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Avviso ai naviganti: blog vagamente di sinistra. Quindi molto (ma veramente molto, ostia!) distante dal popolo. Snobismo a pacchi, dunque: avrete inteso...
In questi giorni Amos Luzzatto - chirurgo per passione (così dice lui), intellettuale raffinato (è un profondo conoscitore della Bibbia e della letteratura rabbinica), uomo politico (nel PCI) e presidente per otto anni dell'UCEI, l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – sta girando l'Italia per presentare il suo ultimo libro, Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra (pubblicato dall'editore Mursia).
Gli chiedono che cosa ne pensa della meravigliosa iniziativa del governo Berlusconi.
Risponde così.
Sono stato bambino e non potevo andare a scuola con gli altri. Ricordo che mi indicavano con il dito: “Mamma, guarda, quello è un giudeo!”. Sono cose successe 70 anni fa, cose che mi hanno segnato la carne e la memoria. Cose che non dimenticherò mai per quel che ancora mi resta da vivere. Prendere le impronte ai bimbi rom, come vorrebbe Maroni, significa compiere una schedatura etnica, e questo è totalmente inaccettabile.
Amos Luzzatto è uno abituato a chiamare le cose col loro nome.
C'è un razzismo latente nella cultura italiana, dovuto purtroppo ad un'insufficienza culturale. Ciclicamente si manifesta.
E continua.
Prendere i polpastrelli dei piccoli di un certo gruppo etnico significa considerarli ladri congeniti, prevedere che diventeranno dei delinquenti e commetteranno dei reati. E' evidente e inaccettabile il segno razziale di questa iniziativa.
Amos Luzzatto ricorda poi il suo essere bambino, bollato, timbrato, come giudeo di cui non fidarsi. Dice che si comincia così e poi si va avanti con l'allontanamento dalle scuole, le classi differenziate, le discriminazioni diffuse. Questo pesa terribilmente sul vissuto di un bambino che si sente trattato diversamente dai suoi coetanei, vive come un appestato, carico di ossessioni e nevrosi. E' una ferita che dura una vita.
Com'è questa Italia? gli chiedono infine.
Un Paese che ha perso la memoria.
6 milioni di euro andranno ai comuni, singoli o associati, per l'acquisto e l'installazione nelle zone considerate a rischio (da chi? Dai comuni, pare di capire. E poi mi chiedo e chiedo: ma se, come dicono quelli di destra, tutti i cittadini si sentono poco sicuri - anzi, meglio: sono attanagliati dall'apprensione - come si potranno scegliere le zone considerate a rischio? Se tutti si sentono poco sicuri, ogni luogo deve essere considerato a rischio. Ahi, ahi, ahi: prevedo guai...) di telecamere e colonnine di soccorso collegate con le sale operative delle polizie municipali.
Per le amministrazioni municipali con più di 20 mila abitanti (in pratica i quattro capoluoghi più la città di M., dove risiede tic) sono previsti 4 milioni di euro per il potenziamento dell'illuminazione pubblica nelle zone considerate a rischio (come sopra).
500 mila euro andranno ai comuni per finanziare piani di prevenzione, nelle aree più soggette ad episodi criminosi, con l'utilizzo di personale volontario (in pratica, le ronde di privati cittadini tanto care alla Lega).
1 milione di euro è stato previsto per la copertura di contributi da erogare a cittadini ed imprese che vogliano dotare di sistemi di allarme antifurto la propria casa o i propri esercizi.
Saranno invece destinati alle amministrazioni provinciali 2 milioni di euro per apparecchi di videosorveglianza da sistemare nelle scuole superiori “come strumento di prevenzione di deturpamento degli edifici – ha spiegato la Seganti – o di episodi di bullismo, come peraltro previsto anche nel pacchetto Maroni”.
Andranno poi all'interconnessione delle sale operative delle polizie locali e delle forze dell'ordine dello Stato altri 2 milioni di euro: “Intendiamo mettere in rete con le forze locali Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza ma prevediamo di fare altrettanto anche con la Polizia Stradale e con quella Ferroviaria, soprattutto per le aree di confine” (quale confine? Non c'è più il confine, nella regione Friuli-Venezia Giulia. L'Austria e la Slovenia sono Stati che fanno parte dell'Unione Europea. Mah...).
Per dire del clima, a Gorizia, città da sempre tranquilla come un convento (e pure un tantino soporifera), il vicesindaco e assessore comunale alla polizia municipale, Fabio G. (AN, un tempo. Ora PdL, immagino), domenica scorsa se n'è uscito così: “Solo leggendo i titoli dei quotidiani locali nelle località più piccole come Pieris, Ronchi, Romans si richiede maggiore sicurezza e presenza di forze dell'ordine nelle loro zone. Non siamo ai livelli di Milano o Napoli, questo è ovvio, ma colpisce l'ostinata malsopportazione della divisa, qualunque essa sia, da parte degli esponenti della sinistra locale. Non è una novità. Anche vederle passeggiare a piedi di notte per loro è un fastidio e rievoca regimi autoritari che, si badi bene e ricordino, esistono ancora solo in Paesi con regimi comunisti e realsocialisti. Il decreto sicurezza approvato dal Senato concede più poteri ai sindaci, richiesti a gran voce anche da sindaci di sinistra, e la possibilità ai militari di intervenire a sostegno delle forze dell'ordine sotto la loro supervisione. Nemmeno gli inusuali atti di vandalismo perpetrati in città (allagamenti, danneggiamenti e incendi dolosi) preoccupano la sinistra goriziana. Insopportabile, quasi come la croce cristiana per i vampiri, un qualsiasi colore di divisa, tantomeno possibile parlare di aumentare la videosorveglianza, senza da loro evocare il “grande fratello”. Meglio chiudersi in casa, disarmati ovviamente, ed attendere che il delinquente di turno entri indisturbato per indicargli l'argenteria”. Grandioso, nevvero? Altro che sicurezza! Il vicesindaco di Gorizia ne fa quasi una questione di estetica: quanto son belle, le divise! Mi ricorda una mia zia che andava in brodo di giuggiole quando le capitava di incrociare quelle degli ufficiali della marina: "Dio, come sono belli, vestiti così! Come sono belli...".
Ma della straordinaria performance della Giunta regionale, che si è mossa con molta decisione, ostia, per incrementare la percezione di sicurezza dei cittadini del Friuli-Venezia Giulia, cosa dice il Partito Democratico?
Gianfranco Moretton
, uno splendido esemplare di democristianon, capogruppo in consiglio regionale, sostiene che “l'iniziativa sulla sicurezza è positiva, ma non va dimenticata la famiglia”. Una piccola (piccola, suvvia!) critica a dire il vero si può fare: riguarda i 500 mila euro previsti per finanziare piani di prevenzione (chissà come lo si redigerà, poi, un piano di prevenzione... E chi lo dovrà redigere. Mistero...), nelle aree più soggette ad episodi criminosi, con l'utilizzo di personale volontario: “Quell'investimento avrebbe bisogno di maggiore chiarezza”. Secondo Moretton (il moderaton tanto simpaticon che c'ha pure dei bei baffon), insomma, il pacchetto sicurezza "è un disegno valido, sempre che non vada a togliere fondi prioritari, soprattutto per la famiglia, capitolo su cui, invece, si dovrebbe pensare di implementare i finanziamenti” . Vi faccio una domanda: sembra anche a voi che il signor Moretton abbia particolarmente a cuore la famiglia?Il sindaco di M. lo ha accolto presentando la sua città: “Questa è una città con molti problemi e anche con molto dinamismo e a cent'anni dalla fondazione del cantiere navale stiamo riflettendo sulle imprese e le conquiste realizzate, ma anche sulle difficoltà che ne sono nate. M. è in una situazione particolare perché, a fronte dei movimenti migratori di questi ultimi anni, rischiamo di non sapere quanti siamo e chi siamo. Ci sono nuove esigenze rispetto alla sicurezza, anche a fronte dei nuovi decreti in materia”. Insomma, siamo pure noi attanagliati, signor Presidente.
Tondo ha colto il punto immediatamente, e come avrebbe potuto non coglierlo: “Abbiamo posto la sicurezza al centro del nostro programma. L'assessorato affidato a Federica Seganti ha già posto in essere delle variazioni di bilancio utili a realizzare degli interventi di adeguamento in questo ambito”. Il Presidente ha poi aggiunto che la giunta regionale ha intenzione di finanziare una serie di azioni nelle aree che sono considerate più esposte sul piano della sicurezza.
P.S.
Angelo Manna (1935-2001) fu giornalista e, ehm, politico (nel 1983 fu eletto in parlamento per il MSI. Secondo degli eletti a Napoli dopo Giorgio Almirante). Ma sembra si appiccicasse pochino con i suoi camerati, almeno con alcuni: era di idee neoborboniche, disprezzava il Risorgimento (uno dei suoi libri si intitolò Quegli assassini dei fratelli d'Italia, per dire...) e pure la bandiera dai tre colori che è sempre stata la più bella. Un leghista ante litteram, insomma. Solo che era meridionale. A Montecitorio avanzò unicamente proposte da suddito dei Borboni: insegnamento obbligatorio del dialetto napoletano nelle scuole pubbliche, preclusione degli appalti campani alle imprese del Nord, fondazione di un Ente di tutela e valorizzazione della canzone napoletana (propose anche che ‘O Sole Mio venisse dichiarata bene popolare e che alla città di Napoli venissero destinati i diritti d’autore). Se ne sentono, in talkischeap, eh?
In realtà Ripenso il tuo sorriso, ehm, è dedicata ad un uomo, il ballerino russo Boris Kniaseff.
Su Il Piccolo di ieri, venerdì 20 giugno, la professoressa Marina Sbisà (che insegna Filosofia del linguaggio alla facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Trieste) si è detta scioccata dalla svista. E sentite un po' cosa ha scritto.
“E' stato un po' uno choc venire a conoscenza della traccia di Analisi del testo per il tema d'italiano della maturità. La persona di cui parla la poesia “Ripenso il tuo sorriso” di Montale è di genere maschile anziché femminile. Come invece la traccia presupponeva. Questo non è un dettaglio fattuale da scoprire nella biografia del poeta o di cui chiedere conferma a chi l'ha conosciuto bene in vita; è una semplice questione di grammatica italiana”.
E bastava saper leggere (o aver letto attentamente...) il testo.
Continua la professoressa Sbisà: “Recita la seconda strofa: “Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano, / se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua... “: ragioniamo un attimo, “o lontano” può essere solo un vocativo, perché “o” chiaramente in questo contesto non può (unica alternativa!) voler dire “oppure”; ma se è un vocativo, il poeta si rivolge a un essere di genere maschile. Non dovrebbero esserci su questo dubbi o illazioni di sorta. Fa parte del millantato “contenuto informativo” del testo che pure la traccia chiede ai ragazzi di riassumere. Il destinatario dell'appello è maschile”.
Eh, già... Ma la professoressa ci è arrivata, come ha scritto lei stessa, perché si è fermata a ragionare un attimo. Chi ha scelto il testo, col cacchio che l'ha fatto.
“I lettori d'oggi sono frettolosi, frettolosi assai, compresi quelli ministeriali. Si comprende, o crede di comprendere, per assonanze, per associazioni mentali. Per stereotipi. Tipo: solo le donne sorridono (?). Oppure: se qualcuno è paragonato a una palma è una ragazza. Nossignori, non è così che funziona. C'è la grammatica, e pure la logica. Senza quelle, niente comprensione”.
La professoressa Sbisà si è perciò sentita presa in giro, e pure io (nel mio piccolo. Nel mio infimo).
“Le conseguenze da trarre da questo episodio incredibile, che non è questione di responsabilità individuale bensì portato di un diffuso malcostume, sono molteplici. Alle commissioni le conseguenze pratiche nella valutazione dei temi. A noi tutti, giovani e adulti, fermarci un attimo a meditare quali danni, quali arbitrii possa generare l'incapacità di lettura. E imparare a leggere. Davvero.”
Chapeau alla Sbisà. E comunque, a proposito di responsabilità individuale, già ieri l'altro è stata rimossa, dalla titolare del Ministero dell'Istruzione Mariastella Gelmini, la coordinatrice dell'équipe di selezione delle prove d'esame, professoressa Caterina Petruzzi.
Che si difende come può dalle accuse di incompetenza che le son piovute addosso e a me non pare il caso di infierire. La Petruzzi è un epifenomeno. Perché Marina Sbisà ha ragione: il problema è che leggere è una cosa molto difficile (molto più difficile che scrivere...) e i lettori d'oggi van molto di fretta. Si crede di comprendere per associazioni mentali, per stereotipi. Ma non è così che funziona.Avete mai sentito parlare del correlativo oggettivo?
Secondo T. S. Eliot, ”l'unico modo per esprimere un'emozione in forma d'arte consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiranno la formula di quella particolare emozione, cosicché, quando siano dati i fatti esterni che devono concludersi in un'esperienza sensibile, l'emozione ne risulti immediatamente evocata" (da un saggio del 1919, Amleto e i suoi problemi).
Capito? Il correlativo oggettivo è un procedimento stilistico che un poeta decide di utilizzare per poter esprimere anche i concetti e i sentimenti più astratti, quelli che sono difficili da raccontare. Concetti e sentimenti che vengono dunque messi in relazione con degli oggetti concreti, precisi e ben definiti.
Quella di Eliot è una poetica analoga a quella del Montale de Le Occasioni (la sua seconda raccolta di poesie, edita per la prima volta – altre edizioni seguiranno e mò non vi sto a dire – nel 1939). Nell'Intervista immaginaria del 1946 Eugenio Montale così definì tale poetica: “Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta. Un modo nuovo (...) di immergere il lettore in medias res (nel mezzo dell'argomento), un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi”. Meno chiaro, adesso? Ma no, dai.
Il poeta ligure conobbe la poesia di Eliot probabilmente tra il 1929 e il 1930 (Eliot, quindi, aveva già pubblicato The Waste Land, che è del 1922): in quel periodo tradusse A Song for Simeon (Canto di Simeone) e La figlia che piange, e certi critici letterari si sono spinti a parlare di queste traduzioni montaliane come dell'inizio di “una lunga convivenza” ideale tra i due poeti.
Il correlativo oggettivo, però, secondo qualcuno, si può trovare già in Ossi di seppia (prima edizione, 1925), raccolta poetica che trabocca di oggetti e di fenomeni del paesaggio ligure (quello di Monterosso, nelle Cinque Terre, in particolare): e quindi ecco i limoni, gli scogli, le scaglie di mare viste da lontano, i pruni, gli sterpi, le alghe, le petraie, il sole che abbaglia. E naturalmente gli ossi di seppia, simbolo di una poesia scabra ed essenziale.
E il correlativo oggettivo del sostantivo "incompetenza"?
E il correlativo oggettivo di quell'incapacità di lettura ormai sempre più diffusa di cui parlava Marina Sbisà?
E la cosa terribile (terribile soprattutto perché paradossale) è che l'egemonia culturale di questa barbarie è stata raggiunta dalla destra americana conquistando il consenso di elettori le cui vite venivano in realtà messe fortemente a rischio dalla sua azione politica: Ronald Reagan riuscì a convincere quote consistenti della piccola e media borghesia bianca ad abbandonare il proprio tradizionale voto per i democratici investendo politicamente sulla guerra fra poveri, cioè lasciando intendere che il welfare state serviva soprattutto ad aiutare fasce sociali (i neri, gli immigrati) che erano in diretta concorrenza con le classi bianche meno ricche.
Se Obama vincerà, magari...
Magari tornerà egemonica, negli Stati Uniti d'America (e da noi, di conseguenza), l'idea che ci sono grandi bisogni pubblici (come l'educazione e la salute) che non dovrebbero mai essere trascurati e depauperati in nome del mercato (di un mercato a cui i suoi corifei più ispirati attribuiscono quasi una sorta di potenza magica), pena l'abbruttimento e la decadenza, etica prima che economica, dell'intera società.
E a questo punto mi rendo conto che devo un po' alleggerire, sennò chi mi regge?
Perciò cercherò di finire in gloria...
Scrivendo, mi è venuto in mente quel liberal di straordinaria caratura che fu John Kenneth Galbraith. Conoscete, spero. Un grandissimo economista che operò da consigliere di Franklin Delano Roosevelt, di John Fitzgerald Kennedy e, se non ricordo male, pure del vispo presidente Clinton.
Galbraith era uno a cui piaceva un sacco tirare sassi in piccionaia e demolire miti.
Una delle sue bestie nere era il mito della sovranità del consumatore: sapeva benissimo, il nostro, che quando i bisogni più naturali e urgenti sono soddisfatti, i consumatori tendono a perdere del tutto il controllo della loro domanda per mettersi, senza timori di sorta, nelle mani dei produttori. E sapeva pure che i produttori sono sempre in grado di manipolarla alla grande, la domanda, ad esempio attraverso la pubblicità: perciò, ed era questo che lo faceva imbufalire di più, molto spesso (troppo spesso...) la ricchezza di una società viene trattenuta nella sfera di bisogni privati assai futili e fatui, con il rischio che quanto è pubblico sia invece trascurato e lasciato andare a ramengo.
John Kenneth Galbraith considerava particolarmente disdicevole che tra le classi dirigenti del suo Paese d'elezione (lui era canadese, ma naturalizzato statunitense) avesse corso legale certa retorica manageriale d'accatto: è rimasta proverbiale la sua allergia per l'uso e l'abuso, nel discorso politico, di quell'espressione, “Azienda America” (vi suona qualcosa?), che on his opinion serviva solamente a mettere in circolo nella società la tossina dell'equivalenza tra il business e la democrazia.
Non si faceva particolari problemi, il nostro: era sempre molto duro ed aggressivo con quell'establishment U.S.A. di cui in ogni caso faceva parte a pieno titolo.
E l'establishment lo ricambiava. Con tutto il cuore.
Si racconta che, durante un ricevimento, una signora cui Galbraith fu presentato finse di non capire il suo nome, se lo fece ripetere un paio di volte e poi disse: “John Kenneth Galbraith... Deve essere imbarazzante per Lei andare in giro con quel nome. Somiglia a quello di quel gran figlio di puttana che lavora per Kennedy”.