Il quinto angolo è un bellissimo romanzo che spero tanto venga riedito, prima o poi.
Nel linguaggio del KGB, ricordava Metter, «quando dovevano picchiare qualcuno in cella erano soliti dire: “picchieremo il quinto angolo”, e siccome la cella ha quattro angoli, il quinto era, ovviamente, il prigioniero. “Cerchiamo nella stanza il quinto angolo”, dicevano».
Nel Quinto angolo lei descrive la famosa riunione allo Smol'nyj nel 1946: mi può raccontare come visse quei momenti?
Successe in agosto, io ero in vacanza a Komarovo, dove molti scrittori avevano una dacia e trascorrevano l'estate. Il quattordici o il sedici, non ricordo, arrivarono dei pullman con l'ordine di portarci subito tutti a Leningrado, all'Unione Scrittori. Non ci fu data altra spiegazione. Quando giungemmo a destinazione, ci fu comunicato che nel pomeriggio si sarebbe tenuta una riunione allo Smol'nyj alla quale dovevamo partecipare tutti. Quando arrivammo là, vedemmo che c'erano soldati all'ingresso e facevano entrare solo chi aveva il lasciapassare. Da qualcuno avevo sentito dire che Zoscenko era in città, ma che non sarebbe venuto, che per lui non c'era lasciapassare e che non c'era neppure per Anna Achmatova. In quel momento ciò mi risultava ancora incomprensibile, ma non vi prestai molta attenzione. All'interno del palazzo c'era una folla enorme: in mezzo alla gente vidi una mia conoscente, una vecchia comunista, scrittrice molto mediocre, ma donna onesta, leale. Io sapevo che i comunisti avevano già tenuto una riunione in precedenza, perciò mi avvicinai a lei e le domandai perché eravamo stati convocati. “Ha parlato Zdanov”, mi rispose. “E che cosa ha detto?” “Sentirai”, rispose con espressione tetra, molto tetra. “Ma di cosa ha parlato?” “Zoscenko e Achmatova”. “E come ne ha parlato?” “Male, molto male”. E io, pensando di fare una battuta, dissi scherzando: “Ne ha parlato così male che tu non ti sederesti più accanto a Zoscenko?” E lei: “Sì, non mi sederei”. Ero sempre più sconcertato. Finalmente ci fecero entrare in quella grande sala che contiene varie centinaia di persone, e sul palco c'era una tribuna con lo stemma dell'Urss e un tavolo dove sedevano burocrati del partito e dell'Unione Scrittori. Poi comparve sul palco Zdanov, corpulento, sbarbato, con un abito elegante, tenendo in mano una pila di libri dai quali spuntavano dei segni, li gettò sulla tribuna e cominciò a parlare, senza leggere, camminando su e giù con fare adirato. La sua relazione produsse su di me un'impressione inimmaginabile, e non solo su di me. E non solo e non tanto per la sua ignoranza letteraria: ciò che soprattutto mi sconvolse era il suo lessico assolutamente da teppista: rozzo, ripugnante, peggio che osceno, perché le parole oscene possono anche non essere offensive, sono un modo per sfogare l'emotività. Lui invece, parlando di un intellettuale, di un grande scrittore come Zoscenko, usava espressioni come “feccia”, “nullità”, “teppista”, insomma cercava di umiliarlo il più possibile. E anche sul conto dell'Achmatova usava espressioni del genere. Io mi guardavo intorno e mi domandavo che cosa stessero pensando coloro che mi circondavano. Avevo la sensazione che qualcosa stesse scricchiolando e si stesse spezzando; e non si poteva fare nulla, solo stare fermi ad ascoltare. Non c'è nulla di più spaventoso della furia impotente. Tutti sedevano immobili con volti muti. Non si aveva diritto di reagire. E questo durò a lungo, molto a lungo. Quando finalmente uscimmo e presi il treno per tornare a Komarovo, come ho scritto nel Quinto angolo, mi guardavo intorno sul treno e invidiavo quei viaggiatori perché ancora non sapevano. E poi... poi ebbe inizio quello spaventoso latrato: quando gli scrittori diventano dei lacchè, sono più terribili di una persona qualunque. Quando uno scrittore svolge il ruolo del lacchè e si mette a scrivere, e sa scrivere, ciò che egli racconta esercita un'influenza assai più forte del racconto udito per strada da una persona qualsiasi.
Lei si riferisce alla riunione che si svolse qui a Leningrado nel 1954, dopo la morte di quel carnefice, quando già si poteva fare, dire qualcosa, e nessuno disse nulla... In quell'occasione Zoscenko fu costretto a prendere la parola, gli dissero che doveva pentirsi pubblicamente per le risposte antisovietiche che aveva dato a degli studenti inglesi durante un'intervista. Lui non era d'accordo sul fatto di doversi pentire, ma poi prese la parola e pronunciò un discorso straziante.
Al termine del quale lei fu l'unico in tutta la sala ad alzarsi e applaudire. È così?
Sì, è così. E adesso anche da noi si parla di quel gesto come di un gesto di eroismo. Ma, vede, non si trattò affatto di eroismo, per una semplicissima ragione: quando mi misi ad applaudire, io ero convinto che tutta la sala mi avrebbe assecondato. Ero assolutamente certo che sarebbe stato così: Zoscenko era così amato, il suo discorso era stato così accorato e sincero, e io me ne stavo lì in piedi e piangevo, ero sicuro che tutti avrebbero applaudito insieme a me.
4 commenti:
Secondo me non può esservi vera grandezza senza la capacità di conservare, dentro di sé, una disarmante ingenuità.
Non capisco come possa una risata fare tanta paura. Ci pensavo oggi leggendo una notiziola sul Venerdì di Repubblica, di quei figghiebottana di estremisti islamici che in Pakistan stanno facendo idiozie tipo vietare le danze durante le feste.
Una risata vi seppellirà: questa frase l'ho letta spesso ma non ho idea di chi l'abbia detta, accidenti.
Mi commuove sempre, questa intervista a Metter.
in effetti commovente. molto.
quando emma goldman andò in unione sovietica, tornò schifata perché aveva parlato con lenin e gli aveva chiesto perché mettesse in carcere gli anarchici.
noi abbiamo in galera solo banditi e machnovisti, non veri anarchici.
le rispose il grandissimo stronzo.
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