ci sono più le tribù degli indiani cattivi ad incombere sulle città dei pionieri, ma solo dei poveri mutanti, dei freaks emarginati.
Che però riescono, nonostante tutto, ad impazzire per amore.



mercoledì 12 dicembre 2007

Elogio della ghigliottina (Piero Gobetti)

Ho deciso di pubblicare su talk is cheap questo testo semplicemente perché ogni volta che lo rileggo mi vengono i brividi. Ho deciso di evidenziare alcune parti.
Il fascismo vuole guarire gli Italiani dalla lotta politica, giungere a un punto in cui, fatto l'appello nominale, tutti i cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col professare delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. Insegnare a costoro la superiorità dell'anarchia sulle dottrine democratiche sarebbe un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun migliore panegirista della pratica. L'attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono espedienti attraverso cui l'inguaribile fiducia ottimistica dell'infanzia ama contemplare il mondo semplificato secondo le proprie misure.
La nostra polemica contro gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte maturità straniere; né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il nostro antifascismo prima che un'ideologia, è un istinto.
Se il nuovo si può riportare utilmente a schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un pessimismo sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi, non il pessimismo letterario dei cristiani delusione di ottimisti. La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare delle conversioni, e credere più alla storia che al progresso, concepire il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua necessità in sé, non nel suo divulgarsi. C'è un valore incrollabile al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in questo momento, i disperati sacerdoti.
Temiamo che pochi siano così coraggiosamente radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa incontrare nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è più esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha già sottinteso un insolente realismo obbiettivo.
Noi vediamo diffondersi con preoccupazione una paura dell'imprevisto che seguiteremo ad indicare come provinciale per non ricorrere a più allarmanti definizioni. Ma di certi difetti sostanziali anche in un popolo "nipote" di Machiavelli non sapremmo capacitarci, se venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia è un'indicazione di infanzia perché segna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini come di un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l'autobiografia della nazione. Una nazione che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia alla lotta politica, dovrebbe essere guardata e guidata con qualche precauzione. Confessiamo di avere sperato che la lotta tra fascisti e social-comunisti dovesse continuare senza posa: e pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio del 1922 La Rivoluzione Liberale con fiducia verso la lotta politica che attraverso tante corruzioni, corrotta essa stessa, tuttavia sorgeva. In Italia c'era della gente che si faceva ammazzare per un'idea, per un interesse, per una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della stanchezza, i sospiri alla pace. E' difficile capire che la vita è tragica, che il suicidio è più una pratica quotidiana che una misura di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe insegnato Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con Mussolini ci si offre la prova sperimentale dell'unanimità, ci si attesta l'inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie. Certe ore di ebbrezza valgono per confessioni e la palingenesi fascista ci ha attestato inesorabilmente l'impudenza della nostra impotenza. A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si attenesse a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è stata invano. Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani chiedono una disciplina e uno Stato forte. Ma è difficile pensare Cesare senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile. Si può credere all'utilità dei tutori e giustificare Giolitti e Nitti, ma i padroni servono soltanto per farci ripensare a La Congiura dei Pazzi ossia ci riportano a costumi politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi. E' doloroso dover pensare con nostalgia all'illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri fino in fondo, c'è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. C'è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro. Mussolini può essere un eccellente Ignazio di Loyola; dove c'è un De Maistre che sappia dare una dottrina, un'intransigenza alla sua spada?



Da Elogio della ghigliottina, in "La Rivoluzione Liberale", anno I, n. 34, 23 novembre 1922, p. 130, senza il passo iniziale e con numerosi ritocchi.

martedì 11 dicembre 2007

Davide e Golia

Visto ieri sera Nella valle di Elah. Sono abbastanza vecchio per ricordare molto bene quella pletora di film americani dedicati al disastro del Vietnam che uscirono dalla metà degli anni Ottanta - ad un decennio e qualche spicciolo, quindi, dalla caduta di Saigon – ai primi anni Novanta. Fu un vero e proprio filone, da Stone (per ben due volte, con Platoon e Born on the 4th of july) al De Palma di Casualties of war passando per il gigantesco Kubrick di Full Metal Jacket (anche se Stanley Kubrick si stenta a classificarlo in qualsivoglia modo. Americano si, ma...) ma anche per Hamburger Hill, Gardens of stone e Good Morning Vietnam.
Che per la guerra (sporca, sporchissima) in Iraq – ancora in corso, lo ricordo a chi malauguratamente se lo fosse scordato. E si sa che a guerra del Vietnam in corso (tra il 1960, anno di arrivo dei primi consiglieri militari americani, e il 30 maggio del 1975) il cinema statunitense si occupò in sole due occasioni, in modo diretto, del conflitto: nel 1964 con Commandos in Vietnam di Marshall Thompson e nel 1968 con John Wayne che produsse e diresse The Green Berets – che per la guerra in Iraq, dicevo, sia quindi già arrivato il momento del filone? Ricordo che sono fuori in questo momento anche il Redford di Lions for lambs e il De Palma di Redacted.
Paul Haggis (grande sceneggiatore per Clint Eastwood in Million Dollar Baby, Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima) è tornato alla regia, dopo il bellissimo Crash del 2004, per un film ugualmente bello e sentito, interpretato da un Tommy Lee Jones semplicemente perfetto e da una Charlize Theron in stato di grazia (una che è partita facendo la modella, come Monica Bellucci. Ma le somiglianze tra loro si fermano qui).
Il lavoro di Haggis gira attorno ad una celebre parabola del Vecchio Testamento, quella che racconta del campione dei Filistei, Golia, che ogni giorno, per quaranta giorni, nella valle di Elah, sfidò al combattimento i guerrieri israeliti. Nessuno dei soldati di re Saul ebbe il coraggio di accettare la sua sfida, tranne il giovane Davide che sfidò il gigante e lo uccise con una sassata.
Riuscì a farlo perché seppe vincere la sua paura.
Haggis racconta la storia dei tanti, troppi, giovani americani che, dopo essere andati in Iraq a combattere, sono tornati a casa feriti nell'anima, violenti, nevrotici e cambiati per sempre dall'orrore della guerra soprattutto perché vinti dalla paura. Lo fa attraverso uno schema classico, quello del thriller in ambiente militare. Solo che alla fine della detection, dopo il disvelamento, non c'è proprio nulla che sia tornato a posto. E tu sei ancora lì a chiederti chi sia il colpevole.
Poco prima dei titoli di coda vediamo Hank Deerfield/Tommy Lee Jones alzare una bandiera capovolta, un segnale che significa “siamo allo stremo, abbiamo un disperato bisogno di aiuto”.
Un'intera nazione, sembra voler dire Paul Haggis, è stata vinta dalla paura e ha disperato bisogno di “a helpin' hand”. Chi aiuterà l'America?

lunedì 10 dicembre 2007

Ah, se ci fosse ancora lui...

Pare sia nata la COSA rossa. Il suo vero nome, però, è la Sinistra l'Arcobaleno. Perciò impariamo a chiamarla col suo nome. Mi pare giusto.
Nei giorni scorsi, a Roma, si sono ritrovati RC, PdCI, Sinistra Democratica e i Verdi che portano in dote al nuovo soggetto politico l'arcobaleno (anzi, l'Arcobaleno. Maiuscolo), in un clima definito dall'immaginifico Niki Vendola "frizzante, allegro, battesimale" (e mettiamoci un bello "sticazzi", a questo punto. Che male non fa).
Umberto Rosso, incaricato da la Repubblica di seguire gli stati generali de la Sinistra l'Arcobaleno (per il suo nomen omen?), ha in effetti descritto i padri fondatori della "nuova soggettività a sinistra" come particolarmente frizzanti, allegri e battesimali.
Ha iniziato Franco Giordano (ex RC, adesso con la Sinistra l'Arcobaleno) a battezzare (nel fiume Giordano?): "il PD è un partito elitario, neocentrista, tecnocratico. Il governo Prodi non sia più ostaggio del voltagabbana di turno". "E delle telefonate di Montezemolo", ha puntualizzato, battesimale, Pecoraro Scanio (ex Verde, adesso con la Sinistra l'Arcobaleno). Infine, LUI, O. (ex Partito dei Comunisti Italiani, adesso con la Sinistra l'Arcobaleno). Che è intervenuto e lo ha fatto da par suo, ovvero da autentico poeta guerriero, ed è sembrato a tutti i presenti frizzante, allegro e un sacco battesimale: "Il Pd non può essere equidistante fra la ThissenKrupp e gli operai uccisi a Torino. Oggi Enrico Berlinguer sarebbe al nostro fianco". Rosso annota: "Ovazioni a pugno chiuso al nome del vecchio segretario del Pci". Eh, si: O. sa come si accende (e come si spegne) QUELLA platea. Egli li conosce bene, i suoi polli. Perciò gli basta pronunciare un nome, uno solo: quello di Berlinguer!!!

Naturalmente Enrico Berlinguer, essendo morto da ben ventitre anni (la stessa distanza che separa il mio anno di nascita - 1968 - dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Non so se questo significhi qualcosa, ma forse anche si. Vedete un po' voi), non può né confermare né smentire che gli avrebbe fatto piacere far politica insieme ad O. ne la Sinistra l'Arcobaleno. Ma ad O. che gliene cale di simili quisquilie? Lui certe cose le può ben dire, perché gli vengono dal cuore (il suo generoso cuore comunista). Vi sembrano di cattivo gusto? Bah... In fondo il fratello di Enrico Berlinguer, Giovanni, era presente in sala e non risulta che abbia censurato, in qualche modo, il cattivo gusto di O.
Perciò O. non è stato greve, ma fine: bene così e andiamo avanti.


E io dico: fantastico, fantastico O. Provate a pensare a quanta parte del pantheon rosso può essere utilizzata, a questo punto, dallo straordinario oratore: "Compagni, oggi Gracco Babeuf sarebbe al nostro fianco", oppure "Compagni, oggi Nuvola Rossa, Gran Capo dei Sioux Oglala, sarebbe al nostro fianco", o ancora "Compagni, oggi Augusto Cesar Sandino sarebbe al nostro fianco". E questo giochino si può fare con Friederich Engels, Radek, Giuseppe Di Vittorio, Camilo Cienfuegos, Luciano Lama... Tutti morti, perciò tutti arruolabili. Geniale, geniale O.
Grazie di esistere. A te e, naturalmente, a la Sinistra l'Arcobaleno.


Quello fotografato qui sopra accanto ad O. (in occasione di uno dei tanti, gloriosi, cortei di protesta contro l'allargamento della base Nato di Vicenza) non è un glande con le orecchie, ma Marco Rizzo, recente autore del FON-DA-MEN-TA-LE testo "Perché ancora comunisti" (Ed. Baldini Castoldi Dalai).
Cito Rizzo volentieri visto che (sembra) sarà uno dei primi scissionisti a sinistra della "nuova soggettività a sinistra".
Ed è di questi giorni (troppa grazia davvero!) la notizia che è nato "Sinistra critica", un movimento autonomo all'opposizione del governo Prodi. Lo ha annunciato Franco Turigliatto (che è il tizio qui sotto, fotografato mentre sta per mettersi a limonare con Franca Rame), leader di un raggruppamento politico che si rifà, son parole sue, a Rosa Luxemburg, al "Che" Guevara, a Trotsky e al subcomandante Marcos. I primi tre sono morti, per cui anche il buon Turigliatto, volendo, potrà agevolmente uscirsene con una cosa del tipo: "Compagni, oggi Rosa Luxemburg sarebbe al nostro fianco". Per dire...


domenica 9 dicembre 2007

Secret agent man (ovvero: dalle Filippine con furore)




Weng Weng nacque come Ernesto de la Cruz il 7 settembre del 1957 a La Balacran, un distretto di Pasay City che oggi fa parte di Manila. Era il più piccolo di cinque fratelli e, stando alle parole di sua sorella, Celing de la Cruz, quando nacque “non era più grande di una bottiglia di Coca-Cola”.
Il primo anno della sua vita lo passò in un'incubatrice e i medici pensavano che non sarebbe riuscito a sopravvivere alla tremenda prova. Ma, caparbiamente, Weng Weng riuscì a farcela.
Ebbe un'infanzia felice e i suoi familiari cominciarono, simpaticamente, a chiamarlo Weng Weng: un appellativo che nelle Filippine pare sia solitamente riservato alle mascotte (mascotte di cosa non saprei: fate un po' voi)...
Crebbe ossessionato dalle arti marziali e cominciò a praticarle con assoluta dedizione: si allenava come un pazzo.
E furono proprio le arti marziali a cambiargli la vita. Un suo istruttore, infatti, decise ad un certo punto di contattare il produttore cinematografico Peter Caballes: “Questo dovresti vederlo”, gli disse. Furono Caballes e sua moglie, Cora Ridon Caballes, ad introdurre Weng Weng nel rutilante mondo del cinema filippino. Lo presentarono a Bobby A. Suarez - regista di film d'azione a quel tempo di gran successo in Asia, come BIONIC BOY (1977) e BIONIC BOY 2 (AKA... DYNAMITE JOHNSON) - che immaginò Weng Weng nella parte di un piccolo Superman.
Però il regista del debutto cinematografico del minuscolo filippino fu Luis San Juan, specializzato in pellicole di arti marziali che al tempo spopolavano nelle sale dell'arcipelago.
Dopo qualche cameo in certi film caduti (purtroppo!) nel dimenticatoio, la strada di Weng Weng incrociò quella del Re della Commedia delle Filippine, Dolphy, che lo volle in film come THE QUICK BROWN FOX (1980) e in una parodia western dal titolo DA BEST IN DA WEST (1981).
Fu allora che Weng Weng (chissà perché) divenne assiduo della famiglia Marcos e graditissimo ospite nel palazzo presidenziale. I Marcos (Fernando e l'incredibile Imelda: un classico del demenziale come i nazisti dell'Illinois e il leggendario Presidente della Provincia di G.) lo nominarono pure agente segreto onorario. Potevano farlo, d'altra parte: a quei tempi, dalle parti di Manila, i Marcos facevano quello che volevano. Esiste, da qualche parte, una foto di Weng Weng in posa, con la sua onoreficenza in una mano e una pistola calibro 25 in un'altra.
Forse fu proprio questo episodio la principale fonte di ispirazione dei produttori e amici di Weng Weng Peter e Cora Caballes per la sua prima apparizione da protagonista, una parodia dei film di James Bond che si intitolava FOR YOUR HEIGHT ONLY. Il nostro interpretava l'agente segreto 00 (e non ci sono proprio parole, a questo punto). Pensate che Weng Weng fu nella pellicola lo stuntman di se stesso, dopo tre mesi di training durissimo. Capito che professionalità?
E fu il successo, quello vero. Weng Weng divenne nel suo Paese un autentico divo. La Liliw Productions, di proprietà dei Caballes, seppe rispondere immediatamente alla popolarità della star lillipuziana con il seguito delle mirabolanti avventure dell'agente 00 intitolato THE IMPOSSIBLE KID (1982) e con un western, D' WILD WILD WENG (1982).


La carriera di Weng Weng fu stroncata dalle ambizioni di Cora Caballes, che lasciò al suo destino la Liliw Productions e si buttò in politica (la maledetta politica!). Il povero attore si trovò così senza lavoro e non gli restò che ritornarsene con la coda fra le gambe alla sua casa di La Balacran. Il denaro guadagnato nel cinema lo perse tutto, poco a poco. Così, quello che era stato un divo idolatrato dalle folle finì all'Aeroporto di Manila ad accogliere i visitatori, con la sua targa di agente segreto onorario in una mano e nell'altra un cartello che diceva: "Bienvenidos A Manila".
Si attaccava spesso alla bottiglia, cominciò ad ingrassare e ad avere problemi di ipertensione: alla fine il suo piccolo cuore cedette. Weng Weng passò a miglior vita il 29 agosto 1992. Aveva solo trentacinque anni.


(tic dedica questo pezzo allo zio Roberto e ringrazia il curatore dello straordinario wengwengblog.blogspot.com. Accettate il mio consiglio, fateci un saltino...)




http://www.funnyordie.com/videos/2620 (se volete vedere il grande Weng Weng all'opera. Credetemi: ne vale la pena!)