mercoledì 17 ottobre 2007

A proposito (di canzoni e) di maratoneti



In questi ultimi giorni la melodia di "Tom Courtenay" degli YO LA TENGO (da "Electr-o-pura", il loro disco del 1995; ripresa poi in quella strepitosa antologia che è "Prisoners of love" del 2005 ) mi ha perseguitato ferocemente. Manco fossi un cristiano ai tempi di Diocleziano.
E insomma, grazie agli YO LA TENGO ho pensato molto a Tom Courtenay.

E non intendo adesso la loro bellissima canzone (che comincia con le parole "Julie Christie, the rumors are true/as the pages turn, my eyes are glued"). No. Intendo proprio Tom Courtenay l'attore.

E, pensa che ti pensa, mica mi sono fermato: dal Tom Courtenay attore, infatti, sono passato al regista Tony Richardson. E da Richardson sono finito dritto dritto ad Alan Sillitoe. Insomma un bel casino, in cui voglio provare a mettere ordine.

Il 5 febbraio 1956 - anno fatidico per un sacco di motivi, lo sappiamo - vennero presentati a Londra, al National Film Theatre "O Dreamland" di Lindsay Anderson, "Momma don't allow" di Karel Reisz e Tony Richardson e "Together" di Lorenza Mazzetti, tre cortometraggi destinati a ribaltare le sorti di un cinema britannico che in quegli anni si presentava assai depresso e duramente provato dalla scarsa affluenza di pubblico (basti pensare solo a questo dato: da 1.396 milioni di biglietti del 1950 si passa ai 501 milioni staccati nel 1960).

L'effetto della serata fu veramente dirompente. Per l'occasione qualche bello spirito coniò il nome, assai epigrafico, per così dire, di "free cinema". Durante la proiezione fu distribuito un volantino in cui si sottolineava come tutti i film presentati fossero stati "prodotti al di fuori del normale ambito industriale. Questo ha permesso agli autori di poter esprimere punti di vista strettamente personali". E vi si affermava che "la perfezione non è nei nostri propositi": lo è "il credere nella libertà, nell'indipendenza dell'uomo, nel significato della vita di ogni giorno".


Ecco. Artisti della settima arte lontani dall'industria cinematografica e indipendenti, per una lezione di cinema di impronta realistica: anche crudamente e violentemente realistica, se proprio vogliamo dircela tutta. Dopo una serie di documentari, il "free cinema" esplose con quel manifesto che fu il lungometraggio "Look back in anger", del 1959 (tradotto nell'idioma gentil, sonante eccetera come "I giovani arrabbiati"). E il realismo diventava provocazione, ribellione anarcoide alle convenzioni borghesi.
I registi del "free cinema" giravano spessissimo in esterni. A volte nelle periferie più depresse, negli slums più popolari. Storie che spesso avevano nella letteratura le loro fonti.
Tony Richardson attinse da John Osborne e Alan Sillitoe.
"The Loneliness of the Long distance Runner" (in Italia, chissà perché "Gioventù, amore e rabbia". Che a me suona un po' come "Pane, amore e fantasia") fu uno dei caposaldi del cinema degli Angry Young Men. Lo interpretò (ci siamo, adesso ci siamo proprio) quello straordinario attore (quello straordinario volto) che era Tom Courtenay (un working class hero della più bell'acqua, tra l'altro).

Il racconto di Sillitoe da cui è tratto il film uscì nel '59. Ed è un capolavoro come il film di Richardson. Ma davvero.

Protagonista il giovane Smith, che non è precisamente un bravo ragazzo. Dopo un furto in una panetteria, finisce a Borstal, un riformatorio modello. Ha doti da buon fondista, gliele scoprono e il direttore, che vuole vincere la coppa sportiva delle prigioni, lo lascia allenare tranquillamente: lunghe corse per la campagna fredda e deserta. E nella corsa a Smith resta tanto tempo per pensare e per architettare la sua guerra, le sue beffe: "Il panciuto direttore dall'occhio bovino disse a un panciuto deputato dall'occhio bovino che sedeva vicino a quella puttana panciuta dall'occhio bovino di sua moglie che io ero l'unica speranza per conquistare la Coppa Nastro Azzurro Borstal Per La Maratona (gara aperta a tutta l'Inghilterra), il che era vero, e mi fece scoppiare in una risata, nell'intimo, e io non dissi a nessun bastardo panciuto dall'occhio bovino una parola che potesse dar loro una vera speranza, pur sapendo che tanto il direttore credeva che il mio silenzio volesse dire che lui aveva quella coppa già piantata sulla nel suo ufficio tra gli altri due o tre trofei muffiti" (da "La solitudine del maratoneta", di Alan Sillitoe, prima edizione italiana nei "Coralli" Einaudi, 1964. Cito dall'edizione "Nuovi Coralli" del 1981, pag. 47 ).
Ma non ce l'avrebbe avuta, nel suo ufficio, quella coppa, il direttore di Borstal. Proprio no. Smith non ha intenzione di far contento proprio nessuno, e fanculo a tutti quanti: "No, quella coppa non gliela farò vincere, anche se lo stupido bastardo che s'arriccia i baffi ha riposto in me tutte le sue speranze" (pag. 16).
E quando c'è la gara, ed è lì lì per vincerla, Smith rallenta. E si fa superare: "non farò gli ultimi cento metri a costo di sedermi a gambe incrociate sull'erba e di farmi tirar su e trasportare fin là di peso dal direttore e dai suoi accoliti senza il mento, il che è contro le loro regole dunque potete scommettere che non lo farebbero mai perché non sono tanto in gamba da infrangere le regole" (pag. 62).

E dunque, fanculo a tutto e a tutti. Ma proprio a tutto e a tutti. E grazie ancora agli YO LA TENGO. Per i bei pensieri.


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