domenica 27 giugno 2010

Tic e la sua solita America

Dite quello che volete ma finire un grande libro ed iniziarne subito un altro che promette di essere altrettanto grande è una delle emozioni più grandi che ad un uomo sia dato di provare.
Ho appena finito di leggere Così giovane, bello e coraggioso, un romanzo di Leif Enger che mi avevano detto bello ma non pensavo così bello.
Di che parla? Di una frontiera dell'anima che bisogna raggiungere costi quello che costi, potrei dirvi, ma forse non è molto chiaro, nevvero?
E allora vi dico che parla del mio West e che ci sono barche da costruire e fiumi in cui navigare, cavalli da domare e cieli immensi, giovani cowboy belli, coraggiosi e innamorati che diventano fuorilegge per pura casualità e implacabili segugi che si mettono sulle loro tracce; eppoi ci sono scrittori in crisi di ispirazione e vecchi rapinatori di treni in cerca di redenzione, infallibili tiratrici alla Annie Oakley e spose amatissime abbandonate in Messico per colpa, più o meno, del Presidente Porfirio Díaz, immortali leggende (Butch Cassidy, Hole-in-the-Wall, l'agenzia Pinkerton, il generale Pancho Villa) e città incendiate, e praterie e deserti e orizzonti sconfinati e insomma l'America come vorrei che fosse sempre e che sempre amerò.
Leif Enger è uno straordinario cantastorie, un po' come Mark Twain, un po' come Townes Van Zandt (e mi dispiace un sacco per voi se non sapete chi è Townes Van Zandt).

«Quando ero piccolo ero convinto che mio nonno fosse un bisonte. Sembra stupido ma anche adesso mi suona giusto: era un agricoltore del North Dakota, giocava a baseball e aveva una testa grigia conficcata sulle spalle verso avanti. Aveva una presenza calma, irsuta e sicura di sé che a quattro anni associavo al bisonte. Non che ne avessi mai visti, però mia mamma ci aveva letto un libro di leggende native americane nelle quali era scritto che l'uomo era stato creato da un grande bisonte rosso che emergeva da un buco nel mondo. Il nonno era un uomo della terra e il nostro cognome, Enger, viene dalla parola scandinava che significa pascolo: dunque, probabilmente sono cresciuto con la convinzione che siamo in gran parte definiti dalla geografia. Gli spazi che conosco meglio, quelli che nutrono il mio spirito e dove amo ambientare le mie storie, sono luoghi grandi, aperti e facili da respirare, dove in un attimo ti puoi perdere» (intervista a Davide Sapienza, Il Mucchio Selvaggio, Anno XXXIII, n.665, Dicembre 2009).
Io mi sono perso nella voce di Enger, se vi può interessare, ed è stato un gran bel perdersi.

E non vi dico poi cosa cosa sono le prime pagine di Shoeless Joe, un romanzo dello scrittore canadese William Patrick Kinsella uscito nel 1982 e da poco tradotto in italiano per una casa editrice romana nata da poco, 66thand2nd. Non ve lo dico perché non sarebbe corretto: sono arrivato solo a pagina 74 e per finirlo di pagine me ne mancano 221, ma insomma, credetemi, non riesco a staccarmene.
Magari ne avrete sentito parlare, di questo libro, non fosse altro perché ne è stato tratto un film piuttosto famoso, Field of Dreams (in italiano L'uomo dei sogni), di Phil Alden Robinson, con Kevin Costner. Un lavoro del 1989 amatissimo da, arrrrrrrrrghhhhh!!!, Walter Veltroni e a 'sto punto ce n'è già abbastanza, in my humble opinion, per mandarmi più o meno serenamente a cagare, e vi capirei se lo faceste, intendiamoci, ma forse è il caso di resistere un momento.
Solo un momento, via: io non vi chiederei mai a cuor leggero di prendere sul serio l'immaginario veltroniano, e lo sapete... Quindi fidatevi, che non rischiate nulla. A Walter dal cuore puro, poi, è molto piaciuto il film, il libro non saprei dirvi.
Shoeless Joe è un romanzo che parla di sogni – c'è Robert Kennedy, in esergo (Certi uomini vedono le cose come sono e dicono: perché? Io sogno cose che non sono mai esistite e dico: perché no?) - di baseball e dell'imprendibile J.D. Salinger (che nel film però non c'è).
Beh, dopo sole 74 pagine son qui che mi chiedo (e ho pure chiesto stamattina in Facebook al mio amico Luciano Comida) come mai a nessuno scrittore italiano, con tutto il patetico, penosissimo amore degli italiani per il calcio, è mai riuscito di scrivere un grande romanzo sullo sport più amato dalla nostra, ehm, nazione e gli americani, invece... E Kinsella, invece...
Diobono, un Omero del baseball! Believe me or not.
Quando arrivo a pagina 297 magari ne riparliamo.



P.S.
Sul serio, però: avete mai letto cosa ha scritto, per dire, Osvaldo Soriano, sul calcio? Bene: perché gli argentini sì e gli italiani no?

giovedì 24 giugno 2010

Parole celebri dalle mie parti (n.85)


"Se vogliamo convincere una persona sorda potremmo avere bisogno di urlare."

(Flannery O'Connor)

mercoledì 23 giugno 2010

Dubbi amletici

E che dire, che dire del vicesegretario del famoso Partito democratico, onorevole Enrico Letta, nipote di?
La scorsa settimana il nostro (oddio, il nostro... Il vostro, magari) se ne stava bel bello a Lazise, in riva al Lago di Garda, a spiegare a noi democratici che potremmo pure allearci con la Lega Nord, un giorno o l'altro: perché no?
Capiamoci: per un democratico torinese questo vuol dire allearsi con Mario Borghezio e per uno del Friuli-Venezia Giulia, come me, significa mettersi con quelli che hanno voluto quella me-ra-vi-glio-sa legge regionale in base alla quale di recente, a Pordenone, una madre egiziana si è vista negare la possibilità di accedere all'assistenza e al sostegno scolastico per il suo bambino affetto da sindrome di Down, in quanto “i genitori non risultano residenti in regione da almeno tre anni”.

In questi giorni il nipote più famoso d'Italia, commentando la vicenda di Pomigliano d'Arco (con la Fiat che minaccia di spostare il suo stabilimento all'estero se gli operai non diventeranno tutti quanti, e subito, giapponesi: banzaiiiiiii!!!), se n'è uscito così: “Pomigliano sì, ma non è ripetibile”.
Oh, eccome se lo è, caro Letta. Eccome.
È ripetibile e verrà ripetuto.
A Pomigliano l'amministratore delegato della Fiat ha fatto da battistrada: dopo Pomigliano sarà il diluvio.
Bastava leggersi, nei giorni scorsi, qualche intervista a certi bei tomi del padronato nazionale (a Bombassei, per dirne solo uno) per capire dove si vorrebbe andare a parare.
È stato detto chiaramente.
Ora la domanda è: ma Enrico Letta è stupido come sembra o è solo un povero deficiente?

lunedì 21 giugno 2010

Mila - Original Soundtrack

Dice: ma ci scrivi pochino, sul tuo blog, ultimamente... No?

Eh... Risolvete un po' il rebus, dai: non è difficile.

martedì 15 giugno 2010

Un bel film e le vuvuzelas


Ieri pomeriggio alle cinque sono andato al cinema a vedere Il segreto dei suoi occhi, il film del regista argentino Juan José Campanella che ha vinto il premio Oscar 2010 come miglior pellicola straniera. Ero da solo in sala. Non mi era mai capitato e devo dire che è una cosa strana e molto forte.
Strana e molto forte anche in rapporto a un film che racconta di solitudini immense: quella del protagonista, Benjamin Esposito (lo straordinario Ricardo Darin), durata in pratica una vita intera; quella, davvero terrificante, del vedovo di una giovanissima e bellissima sposa, violentata e ammazzata di botte da uno psicopatico; quella di Pablo Sandoval, l'aiutante del protagonista (come si direbbe in narratologia) alcolizzato, incasinatissimo e dolcissimo che riesce a capire come prendere l'assassino e finirà poi ammazzato come un cane da una squadraccia fascista.
Il segreto dei suoi occhi vuole essere una riflessione sulla giustizia e sulla memoria (l'Argentina è un Paese dove la negazione della giustizia e della memoria, negli ultimi trent'anni, è stata molto spesso una scelta politica compiuta dalla classe dirigente democratica: a volte per paura, a volte per convenienza, altre volte per inettitudine e viltà) ma anche, come ha affermato il regista, “una storia che parla d'amore nella forma più pura. Un amore finito ancora prima di sbocciare, senza nemmeno il tempo di sfiorire e di morire. Come avrebbe potuto essere vissuto, un amore così? Quali effetti avrebbe sulle persone coinvolte? Quali atti di pazzia potrebbero compiere occhi come questi quando l'amore venisse loro portato via?”.
E insomma: cercate di intercettarlo in ogni modo, questo bel film.
Io ieri me ne sono tornato a casa entusiasta e ho provato a raccontarlo a mia moglie mentre cenavamo in giardino. Riassumerlo non è stato facile: un po' per la trama, non lineare (e non banale), un po' perché dalle case vicine, dove i televisori erano sintonizzati sulla partita della nostra Nazionale, proveniva un rumore di fondo fastidiosissimo, come di mille alveari impazziti.
Mia moglie ha detto che si trattava del suono prodotto da certe trombette, chiamate vuvuzelas: secondo il mio quotidiano di riferimento, tali trombette sarebbero il “simbolo del Mondiale africano”, nientemeno, e qui direi che un bel “mecojoni” ci può pure stare.
Zzzzzzzz e zzzzzzzzz e zzzzzzzz e zzzzzzzzz e zzzzzzzzzzz e zzzzzzzzz e zzzzzzzzz e certo che le minchiate, attorno ai campi di calcio, non mancano proprio mai.
A volte poi, com'è accaduto in Italia, tracimano dagli stadi e vanno al potere.

domenica 13 giugno 2010

TATA 2


Crying like she swallowed the fiery moon (come direbbe Bruce Springsteen).

lunedì 7 giugno 2010

TATA

Stamani alle sei è nata mia figlia Mila.
Essere padre è veramente forte!

venerdì 4 giugno 2010

Sono anch'io un creativo!


Debora Serracchiani, europarlamentare e segretario del Pd del Friuli-Venezia Giulia, sostiene che «il logo del Pd è asettico. Serve trovare un nuovo simbolo identitario».
Secondo un'Ansa di ieri, Debora sarebbe intervenuta nel suo blog per dire che «nel nostro campo simboli identitari di fortissimo impatto come lo scudo, la falce e il martello, sono stati sostituiti prima da gentili e rassicuranti simboli vegetali, poi da un asettico marchio-logo. Ma se qualcosa abbiamo perso, dobbiamo trovare altro».
Sono rimasto sinceramente colpito dall'intelligenza e dalla profondità del ragionamento politico di Debora Serracchiani. Anch'io, nel mio piccolo, sono convinto che, in questi anni, qualcosa abbiamo perso e che dobbiamo trovare altro: ce lo meritiamo pure, ostia! E che, no?!?
Ci ho pensato su tutta la notte, a quello che potrebbe essere il futuro simbolo del famoso Partito democratico, e mi sono venute in mente tante belle ideuzze!
Voglio sottoporle immantinente a Debora, certo che lei saprà apprezzare.



La stella di Negroni. Perché vuol dire “Qualità”.

Barbie e Ken. Perché sono decisamente una bella coppia e in più li puoi vestire come ti va.

Il logo dei Kiss. Perché è very international, vuol dire “bacio”: oh, so sweet!!!


Il copricapo di Asterix. Perché potrebbe aiutarci a entrare in sintonia con l'immaginario celtico dei leghisti.

Una canna da pesca. Per ricordare qualcosa a quelli che dormono.

Una panchina. Per potercisi sedere se uno è stanco.