lunedì 18 aprile 2011

Gli archetipi non dormono mai

Uscirà il 3 maggio, negli Stati Uniti, la biografia (autorizzatissima) di Robert Redford a firma Michael Feeney Callan per i tipi di Knopf, frutto di anni di lavoro e di interviste con l'attore (che, per l'occasione, pare abbia concesso davvero molto di sé). Ieri, su la Repubblica, alcune anticipazioni. Una, in particolare, mi ha colpito assai.

«...avevo perfezionato una forma di meditazione, quasi un auto-ipnosi, che mi permetteva di “estraniarmi” dal mondo e di trovare i miei punti di riferimento. A Gallup, mentre meditavo, accadde qualcosa di insolito: mi ero chiuso in me stesso e all'improvviso vidi un volto di indiano alla finestra. Quell'apparizione mi restò impressa, mi sferzò a procedere verso un'altra consapevolezza. Si può razionalizzare tutto ciò come si vuole: il cittadino che, logorato dal brusio di Manhattan, all'improvviso esplode nella vacuità del deserto. O chissà che altro... Ma per me, così come accadde, quella fu un'esperienza trascendente.»

Forte, no? Messa giù così, mi ha ricordato l'allucinata, immensa The Last Trip To Tulsa, di Neil Young (Well I woke up in the morning/ With an arrow through my nose/ There was an indian in the corner/ Tryin' on my clothes) e un vecchio articolo di un acutissimo Alberto Crespi, pubblicato da l'Unità in occasione del cinquantesimo compleanno del grande canadese. Una roba che nella critica rock si è letta poche volte, sapete? Specialmente su un quotidiano, specialmente in Italia.

«Potremmo partire dagli indiani. Massì, diamo per scontato che l'opus youghiano è ampio e complesso, pieno di temi e di rimandi sommersi, quasi quanto l'opus junghiano (Young e Jung: battuta meno idiota di quanto possiate pensare) e scegliamo un grimaldello, fra i mille possibili, per entrarci. Il grimaldello si chiama Pocahontas

La conoscete? Sta in Rust Never Sleeps (1979) ed è «come un ponte gettato fra due epoche, due culture, due ideologie. Una ballata nel cui testo i tepee e le coperte indiane si mescolano con i taxi e le luci di Hollywood, e le cruente memorie del genocidio si incrociano con i “segni” della cultura americana moderna. Canta Neil, nell'ultima strofa: “Avrei voluto essere un trapper, avrei dato un migliaio di pelli/ per dormire con Pocahontas e capire cosa si provava/ al mattino, nei suoi campi verdi/ nella sua terra natale che noi non abbiamo mai visto/ e forse Marlon Brando si sarebbe seduto accanto al fuoco/ e avremmo parlato di Hollywood e delle belle cose che si possono affittare/ dell'Astrodrome e del primo tepee/ Marlon Brando, Pocahontas ed io”. L'opus younghiano è pieno di indiani. Dal nome del suo gruppo (Crazy Horse, Cavallo Pazzo) a quello del suo ranch (Broken Arrow, “freccia spezzata”). Dall'indiano che popola l'incubo di Last Trip To Tulsa (“...mi svegliai al mattino con una freccia che mi trapassava il naso, c'era un indiano nell'angolo che si provava i miei vestiti”) a quelli che assalgono le carovane dei pionieri in Trans Am. L'opus younghiano è anche pieno di incas e aztechi, sterminati dalla bomba atomica (Like An Inca) o più “modestamente” trucidati dai conquistadores (Cortez The Killer, uno dei suoi pezzi più belli in assoluto). Cavallo Pazzo, Pocahontas e Montezuma popolano l'opus younghiano ma provengono dall'opus junghiano. Sono archetipi. Segni di culture scomparse che interloquiscono con l'universo elettrico del rock'n'roll.»

Se capisco bene, proprio dei medesimi archetipi ha parlato Robert Redford («Fu come se fossi stato risucchiato in uno spazio atemporale»).

E... chi lo sa? Magari pure a lui piacerebbe un sacco star seduto attorno a un fuoco con Pocahontas, Marlon Brando e Neil Young a parlare di Hollywood e dell'America...



Dedicato al mio amico Luciano Comida, fan terminale di Neil Young.

2 commenti:

Zimisce ha detto...

ma caro il mio tic, ogni tanto mi tiri fuori certe chicche che vien voglia d'abbracciarti, diamine!

tic. ha detto...

Grazie, mio caro.