lunedì 20 ottobre 2008

Fede


L'orologio, di Carlo Levi, è un libro non facilmente classificabile. Si tratta di un romanzo? Di un saggio?
Einaudi lo pubblicò inizialmente (1950) nella collana dei «Saggi», e solo successivamente nei «Supercoralli» come romanzo.
Facciamo allora romanzo-saggio e non se ne parli più.
Vi si racconta della caduta, nel novembre 1945, del governo post resistenziale del partigiano Ferruccio Parri e dell'avvento al potere di Alcide De Gasperi (un “vecchio e navigato serpente”, parole di Levi), in quel momento ancora alleato a Palmiro Togliatti: il vento del Nord che smette di soffiare mentre s'avanzano uomini politici “fin troppo umani, accorti, abili, attenti, astuti, avidi di cose presenti” che segneranno la storia d'Italia, nel bene e nel male, negli anni (nei decenni...) successivi.
Molti personaggi del romanzo sono a chiave: per dire, Valenti è Manlio Rossi-Doria, Roselli è Altiero Spinelli, Moneta è Carlo Muscetta e Fede, beh, Fede è Vittorio Foa.
Ecco come lo descrive Carlo Levi.


“Fede (...) era piccolo, sottile, fragile, con un viso allungato e trasparente, scintillante del brillio degli occhiali, un naso appuntito, diritto in mezzo alle guance pallidissime, come una sentinella in un campo coperto di neve. Sotto, si apriva una bocca minuta dalle labbra arcuate e carnose: il mento, robusto, era spaccato in mezzo da una fossa. Aveva un'aria concentrata, attenta, come di chi abbia per le mani una pistola carica; e, quando taceva, non pareva ascoltare o riposarsi, ma badare piuttosto a far sì che il grilletto della sua arma non scattasse inavvertitamente. E l'arma c'era davvero, e pericolosa; perché, quando parlava, non era un colpo di pistola, ma una scarica di mitragliatrice, anzi un fuoco multiplo e incrociato di tiri arcuati che non si capiva di dove venissero. Questa abilità, questa astuzia della mente, che lo portava a nascondere gli argomenti per tirarli fuori improvvisi nel momento più inaspettato, che lo faceva girare attorno ai concetti, attorcigliandoli in matasse e in gomitoli e sciogliendoli a un tratto, come un pescatore di trote che avvolge paziente la lenza sul verricello con mossa annoiata e monotona e poi lancia lontano, con subita violenza, gli era naturale. Ma la natura era rafforzata dalla volontà. Nelle sue meditazioni su quel cielo della politica dove ora spaziava, egli pensava di averne scoperte le leggi, immutabili e eterne; dure, machiavelliche leggi alle quali si confermava con sicurezza entusiasta, come un eroe di Stendhal.
E molto più egli aveva del Julien Sorel quando doveva, per qualche breve istante, volger gli occhi a qualcosa di diverso da quel suo cielo politico. Come chi aveva poco vissuto ed era stato privato, sotto una campana di vetro, degli anni migliori, egli sentiva un bisogno irresistibile di vivere, di vivere in fretta, di rifarsi del tempo perduto, di invecchiare, di raggiungere la propria età, come un soldato rimasto indietro in una marcia, che corra lungo il reggimento per ritrovare il proprio posto nella fila. Ma proprio la troppa fretta, l'ansia di esperienza, gli impediva di vedere le cose e di riuscire veramente a toccarle; come un affamato che inghiotta in furia, tutti insieme, i cibi di una grande tavola, senza poter distinguere il gusto di nessuno. Avrebbe voluto amare tutte le donne, o forse avrebbe voluto che tutte le donne lo amassero – chissà, egli stesso non lo sapeva: e le assaliva tutte con un fuoco, una violenza, una passione così eccessiva, frettolosa e inesperta, che esse si spaventavano, e si offendevano, e, per quanti altri meriti gli trovassero, tutte lo respingevano. Alle prime repulse rispondeva raddoppiando il suo errore, secondo piani elaboratissimi; mostrando troppo allo scoperto la sua impazienza, passando a doni eccessivi e inaspettati, a mazzi di fiori giganteschi, dai quali si attendeva meravigliosi e sicuri risultati – ma poiché quelle, maggiormente intimorite o stupefatte si rafforzavano nel diniego, egli, spinto da quell'ansia di vita e dall'orrore del tempo perduto, abbandonava il campo, per ritentare subito con altre, con la stessa impazienza e maggior furore. Passava così, che io mi sapessi, di insuccesso in insuccesso, ma si rifugiava nella politica, dove non aveva a che fare con esseri strani come le donne, ma con dei propri simili, e con le eterne Idee."


Vittorio Foa se n'è andato.
Era molto, molto vecchio: apparteneva a un'altra Italia, a un altro mondo.
E a un'altra politica.

2 commenti:

Unknown ha detto...

E io vedo con sgomento che gli uomini (e le donne) del Partito d'Azione, delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà, se ne vanno. Mi vengono in mente lo scrittore Meneghello, il sindacalista Trentin...
Sono rimasti così pochi: Ciampi, il mio amico romanziere Alberto Ongaro. Chi altri?
Giustizia e libertà: due parole gloriose della sinistra italiana e un binomio inscindibile (se si vuol provare per davvero a cambiare il mondo).
http://lucianoidefix.typepad.com/
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Zimisce ha detto...

Bello, bellissimo questo passo. Che persona.