giovedì 14 febbraio 2008

Langueur




Conosciamo le circostanze del ritrovamento dell'elmo di Vézeronce grazie ad una relazione presentata al il 28 novembre 1871 al Consiglio municipale di Grenoble. C'è da ridere: sentite un po'.
Nel giugno 1870 il signor Burty, proprietario terriero di Vézeronce, estrae dalla torba e disseppellisce a ottanta centimetri di profondità un oggetto incrostato di materie terrose che si rivela essere un elmo. Confuso dal ritrovamento, lo cede per tre franchi e due bottiglie di vino a un rigattiere di Vézeronce. Questi lo rivende per dieci franchi a un certo Bourdin di Saint-Victor-de-Morestel, che lo cede a sua volta per duecento franchi a uno studioso del luogo, il signor Bron di Nivolas. Quest'ultimo, convinto che il prezzo presenti un evidente interesse per la storia locale, lo propone per una somma di mille franchi al museo-biblioteca della città di Grenoble. Grazie all'occhio di un professore di storia di Grenoble, il pezzo viene identificato come elmo merovingio, raro e unico vestigio della battaglia di Vézeronce”, che contrappose Franchi e Burgundi e che conosciamo grazie alla cronaca di Gregorio di Tours (538-594). E insomma, quando ci si convince che il professore di storia suddetto ci ha azzeccato, la città di Grenoble sceglie di pagare i mille franchi ed “acquistare a tale prezzo, per il suo museo di antichità, quello che gli sembra essere 'una perla nelle collezioni più ricche del mondo'. Assegna inoltre al signor Burty un indennizzo di venticinque franchi per risarcirlo della scoperta”.
La storia dell'avventuroso salvataggio di questo incredibile elmo da alta uniforme (attenzione: da alta uniforme. In linea generale l'elmo veniva raramente portato dai guerrieri dell'Alto Medioevo), probabilmente appartenente ad ufficiale, è raccontata da Isabelle Lazier nel bellissimo (ma davvero, eh!) catalogo che accompagna la mostra “Roma e i barbari”, in corso a Palazzo Grassi a Venezia.
L'elmo di Vézeronce è solo una delle tante meraviglie (hanno contribuito musei francesi, italiani, tedeschi, spagnoli, americani, austriaci, belgi, bulgari, cechi, croati, danesi, irlandesi, olandesi, polacchi, rumeni, russi, tunisini, svizzeri, ungheresi e ho senz'altro dimenticato qualcuno) che ci potete trovare.
Il sarcofago di Portonaccio (dal nome del quartiere di Roma in cui è stato ritrovato), dell'ultimo quarto del II secolo d.C., che raffigura uno scontro cruentissimo tra romani e barbari, credetemi, è incredibile: Yann Rivière fa notare che il greco Filostrato, autore delle Imagines, usava l'espressione 'frustare gli occhi' per descrivere l'effetto prodotto da una profusione ('inestricabile confusione') di corpi umani, cavalli, armi. Ed è proprio così, vedete: una frustata agli occhi. Da togliere il fiato.
E poi, per dire, il busto dell'imperatore Marco Aurelio ritrovato ad Avenches, in Svizzera, in oro lavorato a sbalzo, ovvero uno dei tre soli ritratti romani realizzati in oro scampati al processo di rifusione. Si ignora quale impiego avesse un busto di questo tipo: forse ornava l'asta di uno stendardo portato da un insignifer alla testa di una legione, o forse era un oggetto rituale utilizzato nel quadro del culto imperiale che probabilmente veniva celebrato nel santuario del Cicogner ad Avenches.

A Palazzo Grassi ci sono stato domenica scorsa con mia moglie e, come forse avrete intuito, sono uscito entusiasta dalla mostra. Salti così, facevo.
Il catalogo - a cura di Jean-Jacques Aillagon, per anni testa pensante al Centre Pompidou di Parigi - è, lo ripeto, un gioiello (nel senso che costa una bella botta di soldi, 48 ricchi euro. Ma li vale tutti, e forse persino qualcuno di più). Indispensabile, secondo me, per capire quanto e come questa mostra sia stata pensata. Ovvero, oltre gli stereotipi: perché le invasioni barbariche non sono state solo l'improvvisa calata selvaggia dei 'barbari biondi' sull'impero romano 'à la fin de la décadence' (per citare Langueur di Paul Verlaine e cagare, come al solito, fuori dal vaso) di cui i 'popoli civilizzati' sarebbero stati le vittime. Per secoli, da Costantinopoli al Reno, dal Danubio esse furono anticipate (uso le parole del presidente di palazzo Grassi, il boss François Pinault - o quelle del suo ghost writer: ma fa lo stesso perché son belle parole) “dal sordo infrangersi delle tradizioni che si rivelarono permeabili tra loro, dallo sfiorarsi di due mondi che avevano imparato a conoscersi prima di affrontarsi, da scambi, da unioni tra stirpi, trattative, mutamenti e persino conversioni alla nuova fede che seminava in tutta Europa le sue prime chiese. Si tratta di una metamorfosi, il cui principale vettore è stato, ancora una volta, l'arte”.
E su queste parole di amore per l'arte e di fede nel potere dell'arte, chiudo.
Fate un saltino a Venezia. Trust in tic. In tempi di balorde, sgangherate teorizzazioni dello 'scontro di civiltà', questa mostra (che dura fino a luglio) rappresenta un piccolo atto di resistenza umana.

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