giovedì 29 novembre 2007

Piange il telefono (non bastava che piangesse il piatto?)



Tempi da lupi per il professor R. P.
Alla Camera il governo ha portato a casa la sua ventitreesima fiducia: sul welfare, come si dice dalle nostre parti (anche se io non sono sicuro che siano poi in tanti gli italiani a conoscere l'esatto significato della parola welfare). Pare che i rossi (RC, PdCI, SD) abbiano votato la fiducia al professor R.P. turandosi il naso (ma non ho capito perché. E non ho la minima intenzione di fare uno sforzo per capire).
Il professore è molto preoccupato, comprensibilmente, per la tenuta del governo da lui presieduto. Teme che ci sia qualcuno che stia lavorando, aùmm aùmm, per mettere in piedi un altro governo. Senza di lui.
In tutto questo can can, pare che il professore sia pure assai irritato con il GRANDE CAPO del GRANDE PARTITO DEMOCRATICO. Da lui "neanche una parola in difesa del governo", hanno fatto notare gli uomini più vicini a R.P. E ancora: "In queste ore nessuno li ha sentiti (immagino si faccia riferimento a W. e ai suoi collaboratori, n.d.r.). Walter pensa solo a fare accordi con Berlusconi e Casini. Con quale obiettivo?".


E se al momento non fosse chiaro neppure al GRANDE W., l'obiettivo? Potrebbe pure essere... Quello che è sicuro è che W. corre, corre, corre. Ogni tanto qualcuno (quorum ego, avrebbe detto il Gianni Brera) si chiede: ma perché corre? Solo che in tempi di veltronismo imperante certe domande non mi pare siano troppo gradite. E allora si corre, via. E non si trova nemmeno il tempo per una telefonata al professor R.P.
E magari non si risponde nemmeno, quando è il professore a telefonare (e qui viene in mente una battuta del più bel film di Woody Allen, Crimini e misfatti - pensavate che avrei scritto Manhattan, nevvero? Stolti... - "Il lupo non risponde al telefono", una sorta di variante da era delle telecomunicazioni dell'Homo homini lupus hobbesiano).

Povero professore. Eppure l'abbiamo aspettato per anni. Invocato per anni. Ricordate? L'unico che può battere quello, si diceva. L'unico. Speriamo che accetti. Speriamo. Solo lui può batterlo. L'ha già fatto una volta, lo può rifare. Speriamo. Speriamo che accetti di mettere le mani in questo lerciume.
Io ricordo.
Perciò, siccome non sono mica il figlio della serva, faccio anch'io come quel coglione di Celentano.
Solidarietà al professore. E chapeau! Fossi in lui, li manderei tutti quanti a cagare stans pede in uno. A cominciare dai rossi, naturalmente. Per finire, massì, con quello che corre.


P.S.

Prima o poi (più prima che poi) vi parlerò di un grande romanzo americano dei primi anni Quaranta, Perché corre Sammy? di Budd Schulberg.
Così avrò il pretesto per chiedermi (e chiedere) nuovamente: perché corre W.? E anche: dove corrono questi veltronini in sedicesimo tutti pulitini, incravattati e sorridenti? A rassicurare le vecchiette? E' un'ipotesi. Cercherò di verificarla.

mercoledì 28 novembre 2007

Parole parole parole



Comincio col dire che Joann Sfar è uno che ha studiato filosofia. E si vede.

Siamo nell'Algeria del primo Novecento. Mojroum, il gatto del rabbino Abraham, divora il pappagallo di casa e acquista il dono della parola. E siccome le prime parole che la bestiola pronuncia sono parole menzognere (“Dov'è il pappagallo, Moujroum?” - “Se n'è andato. Una commissione urgente. Ha detto di non aspettarlo per cena”) il pio rabbino teme che il gatto possa mettere in testa delle strane idee a sua figlia Zlabya (dice Abraham: “La parola serve a descrivere il mondo, non a contraffarlo, diavolo”). Quindi le proibisce di frequentarlo. Secondo il rabbino, Mojroum, per poter restare accanto a Zlabya (che il gatto adora), deve avere un'istruzione religiosa che lo trasformi in un buon ebreo perché un buon ebreo non mente. Mojroum gli risponde che lui è solo un gatto "e per giunta, non so bene se sono un gatto ebreo o no. Il rabbino mi dice che sono senz'altro ebreo, poiché i miei padroni sono ebrei. Io gli dico che non sono circonciso. Lui mi dice che i gatti non vengono circoncisi”. Abraham vuole che il gatto studi il Talmud, la Torah, la, Mishnah e la Gemara. Ma Mojroum, decisamente, non è un buon cliente: è un gatto molto impertinente e polemico che se proprio dovrà essere ebreo, dice, dovrà avere il suo Bar-Mitzvah. Anzi, lo esige, il suo Bar-Mitzvah. Comincia così un'avventura che più esilarante non la si sarebbe potuta immaginare, perché il rabbino lo vorrà domandare al suo maestro, al suo rabbino, se per i gatti che parlano lo si possa celebrare, il Bar-Mitzvah. E quando andrà a chiederglielo si porterà dietro Mojroum, che non resisterà all'impulso di interloquire con il vecchio religioso. La disputa ad un certo punto verterà sulla differenza tra un gatto e un umano: Mojroum domanda quale sia. “Lui mi risponde che Dio ha fatto l'uomo a sua immagine. Io gli chiedo di mostrarmi un'immagine di Dio. Lui mi dice che Dio è una parola. Io dico al rabbino del rabbino che se l'uomo è simile a Dio perché sa parlare, io sono simile all'uomo”. Il gatto ama molto, molto poco, lo si capisce, chi professa certezze assolute.
Joan Sfar ha dichiarato in un'intervista di non poter accettare “lo sforzo di sistematizzazione che contraddistingue la tradizione del pensiero occidentale”. Sa bene, il nostro (non ve l'ho già detto che ha studiato filosofia?), che ogni grande sintesi, ogni totalità, comprime le dissonanze del mondo, e anche le sue benemerite diversità, nella compatta, e sempre fittizia, armonia della forma e del significato.
Sfar, ebreo per metà sefardita e per metà ashkenazita, è saldamente inserito in quella tradizione ebraica consapevole che, come dice il buon rabbino Abraham, “il logos consiste di tesi, antitesi, sintesi. Mentre il giudaismo è fatto di tesi, antitesi, antitesi, antitesi”. Il rabbino sa che il pensiero occidentale “mette dei nomi sulle cose, delle etichette, come per dire queste cose fanno parte del mio sistema, le ho capite”. E sa anche che “il tempo di nominare una cosa e lei è già cambiata, e il nome che le è stato dato ha già smesso di definirla con esattezza, e ci si ritrova in bocca delle parole vuote”.
Questo pure il gatto parlante non lo ignora, perché sa cosa significa vivere libero. E libero, tra le altre cose, di non dover per forza cercare dei significati ai fenomeni (visti gli studi compiuti dall'autore, la parola "fenomeni" deve intendersi come un omaggio) dell'esistenza. E ne è ancor più consapevole dopo aver cominciato a parlare. Nella bella postfazione al lavoro di Sfar, Emilio Varrà nota che la parola è in fondo “la prima forma di definizione del trascorrere della vita; (...) portatrice di divisioni e distinzioni. La prima ad apparire è quella tra verità e menzogna: ogni cosa detta ubbidisce necessariamente a una di queste due sfere, e come tale è giudicata”. La parola si mostra, nel libro, come motivo di contrasto, se non come tragedia (perché tale è, per il gatto, la sua forzata separazione dalla amatissima figlia del rabbino).

Non so se son riuscito a render bene l'idea, ma solo nella prima delle tre storie comprese ne Il gatto del rabbino (Rizzoli) c'è tutta questa complessità. Resa graficamente da un segno che può apparire povero, quasi tirato via (ma così non è) e da una grammatica della tavola semplice ed estremamente lineare. Un grande autore, dunque. E, per la cronaca, il gatto disegnato esiste davvero: si chiama Imhotep e proviene dalla Thailandia. E' questo qui sotto, in braccio al suo padrone, Joann Sfar.
Lettura consigliatissima a chi ama i gatti.

lunedì 26 novembre 2007

Largo ai creativi!!! (modesta proposta a W.)


Nei giorni scorsi è stato presentato allo spazio Etoile a Roma il simbolo del NUOVO, GRANDE PARTITO DEMOCRATICO. Effetto tricolore, è stato detto: una grande P verde, una D bianca su sfondo rosso. Sotto, c'è scritto Partito Democratico (ahimé, con solo due lettere maiuscole! Ma che sono, matti?!?), con un ramoscello d'ulivo a dividere le due parole. Il simbolo è stato ideato da un giovane molisano di 25 anni, Nicola Storto.
Storto ha dichiarato che è stato W., a scegliere: “Diciamo che procedevamo a scaglioni. Gli facevamo vedere i progetti un po’ alla volta fino ad arrivare a quello che gli è piaciuto di più. Li raffinavamo di volta in volta”. Le indicazioni di W. a Storto sono state le seguenti: “Leggerezza, modernità e contemporaneità. Ma sempre mantenendo il legame con il passato storico dell’Italia”. Indicazioni alla W.: modernità ma COMUNQUE legame storico, Storto! Forza! Scattare! Pedalare! All'evento dell'Etoile W. ha dichiarato: “Un simbolo racconta l’identità di una comunità di donne e di uomini e credo che questo che abbiamo scelto racconti bene l’identità del PD, un partito che nasce per fare un’Italia nuova con forza e determinazione”. COMUNQUE con forza e COMUNQUE con determinazione, avrete inteso. E ci mettiamo pure un bel QUANTUNQUE. Il simbolo richiama il Tricolore ma anche tre grandi tradizioni” spiega W. “il verde del mondo laico e ambientalista, il bianco del cattolicesimo democratico, il rosso della cultura del lavoro”.
Grande W. Grande. Ti vogliamo bene. Ma non solo a te: a tutti, a tutti bisogna COMUNQUE voler bene. E tanto, tanto, tanto bene.
E io dico: adesso che abbiamo il nostro bel simbolo, bisogna che il PARTITO DEMOCRATICO abbia anche un inno.
Io avrei una proposta. Modesta, eh... Modestissima. Ma mi sembra buona. Ecco, ho pensato che il nostro inno dovesse essere una canzone popolare (ma non come quella di Ivano Fossati: PIU' POPOLARE!). E dovesse essere anche leggera, moderna e contemporanea, mantenendo COMUNQUE un legame con il passato storico dell'Italia. E dovesse essere pure aperta, apertissima al mondo!!! Nel caso, all'Africa lontana: quel continente nero dove, alle falde del Kilimanjaro, W. andrà a lavorare (aggratis, ovvio: da volontario) una volta che non sarà più sindaco di Roma.
Ho scelto perciò una canzone di autore ignoto (mi è parsa molto democratica, la cosa: “autore ignoto” significa che tutti, davvero tutti in una comunità di donne e uomini, potrebbero esserne gli autori. Che figata!) che parla di persone sofferenti, di donne (e come si fa, tra noi democratici, a non parlare di quote rosa?), di immigrazione e di guerra che siamo tutti quanti, tutti insieme, contro alla guerra, noi.
Di questa bellissima canzone democratica esistono varie versioni. Io ho scelto questa. Spero tanto che qualcuno riferisca della mia proposta al nostro COMUNQUE Segretario del QUANTUNQUE Partito. Egli, confido, saprà apprezzarla.





IL TUCUL E' UNA CAPANNA DOVE ZAMBO FA LA NANNA

Quando me sentire odore di banana,

subito pensare ad Africa lontana,

me pensare a giungla nera,

alla tigre, alla pantera,

me pensare sempre più,

al mio coso nel tucul.


Il tucul è una capanna dove Zambo fa la nanna.

Il tucul è un posto tetro, ci si entra dal didietro,

non c'è sedia, non c'è letto per il povero negretto,

sulla porta del tucul il mio uccello fa cucù!


Una volta, in Mozambico, fatto male a grosso dito,

evitare l’infezione, necessaria amputazione,

la negretta disse a Zambo: “Non ti voglio senza gambo,

non ti far vedere più sotto l’ombra del Tucul!” .

Quando guerra poi scoppiata,

arruolato in Quinta Armata,

in Italia destinato,

sono a Napoli arrivato;

c'eran tante bimbe belle che chiedevan caramelle,

quando chiedere di più io mandare a far tucul!


Se fortuna destinare, voglio in Africa tornare,

rivedere la negretta e tenerla stretta stretta;

ed allora, a Mozambico, miei signori, ve lo dico,

io non voglio viver più, ma morire nel tucul.

domenica 25 novembre 2007

Varcando le cupe frontiere (mit Herr Aue)




Ho passato un po' di tempo in compagnia di Herr Aue. E' stata un'esperienza che non raccomando a nessuno. Inquietante. A volte insostenibile.
E non perché Le Benevole sia un romanzo di 943 pagine fitte fitte: io sono molto duro a cuocere, sapete?
Ecco a voi, perciò, le parole dell'Obersturmbannfuehrer Aue. Vedrete che capirete da soli.
“Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io l'avreste fatto anche voi. Forse con meno zelo, ma forse anche con meno disperazione, comunque in un modo o nell'altro. Penso che mi sia permesso concludere come un fatto assodato dalla storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l'eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un'epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie e i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori”(Le Benevole, pag. 21).
Ancora? Ecco.
Ma non penso di essere un demonio. Per ciò che ho fatto c'erano sempre delle ragioni, giuste o sbagliate, non so, in ogni caso ragioni umane. Quelli che uccidono sono uomini, come quelli che vengono uccisi, è questa la cosa terribile. Non potete mai dire: “Non ucciderò”, è impossibile, tutt'al più potete dire: “Spero di non uccidere”. Anch'io lo speravo, anch'io volevo vivere una vita buona e utile, essere un uomo fra gli uomini, uguale agli altri, anch'io volevo aggiungere la mia pietra all'edificio comune. Ma la mia speranza è stata delusa, e si sono serviti della mia sincerità per compiere un'opera che si è rivelata malvagia e perversa, e io ho varcato le cupe frontiere, e tutto quel male è entrato nella mia vita, e nulla di ciò potrà mai essere riparato, mai”(pag. 25).
E dunque vedete. Avrete notato il tono...
Herr Aue (protetto alla fine della guerra dalle Eumenidi - le Benevole, Les Bienvieillants del titolo di un romanzo scritto in francese da un americano - cantate da Eschilo nell'Orestea, che si contrappongono alle Erinni, le divinità della vendetta. Le stesse Eumenidi che, nonostante il matricidio di Clitennestra, hanno protetto Oreste dalla furia degli dei e che hanno però il compito di tenere sempre vivo il ricordo di quello che è stato, ovvero la responsabilità, per qualcuno, di crimini orrendi) Herr Aue, dicevo, cerca insidiosamente la nostra complicità. Non la implora: la chiede cortesemente. La chiede da uomo di mondo che solo le circostanze, lo spirito di tempi completamente impazziti, hanno potuto sviare da una vita di studi e di soddisfazioni accademiche e da una rispettabile e rispettata professione borghese.
La mia complicità non l'ha mai ottenuta. E non perché Herr Aue delle sue azioni non si è MAI pentito (“Come ha dichiarato così bene il mio commilitone Eichmann, a Gerusalemme, con tutta la diretta semplicità degli uomini semplici: - 'Il pentimento è una cosa da bambini'”, pag. 656). Dei confessionali a me non importa (è noto) un accidente (anzi, per meglio dire: importa meno, forse, di quanto importi a Herr Aue). Il fatto è che io detesto, da sempre, gli uomini di mondo. Cosa avrebbe dovuto affascinarmi? Il fatto che questo signore sia sì un nazista, ma un nazista coltissimo? Mi pare pochino, via, perché potesse scattare qualcosa tra noi.
Che Aue appaia come un nazista, come dire, un po' fuori norma, qualcuno lo ha fatto notare, a Jonathan Littell. Che si è detto d'accordo: “Ma un nazista sociologicamente credibile non avrebbe mai potuto esprimersi come il mio narratore. Non sarebbe mai stato in grado di fare luce sugli uomini che lo circondano. Quelli che sono esistiti come Eichmann o Himmler, e quelli che ho inventato io. Max Aue è un raggio X che esplora, uno scanner. Effettivamente non è un personaggio verosimile. Non cercavo la verosimiglianza, ma la verità. Non vi è romanzo possibile se ci si aggrappa al solo registro della verosimiglianza. La verità romanzesca è di un altro ordine rispetto a quella storica o sociologica”. Sostiene Littell. E mi può andare bene. Solo che io non sono tanto sicuro del fatto che Herr Aue non sia un personaggio verosimile.
Non valgono quindi per me (per mia fortuna, ne sono consapevole) le preoccupazioni manifestate da Claude Lanzmann, l'autore di Shoah: “Il romanzo è intitolato ai morti ma il suo eroe è un uccisore di ebrei mentre stanno scomparendo gli ultimi testimoni dell'Olocausto e si passa dalla memoria alla Storia. Littell ha creato un velenoso fleur du mal. Attenzione dunque a non estrarre dalle viscere della Storia demoni troppo talentuosi, possono esercitare sul lettore un fascino assassino ad accettarli perché sono simili a noi, umani troppo umani”.
Capisco che il problema non può essere solo un problema mio (anche se io posso fornire unicamente le mie personalissime, e discutibilissime, ça va sans dire, impressioni sul testo di Littell) e che Lanzmann possa essere un po' preoccupato dell'enorme successo arriso al libro in Francia (l'editore Gallimard pare avesse previsto per Le Benevole una tiratura iniziale di sole 5000 copie. Il libro, poi, di copie, ne ha vendute centinaia di migliaia – alla faccia della sua mole – ed è arrivato al Prix Goncourt): perché i libri, lo sappiamo, possono anche essere molto pericolosi. Certi libri di gran successo lo sono stati sicuramente, nel corso della Storia umana. Littell però riesce secondo me a sfuggire, nel romanzo, al pericolo, da molti paventato (non solo da Claude Lanzmann, quindi), di una valorizzazione estetica del male. Eppoi, ma a quanti di noi questo Aue - così ferito nell'anima, (e perciò) così spaventosamente nevrotico, così feroce - può essere simile?

E non mi pare nemmeno che, pur raccontando la storia di un pervertito dalla sessualità completamente devastata, l'autore giochi sulla fascinazione che certa estetica nazi-decadente potrebbe magari esercitare su anime (non dico semplici, ma) assai facilmente impressionabili (ed eccitabili...): ci sono arrivati molto prima di lui - e, a quanto ne so, con molte polemiche in meno - Luchino Visconti e, in versione, come dire, più pop, la Cavani. E, dopo di loro, legioni di pornografi...
Ha scritto Georges Bataille. "I boia non hanno parola, oppure, quando parlano, lo fanno con la parola dello Stato". Ecco, Maximilien Aue ne ha fin troppe, di parole. E sono parole terrificanti.
Ancora Littell: “Ho scoperto la frase di Bataille dopo avere terminato il mio libro. Mi ha illuminato retrospettivamente. All'inizio, pensavo che nei testi dei carnefici avrei trovato cose a cui mi sarei potuto aggrappare. Tra questi e tutti i carnefici che ho frequentato nella mia vita lavorativa (Littell è stato operatore di organizzazioni umanitarie: in Bosnia dalla parte serba, in Cecenia, in Afghanistan, in Rwanda, n.d.r.) pensavo che avrei avuto il mio bel daffare. Invece, più mi inoltravo nella lettura, più mi accorgevo che non c'era niente. Non avrei mai potuto proseguire restando nel registro della ricreazione della fiction classica con l'autore onnisciente, alla Tolstoj, arbitro del bene e del male. Il solo modo era mettersi nei panni del boia. Dunque, di boia ne ho visti e conosciuti. Sono stato accanto a loro. Sono partito da quel che sapevo, vale a dire io, con il mio modo di pensare e di vedere il mondo, mi dicevo che mi dovevo mettere nei panni di un nazista».
E' questo che ho trovato disturbante, inquietante, a volte insostenibile in questo (grande) romanzo: pensare a Littell, solo, davanti ad una pagina bianca, che cerca di mettersi nei panni di un boia. In proposito, sentite questa, se non è straniante, se non è terribile: “Come la maggior parte della gente non ho mai chiesto di diventare un assassino. Se avessi potuto, l'ho già detto, mi sarei occupato di letteratura” (Max Aue, a pag. 23)

giovedì 22 novembre 2007

Ti auguro di inghiottire quel cazzo di sigaro. Acceso.


Quando regnava Berlusconi, alla RAI facevano quello che piaceva a lui. Su la Repubblica di ieri, mercoledì 21 novembre, intercettazioni compromettenti. La RAI ha aperto un'inchiesta interna sui giornalisti felloni e prezzolati.
Lo confesso: non mi sono granché meravigliato. Perché non mi hanno raccontato nulla che non sapessi già. Sarò cinico?
E, già che ci siamo, sempre su la Repubblica di ieri, un trafiletto, solo un trafiletto.
Vi si racconta del Presidente della Camera dei deputati, Onorevole Fausto Bertinotti, che, nel famoso Transatlantico di Montecitorio, davanti ad alcuni deputati forzisti (ex forzisti?) - Cicchitto, Leone e Bonaiuti - si è prodotto in lodi sperticate del Cavalier Silvio Berlusconi.
Pare sia rimasto assai impressionato, il Presidente della Camera dei deputati, Onorevole Fausto Bertinotti, dalle inedite modalità che hanno portato alla fondazione del Partito del popolo (o Popolo della libertà: ancora non è chiaro come Silvio Berlusconi abbia deciso di battezzare la sua nuova azienda).
Davanti ai parlamentari berlusconiani (che, raccontano i giornalisti, lo guardavano esterrefatti) il Presidente della Camera dei deputati, Onorevole Fausto Bertinotti, ha esclamato, nell'ordine: "Fantastico", "eccezionale", "un grande colpo di teatro". E ha raccontato: "Stavo guardando la televisione con mia moglie e quando l'ho visto sulla macchina abbiamo detto: fantastico, mediaticamente non posso che togliermi il cappello". Notato l'avverbio, si? Mediaticamente.
E il Presidente della Camera dei deputati, Onorevole Fausto Bertinotti, ha detto anche: "Berlusconi non è solo un giocatore della politica, è uno che decide le regole del gioco. Mentre gli altri giocano a pallacanestro, lui decide che si gioca a calcio e inizia a farlo". Testuale.
Anche qui, non mi sono stupito in modo particolare.
Che a Silvio Berlusconi piacesse il calcio è cosa nota. Che fosse uomo da palcoscenico (e attore capace di GRANDI colpi di teatro) anche.
E so pure, da un sacco di tempo, che il Presidente della Camera dei deputati, Onorevole Fausto Bertinotti, è uomo capace di scorreggiare con la bocca.

martedì 20 novembre 2007

Un bel cappellino per testoline in lega leggera



Mai sentito parlare del pakul (o pakol, o pakoul: lo potreste trovare scritto in vari modi)?
E' un copricapo in lana che, secondo alcuni esperti di Asia centrale (come Louis Dupree), sarebbe tipico soprattutto di una regione dell'Afghanistan nord-occidentale, il Nuristan.
Il pakul lo potreste trovare definito anche come 'cappello Chitrali', dal nome della città del Pakistan, Chitral, dove pare sia stato fabbricato per la prima volta.
L'uso del pakul è molto diffuso nel nord del Pakistan e in Uzbekistan, oltre che, come si diceva, nelle zone settentrionali dell'Afghanistan.
Del simpatico cappello si parlò un pochino negli anni Ottanta: era quello preferito dai mujahidin che combattevano contro l'Armata Rossa che al tempo occupava il territorio afghano.
Lo si può trovare in quattro colori: nero, marrone chiaro, grigio e avorio.
Ecco una foto del comandante Ahmed Shah Massoud col suo pakul d'ordinanza . La pubblico volentieri: Massoud era un grande soldato. E un uomo coraggioso.

Perché scrivo di cappelli afghani?
Ma perché stiamo andando verso l'inverno: già ci sono state alcune giornate molto fredde, in novembre.
E i pakul si cominciano a vedere: per esempio a Genova, il 17 novembre, in occasione della manifestazione per ricordare i casini del G8 del 2001, camminavano da soli.
Il cappello dei mujahidin, infatti, sta diventando uno dei gadget più acquistati dai duri e puri della sinistra-sinistra, della sinistra radicale ma radicale proprio, della sinistra che vuole la luna, della sinistra che un altro mondo è possibile e mò ci pensa il compagno Chavez a fargliela vedere all'America, a fargliela!
Vi ricordate della kefiah? Adesso è un tantino demodé, ma ancora qualche annetto fa andava via come il pane. Era un modo (fiiiiiico!!!) per dire ai fratelli palestinesi che eravamo accanto a loro e così partecipavamo pure noi all'Intifada, pure noi! All'Intifada! Magari compravamo kefiah fabbricate a Torre Annunziata da chissà quale camorra, ma eravamo solidali, noi, coi compagni di Fatah, coi compagni! Di Fatah!
Pare che per il momento il pakul non lo stiano fabbricando, a Napoli e dintorni, ma se intanto sentite di non poterne proprio fare a meno lo potete ordinare a simplyislam.com (THE WORLD'S FAVOURITE ISLAMIC INTERNET STORE!). Ancora per qualche mese: poi i napoletani si attrezzeranno per la produzione in serie. Compratelo, e sarete un po' anche voi dei gloriosi mujahidin come quelli che combattono in Afghanistan contro l'Impero. Combattono! Contro l'Impero! (qui sotto, la bandiera dell'Impero) Sono fantastici, i miti e i riti dei duri e puri (dei miei coglioni) della sinistra che non transige. Fantastici davvero. I più tosti tra loro sono capaci di presentarsi in testa ai cortei vestiti da kamikaze delle Brigate Martiri di al-Aqsa. Ma questa è roba veramente hardcore: per pochi, quindi.
Per tutti gli altri, più tranquilli, più a modino, c'è la nuova moda mujahidin: e con il tuo bel pakul in capo sei un po' guerrigliero pure tu, compagno!
Negli anni Settanta, a Roma, Gabriel Garcia Marquez rimase a bocca aperta (ne fu scandalizzato, a dire il vero) nel vedere tantissimi duri e puri di quel tempo vestiti come soldati cubani mentre facevano lo struscio sui marciapiedi del centro della capitale. Lo scrisse pure sul Manifesto, che allora era esattamente la stessa carta da culo che è adesso. Solo che era ancora vivo Pintor.
E' confortante vedere come, dalle parti della VERA sinistra, certi automatismi da cani di Pavlov funzionino ancora alla grande.

lunedì 19 novembre 2007

Buone notizie!!!

La Conferenza Episcopale Italiana ha da poco pubblicato un dossier sulla frequenza dell'ora di religione cattolica (perché si chiama proprio così: non ora di religione, ma ORA DI RELIGIONE CATTOLICA) a scuola.
Viene fuori che nelle regioni settentrionali del Paese sono in totale più di un quarto (il 25,7 per cento) gli studenti che preferiscono una attività alternativa a quella di religione cattolica.
A Firenze, nell'anno scolastico 2006-2007, gli studenti delle scuole superiori che hanno scelto (o i loro genitori hanno scelto: fa lo stesso) di non avvalersi sono stati più di quelli che sono rimasti in classe (per la precisione, il 58,7 per cento). A Bologna il 47 per cento. Classi svuotate di un terzo degli studenti a Milano, Torino, Venezia, Genova. Dati, questi ultimi, vicinissimi a quelli di Roma.
In totale sono oltre 300mila gli studenti delle scuole superiori che disertano l'ora di religione cattolica. Nel 2000-2001 erano 218mila. E tutto ciò non dipende dalla presenza di alunni stranieri nelle classi: anche sottraendo il numero degli alunni figli di immigrati dal numero di coloro che non si avvalgono, il trend è comunque in crescita.
Detto ciò, io esulto ma non troppo. Come disse una volta Chesterton, "da quando gli uomini hanno smesso di credere in Dio non è che non credano più a niente: credono a tutto".
Esulto, insomma, perché ce l'ho su con la chiesa cattolica e con i papisti. Non per altro.
Per la serie: illusioni sull'umanità? ZERO.


Dedico questo mio povero pezzo a questa brutta faccia da faina.

Cantieri trasversali (ovvero, lo scempio viene votato non solo dalla destra ma anche dalla sinistra sfigata che ci ritroviamo)



Oggi su la Repubblica. Titolo: "In mancanza dei Budda aggrediamo il paesaggio". Di Mario Pirani la firma. I Budda a cui si fa riferimento sono quelli di Bamyan, che i talebani afghani fecero saltare in aria. Il paesaggio che viene aggredito è quello italiano. In entrambi i casi si parla di (una parte del) patrimonio culturale dell'umanità. I Budda, ormai, sono andati. Il paesaggio italiano, dai oggi dai domani, ce lo stiamo giocando.

Pirani dà notizia delle critiche che sono piovute su Vittorio Emiliani - reo di aver denunciato, nel quadro di un convegno, alcune lottizzazioni scriteriate in Toscana - da parte dell'assessore al Territorio della Regione Toscana, Riccardo Conti . Il quale afferma di non capire "questo accanimento contro la Toscana" e poi vuole, ma fortissimamente vuole, e non vuole, ma fortissimamente non vuole: "Vogliamo una conservazione attiva del nostro territorio. Quello che non vogliamo è che si affermi una idea della Toscana come arcadica regione residuale, buona solo per i fine settimana degli ospiti illustri. Siamo una complessa moderna regione europea". E a questo punto io ci avrei messo un bello 'sticazzi'. Pirani invece ha fatto rilevare un "pernicioso errore ideologico", nell'affermazione del volitivo-non volitivo assessore Conti. Errore che deriverebbe dalla ottocentesca religione del Progresso industriale. Io avrei anche fatto rilevare che la psicologia dell'assessore Conti, cittadino tra i più illustri di una "complessa moderna regione europea", è quella tipica di un miserabile, e ignorantissimo, villan rifatto.

"Oggi in Europa - scrive Pirani - l'icona delle ciminiere e degli opifici è invece resa sbiadita dalla globalizzazione. Le fabbriche del mondo saranno sempre di più in Cina, in India, in Indonesia, in Brasile. In Occidente subentrerà, per chi saprà raccogliere la sfida, l'impresa immateriale, tecnologica, informatizzata. In questo quadro l'Italia possiede un solo bene insostituibile, non scalfibile dalla concorrenza, il territorio. Ogni ettaro distrutto è una picconata contro noi stessi". Io avrei scritto, visto il paragone di cui sopra con le belle imprese dei talebani, di qualche quintale di tritolo messo a dimora sotto il nostro culo e pronto per essere fatto brillare. Ma io sono un raffinato, si sa.
Altra osservazione intelligente di Pirani: "Colpisce, inoltre, che (...) la crescita esponenziale (+21%) dell'edilizia privata sia correlata al crollo dell'edilizia pubblica e sociale. Quindi si "consuma" il suolo a solo vantaggio della rendita mentre restano con la fame di casa giovani coppie, immigrati, anziani impoveriti".
Alla facciaccia della Sinistra.
In Toscana, STORICA REGIONE ROSSA (sto ridendo, mentre scrivo), la tutela del paesaggio è, udite udite, in mano ai comuni. Lo ha deciso, appunto, il consiglio regionale progressista della storica regione rossa.
Ancora Pirani: "Così, con una risibile interpretazione della "democrazia partecipativa", si è non solo abrogato l'art. 9 della Costituzione secondo cui "la Repubblica tutela il paesaggio" (non certo i comuni), ma si è innescato un diffuso conflitto d'interessi: gli enti locali, sempre a corto di mezzi, sono invogliati a introiti aggiuntivi, attraverso concessioni edilizie, spese di urbanizzazione, ecc (...). Una pratica che può invogliare in qualche caso anche a finanziamenti illeciti, di partito o personali ". E sticazzi! Anvedi Pirani, che ti va a pensare!

sabato 17 novembre 2007

Esseri pensanti



Trovo sempre più spesso, sui giornali, foto come questa qui sopra.
Persone importanti fotografate in atteggiamento pensoso. Generalmente mentre si sostengono la bazza con un dito. O magari con due dita: pollice sotto il mento, indice lungo la guancia, il polpastrello puntato sullo zigomo. Lo sguardo vaga. Pare tendere ad infinito (verso interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete).
La mia domanda è: tutto questo cosa vorrebbe comunicare, a me e al mondo? Che la persona fotografata è una persona profonda? Mi pare banalotta, come supposizione. Ci dev'essere dell'altro...
Voi ce l'avete, qualche ipotesi in merito? Vi sarei davvero grato se me ne metteste a parte.

E, già che ci siamo, date un'attenta occhiata al secondo scatto pubblicato e dite: a cosa stava pensando Nostra Signora degli Zombies? (non mi rispondete, per piacere: "Stava pensando alla fava!". Vi cestinerei)

giovedì 15 novembre 2007

Uno sguardo torvo su sta cazzo di Italia



Partiamo da un dato.
Negli ultimi dieci anni, calcola il CRESME (Centro ricerche per l'edilizia), si sono prodotti in Italia 3 miliardi di metri cubi di cemento.3 miliardi: capito bene, si?
Qualche giorno fa, su la Repubblica, un articolo sul Comune di Bereguardo (PV).
L'incipit: "Il "bel riguardo", quel "bello sguardo" che si apriva ai Visconti prima e agli ufficiali napoleonici quattro secoli dopo dal castello di Bereguardo, ora rischia di dissolversi per sempre. Il comune pavese ha bisogno di liquidità". Il sindaco di Bereguardo si chiama Maurizio Tornielli e ci viene presentato come un uomo pragmatico che guarda oltre l´orizzonte, a nord, dove s´indovina la grande città, Milano che, dice, "dista 30 chilometri di autostrada. Siamo a dieci minuti dalla fermata metro di Famagosta. A un milanese conviene vendere l´appartamento in città e comprare la villetta qui: arriverà prima al lavoro e gli avanzeranno anche un po´ di soldi da investire".
Il Tornielli sa bene (d'altra parte, mica li fanno sindaci per niente) perché i Comuni privilegino l´espansione residenziale: "I trasferimenti dallo Stato si assottigliano. E si ventila anche la diminuzione dell´Ici. Dove prenderemo i soldi? I piccoli comuni che necessitano di opere pubbliche non hanno alternativa se non l´aumento indiscriminato delle cementificazioni".
Et voilà, signore e signori: c'est la merde!
Ecco qui pronto uno studio dell´ANCI (ehi, lo sapete che io conosco bene il Presidente dell'ANCI della Regione Autonoma Friuli Venezia-Giulia? Che culo, nevvero?) che ci avverte che "la principale fonte di entrata tributaria dei comuni è l´Ici". Urca! In quelli con meno di mille anime pare arrivi al 57 per cento. E rispettare il patto di stabilità è più duro per un paesino, ammonisce Secondo Amalfitano, presidente dei comuni "under 5000" dell´ANCI (e sticazzi: in Italia esiste un pure un Presidente dei comuni under 5000!): "Lo scuolabus per pochi bambini costa molto di più, in proporzione, che nelle città". E vogliamo noi togliere lo scuolabus ai piccini? Ma certo che no!
Secondo Paolo Pileri, urbanista al Politecnico di Milano, a spingere verso nuove cementificazioni è stata la decisione di «liberalizzare», tre anni fa, la destinazione dei soldi incassati dai Comuni per le nuove urbanizzazioni: "Prima potevano essere usati solo in minima parte per le spese correnti, ora non più. E la tentazione di ricorrere all´espansione edilizia per realizzare asili è forte". E vogliamo noi togliere l'asilo ai piccini? Come sopra, perdiana, come sopra!
Mercoledì 14 novembre una lettera accorata a la Repubblica di Vittorio Emiliani: "I Comuni ricevono meno denari dal centro e si rifanno con Ici e oneri di urbanizzazione (che poi possono spendere, grazie alla sciagurata Finanziaria di qualche anno fa, per turare le falle del bilancio corrente). Prima, la legge Bucalossi glielo impediva. In alcune Regioni, come la Toscana, i Comuni sono stati anche sub-delegati alla tutela del paesaggio e quindi decidono loro se incentivare (come fanno) l'edilizia o controllarla (come non fanno) a favore del paesaggio. Situazione che ha portato il consumo annuo di suolo a 244.000 ettari, contro medie sotto i 45.000 in Germania e addirittura sotto i 10.000 nel Regno Unito. L'Italia dovrebbe fissare un "tetto" massimo di consumo dei suoli liberi (come in Germania e nel Regno Unito). Siamo il solo Paese europeo a non preoccuparci di ciò, siamo il più devastato ed anche quello che dal paesaggio ricava grandissimi introiti turistici".

Oggi quer ber pupone de Francesco Rutelli si chiede: "La Bella Italia è diventata generalmente più brutta?". Beh, si... Io, nel mio piccolo, direi di si. Assomiglia moltissimo agli italiani, d'altronde. I quali, lasciatemelo dire, fanno cagare veramente tanto, e ogni giorno un po' di più.
Rutelli assume comunque degli impegni (e un bello 'sticazzi' ce lo metto proprio volentieri). Tra le altre cose, "un monitoraggio accorto per impedire scempi e realizzazioni orribili".
Io sono un pochino scettico, lo confesso. E come potrei non? Gli italiani sono un popolo generalmente ignorantissimo. Sanno tutto, poniamo, del calcio, proprio niente di storia dell'arte (e pochissimo, ça va sans dire, di storia in generale). Da altre parti in Europa NON E' COSI'. C'è molta meno ignoranza. E non intendo solo nella classe politica. Parlo dell'opinione pubblica. Da noi, mi pare, siamo invece a qualche milione di opinioni privatissime. E a svariati milioni di porci comodi.
Senza la consapevolezza della posta in gioco, da parte dei cittadini, non ci sarà consenso, e senza un (convinto) consenso diffuso che politiche di salvaguardia vuoi mettere in campo?
Servirebbe uno Stato più forte della pappetta che abbiamo. Ma non uno Stato amico, no. Uno Stato che spaventi.
Solo che non è cosa. Direi proprio di no.
Largo, quindi, al Sindaco Tornielli.

Tutti gli uomini del Re



Robert Rossen crebbe nelle strade del Lower East Side di New York nei primi anni del Novecento. Un ragazzo ebreo (Rosen il cognome originale) nel luogo che Abraham Cahan chiamò “la capitale dei ghetti del mondo” e che Michael Gold ha descritto in “Ebrei senza denaro” (consigliatissimo. Baldini Castaldi Dalai editore). Agli inizi del secolo scorso il Lower East Side era un mondo di “caseggiati guarniti di scale di sicurezza, lenzuola e facce” e di strade che, piene di gente, ruggivano come un mare in tempesta: “il quartiere a luci rosse: smisurata zona propizia alla sifilide, amministrata da Tammany Hall (l'organizzazione politica collaterale al Partito Democratico che dominò a NY fino all'elezione di Fiorello La Guardia a sindaco della città, nel 1934. Sotto la guida di Carmine De Sapio, nei primi anni Cinquanta, fu travolta dagli scandali e cessò di esistere nel 1960)”. Gli ebrei erano “sfuggiti ai pogrom d'Europa; con preghiere, rendimenti di grazie e solenni promesse erano fuggiti, da un nuovo Egitto a una novella Terra Promessa”.
Rossen, che da ragazzino desiderava una vita da boxeur, da regista cinematografico troverà il modo di parlare della sua ambizione giovanile in Body and soul (Anima e corpo) sceneggiato da Abraham Polonsky e interpretato da John Garfield (anche lui ragazzo ebreo dell'East side, nato Jakob Julius Garfinkle nel 1913) nella parte di Charlie Davis, giovane pugile ebreo, uomo schiacciato dal bisogno di soldi e di successo, costretto a tradire i propri principi per denaro.

Il tema del film, una denuncia scoperta del sistema capitalistico, non piacque molto alla famigerata Commissione parlamentare sulle attività anti-americane (nata nel 1937 sotto la guida dell'avvocato e senatore texano Martin Dies, fervente anti-comunista). Garfield, Polonsky e Rossen furono convocati per chiarire la loro posizione politica e le loro eventuali simpatie per il Partito Comunista Americano.
John Garfield, straordinario attore, dichiarò di non essere membro del Partito e di considerare il comunismo una tirannia, ma non fece mai i nomi di possibili comunisti. Ne avrà stroncata la carriera e nel 1951 morirà per un attacco di cuore, mentre era a letto con una puttana, la notte prima di un interrogatorio a Washington: una di quelle gogne pubbliche a cui furono costrette tantissime vittime della Commissione.


Rossen rifiutò di testimoniare, inizialmente. Ma le forti pressioni lo portarono prima ad ammettere di essere stato membro del Partito Comunista e poi a denunciare altre cinquantatre persone.
Una vita, la sua, dedicata al cinema. Dal 1937 in poi firmò sceneggiature, tra gli altri, per Raoul Walsh, Michael Curtiz e Anatole Litvak. Fu sempre molto attento al sociale e alla denuncia delle ingiustizie e della sopraffazione di più deboli. Ce l'aveva, come dire, nel sangue: non dimenticava da dove veniva. La sua prima regia è del 1947, A sangue freddo (Johnny O'Clock). Seguirà Body and soul, sempre del '47.

Nel suo momento umanamente e professionalmente più difficile, Robert Rossen non rinunciò a dirigere, sceneggiare e produrre All the King's Men, riadattando per il grande schermo il romanzo di Robert Penn Warren ispirato alle gesta di Kingfish Long. In Tutti gli uomini del Re, Long si chiama Willie Stark, ambizioso avvocato che arriva a farsi eleggere governatore di un imprecisato stato del sud degli States e che per attuare il suo programma non esita a usare ogni mezzo necessario.
Uno dei migliori film politici nella storia del cinema americano. Straordinario nella rappresentazione cruda e disincantata dei dirty tricks della politica, brutalmente realistico nel racconto - privo di qualsiasi consolazione - dei meccanismi di gestione del potere. Una parabola totalmente disillusa (ma non cinica) sull'ambizione umana.
Rossen in origine offrì il ruolo di protagonista a John Wayne, che però trovò la sceneggiatura antipatriottica e, sdegnato, rifutò la parte che toccò a Broderick Crawford.
Rossen attraverso Crawford si prese una bella rivincita: l'attore si vide assegnato un Oscar per la sua straordinaria interpretazione di Willie Stark. Un altro Oscar toccò poi a Mercedes McCambridge (nel film è Sadie Burke, l'assistente, del tutto priva di scrupoli, di Stark). Il terzo Oscar premiò il miglior film.
Trovate Tutti gli uomini del Re in DVD. Columbia Classics.

mercoledì 14 novembre 2007

Every man a King



Allora, Huey P. Long, si era detto.
Comincio da “Every man a King”.
Sentite un po': “Ev'ry man a King, ev'ry man a King/ For you can be a millionaire/ If there's something belonging to others/ There's enough for all people to share/ When it's sunny June and December too/ Or in the Winter time or Spring/ There'll be peace without end/ Ev'ry neighbor a friend/ And ev'ry man a King”. Parola di Huey P. Long detto Kingfish. E parole scritte di suo pugno: “ogni uomo (o, meglio, l'uomo qualunque?) può esser Re, ogni uomo/ Tu puoi essere milionario/ Per qualcosa che appartiene solo agli altri/ C'è abbastanza da spartire fra tutta la gente/ eccetera eccetera eccetera...”.
Era nato nel 1893. Riuscì a diventare Governatore della Lousiana, da Democratico, nel 1928, e rimase governatore fino al 1932. Nelle elezioni presidenziali di quell'anno sostenne Franklin D. Roosevelt e divenne senatore. Già nel giugno dell'anno successivo ruppe col presidente in carica: sembra gli fosse passato per la testa (non era tipo che si poneva limiti) di correre lui per la Presidenza degli Stati Uniti.
Uomo del popolo (con il popolo, per il popolo), astuto, energico, estremamente coriaceo e vendicativo , divenne in Louisiana immensamente popolare.
Nel 1934 si inventò lo SHARE OUR WEALTH PROGRAM - il cui motto era, appunto, “Every man a King” - che proponeva, in piena Grande Depressione, delle misure radicali per la redistribuzione della ricchezza: secondo Long era necessario tassare i grandi patrimoni per arginare la povertà e il crimine che erano stati originati dalla crisi economica del 1929. Ogni famiglia doveva avere "enough for a home, an automobile, a radio and the ordinary conveniences." Quando gli scettici misero in dubbio l'efficacia del suo piano sostenendo che nessun livello di tassazione avrebbe mai potuto finanziare le sue promesse, Huey P. Long replicò che i numeri non significavano nulla dato che lui stava semplicemente seguendo la legge del Signore.
Da governatore, mister Kingfish riuscì a realizzare un controllo pressoché totale sulla società della Louisiana. I suoi oppositori ebbero buon gioco, decisamente, ad accusarlo di tendenze dittatoriali. Long non si scomponeva. Nei suoi comizi, sudato, rosso in volto, con in mano una Bibbia, li chiamava insetti, pidocchi, vili calunniatori. E si autodefiniva 'l'uomo della verità'.
Richard D. White, jr., uno studioso americano specialista in storia delle pubbliche amministrazioni, nel suo libro “Kingfish. The reign of Huey P. Long” ha scritto che Long da Governatore della Louisiana “costruì strade e scuole, fornì libri ed aiutò i poveri molto più di quanto sembrava economicamente possibile fare. Quando decideva che qualcosa era importante, trovava un modo per renderla possibile”. Il punto è che cercava di realizzarla con ogni mezzo necessario. Insomma, senza star lì a perder tempo riflettendo più di tanto sui mezzi, sui fini, su ciò che è morale in politica e su ciò che non lo è. Ci siamo capiti, si? “Durante il suo regno – è ancora White a parlare – assunse un controllo completo, capillare, di uno stato americano, come mai è riuscito a qualsiasi politico, prima e dopo di lui”. Long padroneggiava ogni aspetto del governo dello Stato e usò "tutti i trucchi della politica per assumere lavoratori a carico del bilancio dello stato”, dalle segretarie negli uffici governativi agli stradini. Mentiva, ingannava, imbrogliava, non si faceva scrupolo alcuno ad usare la sua influenza politica sui giornalisti (e sulle testate...) che erano critici con lui, adoperava la polizia locale come una forza armata personale e arrivò persino a dichiarare la legge marziale in alcune città che non volevano piegarsi ai suoi desiderata. Com'era il titolo di quel magnifico libro di Gerhard Ritter, uno dei testi più importanti che siano stati scritti nel Novecento sull'essenza della politica e sul germe di violenza e prevaricazione che al potere è connaturato? “Il volto demoniaco del potere”? Ecco.
All'apice della sua popolarità, Long subì un attentato nell'ingresso del Campidoglio di Baton Rouge, l'otto settembre 1935. Morì due giorni dopo. Le sue ultime parole? “Dio, non farmi morire. Ci sono così tante cose che devo ancora fare”.

lunedì 12 novembre 2007

Nei panni di un bifolco



La prima volta che ascoltai Randy Newman cantare fu nel lontano 1983. Era appena uscito il suo “Trouble in Paradise”. Lo acquistai in vinile (credo che allora nemmeno sapessi cosa fosse un compact disc). Costava, mi ricordo, tra le 17.000 e le 18.000 lire.
Io ero davvero molto giovane e le canzoni di Randy Newman molto adult-oriented. Nel senso che non era roba per teenager.
Quel lp mi piacque davvero molto, in ogni caso. C'era l'epidermicità del singolo "I love L.A." a trascinare. E il duetto con Paul Simon in "The blues". E "My life is good", con Newman che immagina uno sganasciante passaggio di consegne (Bruce Springsteen gli dice “Rand, I'm tired. How would you like to be the Boss for awhile?”. E lui di rimando: “Well, yeah. Blow, Big Man, blow” e via cazzeggiando).
Ad amare veramente la musica (sublime) e le parole di Randy Newman ci sono però arrivato più tardi. Parecchio più tardi. Ero già all'università quando acquistai (in compact disc) “Little criminals”, un gioiello pubblicato nel 1977. Capii allora quanto era spiazzante, straniante e urticante la poetica di questo straordinario autore di canzoni. Bastarono le prime parole di "Short people", la canzone che inaugura “Little criminals”: “Quelli bassi di statura non c'è motivo che campino”. Perché loro, i piccoletti, possono solo avere “dirty little minds” e perciò io non ce li voglio mica, i tappi, intorno a me. Correttezza politica? Ovviamente sconosciuta.
E non capisci mai, con Randy Newman, se c'è o ci fa. E' un reazionario terrificante o ha solo deciso di vestire i panni, per lo spazio di una canzone, di un reazionario terrificante? Ma dove siamo? Ad un raduno del Ku Klux Klan? E a far che? A inorridire? Ad applaudire?
Prendete "Sail away", la canzone che da' il titolo al suo disco del '72: è una nave negriera quella che fa vela verso la baia di Charleston, dopo aver varcato “the mighty ocean”. E ti porterà in America, “little wog” (negretto...), dove non ci sono leoni o serpenti mamba, ma solo dolci angurie e torte da mangiare. Perciò salta a bordo (!): io ti prometto che sarai felice come una scimmia su un albero pieno di scimmie come te, perché è davvero una GRAN cosa essere americani. Beh? Come va?
Peccato che nessuna mia parola possa rendere la bellezza della musica. Tanto per darvi un'idea, in Randy Newman ci trovate il rag e Gershwin, Sinatra e Tin Pan Alley, l'old time music e il blues. Il tutto con orchestrazioni sopraffine. E, sempre, una poppeggiante, imperturbabile, cantabilità.
Ho scritto tutto ciò per introdurvi a "Rednecks", la canzone che inaugura “Good old boys”, 1974.
Rednecks, letteralmente “colli rossi” (per il sole): contadini del sud degli States (ma contadini in generale, dai...).
“Parliamo in un modo veramente divertente, da queste parti/ beviamo troppo e ridiamo troppo forte/ e siamo troppo fessi per farcela in qualunque città del Nord/ ma noi almeno i negri li facciamo stare al loro posto...”. Pronti per il ritornello? In coro: “We're Rednecks, We're Rednecks/ and... non distinguiamo un buco di culo da un buco per terra/ We're Rednecks, We're Rednecks/ e i negri li facciamo stare al loro posto”.
Ascoltando, ridi. Ridi e non capisci bene se Newman stia sfottendo a sangue un tragico burino sudista o se invece lo stia interpretando. Perché alla fine questo povero bifolco ignorante, significativamente rappresentato mentre fa su e giù per Atlanta con le sue belle scarpe di alligatore o si sfonda di birra ogni fine settimana ai barbecue, una sua perspicacia ce l'ha. Ad esempio quando osserva, en passant, che, sicuro, “il Nord ha liberato il negro” e il negro adesso è libero: "libero di essere messo in gabbia ad Harlem, New York City” e nel South-Side di Chicago (e pure nel West-Side...) e ad Hough, Cleveland e pure ad East St. Louis e a Roxbury, Boston. "He's free to be put in a cage...".
Notevole, nevvero? Immaginate ora le polemiche che Randy Newman è riuscito a scatenare nel corso della sua carriera...
“Good old boys” è un piccolo capolavoro. Un concept-album (come si dice) che ha per tema riti e miti del profondo Sud degli States. In appena dodici canzoni Newman riesce a dipingere un affresco magistrale. Divertentissimo, causticissimo e a tratti (ad esempio in “Louisiana 1927”) incredibilmente commovente.
In “Kingfish” viene evocata la figura di Huey P. Long, governatore della Louisiana dal 1928 al 1932 e senatore dal 1932 al 1935. E Newman coverizza anche “Every man a king”, canzonetta scritta proprio da Long. Ma di quel bel tipo di Long dirò... E al momento mi fermo qui.

domenica 11 novembre 2007

Topexan for K.M.



Quanto segue è tutto vero!




Il professor Sam Shuster, britannico, docente di dermatologia alla University of East Anglia, ha esaminato per mesi (se non per anni, chi lo sa) la corrispondenza di Karl Marx.
Shuster si è convinto che il Padre Fondatore soffrisse di idroadenite suppurativa, un disturbo che provoca l'infiammazione delle ghiandole delle ascelle e dell'inguine causando forte prurito e cronica acne sulla pelle.
Sul British Journal of Dermatology Shuster afferma: "Oltre a ridurre la sua capacità di lavoro, probabilmente tale condizione ridusse la sua autostima e ciò spiegherebbe il senso di alienazione che si riflette nelle sue opere".
Spiluccando qua e là tra le missive, numerosissime, dell'autore di Das Kapital, Shuster ne ha pescate alcune veramente significative.
Nel 1867 Marx scrisse a Friedrich Engels dei foruncoli “on my posterior and near the penis” (non traduco). E a Ludwig Kugelmann nel 1867: “I still have a carbuncle on the left loin not far from the centre of propagation, as well as numerous furuncles.” ("Ho ancora un carbonchio nella regione lombare sinistra, non lontano dal punto di diffusione, e numerosi foruncoli").
Marx venne curato con l'arsenico, con l'applicazione di impiastri e pomate e con incisioni dei terribili bubboni, ma i risultati furono scarsi. La sua unica consolazione, confidò una volta ad Engels, era che i foruncoli si configuravano come “a truly proletarian disease” (non traduco).
Tra le lettere rinvenute dal dottor Shuster ce n'è una, sempre del 1867, in cui Karl Marx così scriveva ad Engels: "La borghesia si ricorderà dei miei foruncoli fino al giorno della sua morte".

Sara è nata!

Dandi dice alle ore 00.35.



Ai genitori, A. e P., un trenino di auguri dal verro Napoleon e da sua moglie E.

mercoledì 7 novembre 2007

L'urne de' forti (il forte animo accendono)



Helzapoppin'!!!!!!!

Il compagno O., a Mosca, posa un mazzo di garofani rossi davanti al sarcofago di cristallo in cui si conserva la salma di Lenin.
Qualcuno (la sua spalla? Mi pare ovvio, essendo O. un comico) gli porge la battuta: "Lo sa che Putin non vuole più la mummia di Lenin sotto il Cremlino?". Replica O.: "Se i russi non la vogliono più, potremmo portarla a Roma".
Tra i colleghi di O. scoppia il finimondo. Una canea indescrivibile. Intervengono comici del calibro di Gasparri, Volonté, Calderoli. Con malcelata invidia nei confronti del talentuoso battutista, provano a misurarsi con la devastante vis comica - da subito apparsa inarrivabile ai numerosissimi aficionados di O. - di quello che sarà sicuramente ricordato, in futuro, come "il numero moscovita". E mal gliene incoglie. Altra classe, quella di O. E' il suo talento - ma come avrebbe potuto essere altrimenti - a vincere su tutta la linea e a convincere, mettendo come al solito d'accordo critica e pubblico: tempi perfetti, solito modo di porgere sornione e accattivante, capacità di provocare il riso usando sempre argomenti nient'affatto triviali .
Alla fine, però, il nostro ha ritenuto di dover stravincere : "E' come il fantasma che si aggira per l'Europa: la salma di Lenin fa ancora paura".

Si poteva concludere in modo migliore, secondo il vostro Tic. L'incredibile performance non meritava un finale così moscio. E questa non dev'essere stata solo una mia impressione se un altro comico della Compagnia O., Pino Sgobio (o Sgorbio. Fa lo stesso), che solitamente si presenta in scena come "il capogruppo del Pdci alla Camera", ha sentito il bisogno di buttar lì le seguenti parole: "A novant'anni dalla Rivoluzione d'ottobre, Lenin evidentemente fa ancora paura sia ai comunisti che agli anticomunisti. Tutto questo è la dimostrazione che il comunismo è ancora il futuro" (il riferimento "ai comunisti" va letto come risposta al comico Giordano, della Compagnia Rifondazione, meglio conosciuto come "il comunista" che, spinto evidentemente da un fortissimo desiderio di emulazione, aveva ritenuto anche lui di dover far irruzione in scena - in uno spettacolo NON suo - e di farlo nel seguente modo: "Ma così allearsi diventa difficile...". Uscita, spero ne conveniate, alquanto incomprensibile. Umorismo troppo avantgarde, per me).
Alla battuta di Sgorbio sul comunismo che è "ancora il futuro" io ho riso fragorosamente. Secondo me, dunque, "il capogruppo del Pdci alla Camera" è riuscito a salvare una giornata che aveva visto il capocomico di Sgorbio, il grandissimo O., offrire un pezzo di bravura davvero pirotecnico e poi scegliere, inopinatamente, un finale in tono minore.
Sono comunque grato assai a entrambi e voglio regalare loro (e dunque anche ai loro sceltissimi ammiratori) del materiale da utilizzare in qualche numero futuro. Materiale che a me pare davvero di prim'ordine.


Lancio di agenzia, martedì 6 novembre 2007:
"Quella che avrebbe dovuto essere semplice 'fiction', si e' trasformata in una manifestazione vera e propria per sensibilizzare i produttori a non sopprimere 'Vivere', la soap opera di Canale 5 che, dopo otto anni e quasi 2mila puntate, chiude i battenti con le ultime scene in onda a maggio. Ieri sera davanti al Liceo Volta di Como, per l'occasione trasformato in facciata del Municipio, erano in programma gli ultimi ciak in esterna. La scena prevedeva una fiaccolata di solidarieta' nei confronti del 'Sindaco' Alfio Gherardi interpretato da Fabio Mazzana. Da tutta la provincia sono arrivate decine di persone che non hanno voluto perdersi questi momenti. Poi proprio durante le riprese, senza alcun disturbo, alcune comparse hanno tirato fuori un lungo striscione con scritto 'Non chiudete Vivere'. Cosi' mentre altre comparse urlavano il loro "W il Sindaco", come da copione, i 'colleghi' raccoglievano la solidarieta' della gente abituata ormai a considerare gli attori e lo staff di quella che e' stata la prima soap made in Italy come fossero di famiglia. "E' stata l'ultima scena girata a Como nelle vesti di Sindaco - spiega Mazzana -. Ne faremo delle altre, ma negli studi di San Giuliano Canavese. E' stato molto bello vedere l'affetto della gente nei nostri confronti. Lasciare Como e' un doppio dolore: per tutti noi e per i telespettatori che ci hanno voluto bene sin dall'inizio, seguendoci passo dopo passo ma senza essere mai invadenti". Si e' anche saputo che un "noto avvocato di Como appassionato della soap" ha inviato una lettera a Confalonieri, Presidente Mediaset, per protestare contro la decisione di sopprimere Vivere".


Ecco, io immagino che il numero "il comunismo è ancora il futuro", potrà essere messo in scena, quando sarà, utilizzando queste straordinarie comparse. Non riesco ad immaginare nessuno che sia più adatto ad interpretare una scena come "l'attacco al Palazzo d'Inverno di Cologno Monzese" di questa gente così simpatica e generosa.


Questo qui è Sgorbio (gli dei ce lo conservino)

martedì 6 novembre 2007

Un appello



Questa mattina apro il giornale (la solita Repubblica) e vengo colto da capogiro e tremore leggendo la seguente dichiarazione della Senatrice Franca Rame, dell'Italia dei Valori. Franca Rame. Ci capiamo? Moglie di.
"Qui (la signora si riferisce al Senato della Repubblica, n.d.r.) è il frigorifero dei sentimenti. Sei solo un voto e hai due colori a disposizione. Nemmeno ti salutano, ti guardano, ti chiedono come stai, se sei viva o morta, se hai un'idea o un'altra. L'unica cosa che ti indicano è il pulsante: vota verde se c'è da dire sì, vota rosso se c'è da dire no. Ma io non sono un numero. Voglio tornare a casa mia, quando scendo in strada la gente mi saluta, mi sorride. Dopo la Finanziaria lascio".

Povera Franca Rame. Moglie di. Un'intera vita passata nella variopinta (ma variopinta è poco: meglio coloratissimissima!!!) sinistra italiana per finire in un'aula (sorda e) grigia con a disposizione solo una misera tavolozza a due colori.
Eppoi non solo la trattano come un numero, ma non la salutano nemmeno, le canaglie (chi? Boh? La signora Rame non lo dice. Lascia a noi il compito di immaginare. E allora io immagino che ci siano delle persone che sono nell'ombra, e altre nella luce - nella luce stanno, evidentemente, quelle che in strada salutano Franca Rame e le sorridono. "E noi vediamo quelli nella luce/ e quelli nell'ombra non li vediamo", per dirla con Bertolt Brecht).
Ma si può? Si può fare una cosa simile alla signora Franca Rame? Dico: FRANCA RAME. Moglie di.
Son mesi che la signora siede in quell'aula incolore e nessuno - nessuno! - che abbia pensato di organizzare qualcosa per rendere un po' meno penosa la sua condizione, per farla sentire meno sola. Che so? Un laboratorio teatrale. Pensateci: un laboratorio teatrale al Senato. Immaginate il grande contributo che la signora - che, lo ricordo, è moglie di - avrebbe potuto dare. Su, immaginate!
Ma il Presidente del Senato, Franco Marini, come ha potuto permettere che venissero perpetrate simili soperchierie ai danni di una moglie (di), una madre, una donna? E dire che mai come in questo momento fa figo essere Donna in Politica, in Italia (ma forse solo dalle parti del PD. La Rame, ahilei, si è imbarcata con Di Pietro...). Mala tempora currunt, povera signora Franca Rame.


Voglio rivolgere perciò un appello dal mio povero blog: SCONGELIAMO FRANCA RAME!

Liberiamo i suoi sentimenti dal frigorifero!


E ricordiamoci di salutarla e di sorriderle, quando la incrociamo per strada.

lunedì 5 novembre 2007

Janis e Leonard

I remember you well in the Chelsea Hotel

you were talking so brave and so sweet
giving me head on the unmade bed
while the limousines wait in the street.

Those were the reasons and that was New York
we were running for the money and the flesh
And that was called love for the workers in song
probably still is for those of them left.

Ah but you got away didn't you baby
you just turned your back on the crowd
You got away I never once heard you say
I need you, I don't need you
I need you, I don't need you
and all of that jiving around.

I remember you well in the Chelsea Hotel
you were famous your heart was a legend
You told me again you preferred handsome men
but for me you would make an exception.

And clenching your fist for the ones like us
who are oppressed by the figures of beauty
You fixed yourself you said: "Well, never mind
we are ugly but we have the music".

And then you got away didn't you baby
you just turned your back on the crowd
you got away I never once heard you say
I need you, I don't need you
I need you, I don't need you
and all of that jiving around.

I don't mean to suggest that I loved you the best
I can't keep track of each fallen robin
I remember you well in the Chelsea Hotel
that's all I don't think of you that often.



Mi ricordo bene di te, al Chelsea Hotel,
di come parlavi, così coraggiosa e dolce,
o mentre mi facevi un pompino sul letto sfatto,
con le limousine giù in strada ad aspettare.

Quelle erano le ragioni e quella era New York,
era per i soldi che correvamo, e per la carne.
E quello era ciò che i lavoratori della canzone chiamavano 'amore',
e probabilmente lo chiamano ancora così, quelli di loro che sono rimasti.

Ah ma tu te ne sei andata, vero piccola?
Hai semplicemente voltato le spalle alla folla.
Te ne sei andata, e non una sola volta che ti abbia sentito dire
"Ho bisogno di te, non ho bisogno di te,
Ho bisogno di te, non ho bisogno di te"
e stronzate simili.

Mi ricordo bene di te, al Chelsea Hotel, eri famosa,
il tuo cuore era una leggenda.
Continuavi a ripetermi che preferivi gli uomini belli
ma che per me avresti fatto un'eccezione.

E serrando il pugno rabbiosamente per quelli che, come noi,
sono oppressi dalle forme della bellezza,
ti bloccavi dicendo: "Bé, non importa,
noi siamo brutti ma abbiamo la musica!"

Ah ma tu te ne sei andata, vero piccola?
Hai semplicemente voltato le spalle alla folla,
te ne sei andata, e non una sola volta che ti abbia sentito dire
“Ho bisogno di te, non ho bisogno di te,
Ho bisogno di te, non ho bisogno di te"
e stronzate simili.

Non voglio far credere di averti amata perdutamente,
e non è che io possa tener conto di ogni pettirosso caduto.
Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel,
tutto qui, non ti penso neanche troppo spesso.




[Leonard Cohen, Chelsea Hotel #2]





Ieri mi è capitata una cosa.
Ve la faccio breve. In questi ultimi giorni stavo pensando di dedicare qualche riga ad una canzone che amo tantissimo, Chelsea Hotel #2 di Leonard Cohen.
Bene. Apro l'ultimo numero de IL MUCCHIO SELVAGGIO, 640, novembre 2007 e che ti trovo? Un articolo di Alberto Crespi su Chelsea Hotel #2. Telepatia? Mah... Mai conosciuto Crespi.
Confesso che ho mollato un bel paio di bestemmioni. Dato che qualcuno, dai e dai, comincia a visitarlo, questo blog verbosissimo e snob, non vorrei che si pensasse, perdiana, che l'ispirazione per quello che scrivo sia, come dire, un pochino indotta. Lo è, purtroppo, per i post ispirati dalla (deprimente realtà della) politica. Non è così per quello che faccio uscire su scrittori, poeti, pittori, film e canzoni. Giurin giurello.

E insomma, Chelsea Hotel #2.
Nelle note di copertina del suo Greatest Hits del 1975, Leonard Cohen scrisse che la canzone iniziò a scriverla al bancone del bar di un ristorante polinesiano a Miami, nel 1971, e la terminò ad Asmara, nel regno d'Etiopia, poco tempo prima che il Negus Neghesti venisse rovesciato da Menghistu. Annotò Cohen: “I wrote this for an American singer who died a while ago”.
La canzone fu registrata nel 1974 durante le sessions dell'album che Cohen pubblicò in quell'anno, New Skin for the Old Ceremony, ma venne presentata dal vivo già il 23 marzo del 1972, alla Royal Albert Hall, a Londra.

Ha un testo bellissimo. Parole che fanno male, che ti strappano il cuore, soprattutto quando, ascoltandole, si pensa a chi sono dedicate.
Cohen visse a lungo al Chelsea Hotel. Il posto gli piaceva. Una volta disse che era il genere di luogo nel quale, alle quattro del mattino, potevi portarti in camera un nano, un orso e quattro signore senza che ci fosse qualcuno che dicesse 'ba': perché non c'era proprio nessuno, lì intorno, a cui sarebbe importato qualcosa.
Stanley Bard, per anni direttore del Chelsea, qualche anno or sono ricordò che, tra la gente che visse nell'albergo nel corso dei tumultuosi anni Sessanta, Leonard Cohen era stata una delle poche persone sempre calme e tranquille. Almeno apparentemente. “But perhaps his restlessness was better hidden than that of the others” (saggiamente: “forse la sua irrequietudine era semplicemente meglio nascosta rispetto a quella di altri”). “Most of his time in New York in the Sixties – continua Bard - he was living at # 424”.
Janis Joplin – perché è lei la cantante americana di cui Cohen canta in Chelsea Hotel #2 – di solito alloggiava nella suite 411.
Nella canzone, immagini di New York alla fine dei Sessanta, immagini di una star il cui cuore era, in quel momento, una leggenda (trasparente allusione a Piece of my heart di Bert Berns di cui Janis aveva proposto una cover travolgente in Cheap Thrills), immagini di una persona oppressa dalle tante forme che la bellezza può assumere (“un brutto anatroccolo vestito da principessa”: così Chrissie Hynde) e che perciò si fa prendere talvolta dalla rabbia e poi fanculo, si scuote e dice, orgogliosa e dolce: “Well, never mind. We're ugly but we have the music” (Bé, non importa. Noi siamo brutti, ma abbiamo la musica). E su quel “well, never mind” a me è sempre parso che Cohen, cantando, avesse abbassato la voce fin quasi al sussurro per imitare la voce di Janis.
Leonard Cohen, proprio come la famosa cantante americana il cui cuore era una leggenda, in quegli anni mozzafiato correva come un pazzo per i soldi, e per la carne (non “ for the meat”, la carne del macellaio, ma “for the flesh”, i corpi, il sesso). Durante una di quelle corse si imbattè in lei. E finirono insieme per qualche giorno, solo per qualche giorno. Un amore al Chelsea Hotel.
Le ultime parole della canzone sono un anticlimax incredibilmente lapidario, dopo la dolcezza del ricordo. Ma non sono d'accordo con Alberto Crespi che sull'ultimo MUCCHIO ha parlato di “ricordo non del tutto gradevole”.
Cohen scrisse Chelsea Hotel #2 qualche mese dopo la morte di Janis. Voleva ricordare quel “pettirosso caduto” semplicemente, senza retorica. Perciò spense la sua canzone così, come si spegne la fiamma di una candela.
Era consapevole del fatto che stava cantando di una persona che sul palco faceva “l'amore con ventimila persone” e poi tornava sempre a casa da sola. Perciò non voleva far credere chissà cosa. Perché Janis non meritava menzogne o piccinerie.
In un'intervista rilasciata nel 1988 Leonard Cohen dichiarò che Chelsea Hotel #2 era “una riflessione accurata del processo emozionale. Scrivi una canzone che ti coinvolge emotivamente, giungi alla fine e ti rendi conto che non rappresenta tutta la tua vita, che non è la cosa più importante della tua esistenza, non è la donna dei tuoi sogni. Sono convinto che anche lei, Janis Joplin, la ragazza che ho incontrato al Chelsea Hotel e a cui è dedicato il brano, avrebbe apprezzato il modo in cui è finito, quegli ultimi versi”.

Quando si scrive qualcosa, il problema è sempre concludere.

E allora concludo ringraziando un grandissimo poeta. Ogni volta che ascolto la sua canzone mi ricordo del fatto che Janis Joplin è e sarà per sempre un pezzo del mio cuore.

domenica 4 novembre 2007

A rest stop for rare individuals

Una volta The New York Times Book Review scrisse che il Chelsea Hotel si poteva considerare “uno dei pochi luoghi civilizzati” della città che non dorme mai, “se per civiltà si intende la libertà dello spirito, la tolleranza delle diversità, la creatività e l'arte". Il motto dell'albergo suonava così: “A rest stop for rare individuals”. E la sua lapidaria perentorietà ci stava proprio tutta.
Scorrere l'elenco degli ospiti del Chelsea Hotel significa passare in rassegna un secolo di arte. E non solo di arte americana. Ci visse Mark Twain. O. Henry vi abitò per anni registrandosi, ogni notte, sotto nomi differenti. Edgar Lee Masters vi scrisse 18 libri di poesie. Si racconta che Sarah Bernardt, quando scendeva all'albergo, si portava appresso lenzuola e coperte di sua proprietà. Al Chelsea Arthur Miller, che vi abitò per circa sei anni, scrisse “After the fall”. Una volta disse che quel luogo non apparteneva all'America. “This hotel does not belong to America. There are no vacuum cleaners, no rules and shame...it's the high spot of the surreal. (...) I witnessed how a new time, the sixties, stumbled into the Chelsea with young, bloodshot eyes” (Non ci sono addetti alle pulizie sciocchi, non ci sono regole e imbarazzo... E' il punto più alto del surreale. (...) Io fui testimone di come una nuova epoca, gli anni Sessanta, con i suoi occhi giovani e arrossati, inciampò nel Chelsea)”.
Fu lì che William Burroughs scrisse «Il pasto nudo». Nell'albergo passarono Jackson Pollock, Brendan Behan, Harry Smith (che proprio al Chelsea Hotel cucì insieme le migliaia di nastri della sua incredibile «Anthology of American Folk Music», pubblicata nel 1952 dalla Folkways Records, libro di testo sapienziale per generazioni di musicisti americani, da Dylan a John Fahey passando per la Band, Ry Cooder, Jerry Garcia e centinaia di altri fino ai nostri giorni), le stelle della corte di Andy Warhol - Edie Sedgwick, Viva, Ultra Violet, Candy Darling – che furono immortalate dal padre della pop art nel film Chelsea Girls del 1966.




E ancora: Sartre con Simone de Beauvoir, Jack Kerouac, Tom Wolfe, Gore Vidal. All'ingresso dell'hotel una targa ricorda un altro dei suoi famosi inquilini: «Dylan Thomas visse e soffrì qui... e da qui salpò verso la morte». Nella stanza 205 buttò giù diciotto whisky, prima del coma.
A metà degli anni Settanta, Patti Smith e Robert Mapplethorpe vissero il loro amore impossibile tra le pareti di una delle stanze del Chelsea.
Nella numero 100 Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols, uccise la sua fidanzata Nancy Spungen. Una storia d'amore finita, ahi ahi ahi, malissimo, a differenza di quella che, negli anni Sessanta, unì per poche notti soltanto Leonard Cohen e Janis Joplin e alla quale il cantautore canadese dedicò Chelsea Hotel n. 2. E infine, parlando d' amore, c'è Bob Dylan (poteva mancare una citazione per il signor Zimmerman, nel blog del tic?) che sul letto della suite principale del Chelsea scrisse una delle sue più belle canzoni, Sad eyed lady of the Lowlands, dedicata alla sua prima moglie Sara Lowndes. Una cosa bella da togliere il fiato: occupa tutta l'ultima facciata di Blonde on blonde, il suo disco doppio del 1966. E non fu l'unica canzone ad essere composta al Chelsea: cito giusto Chelsea Morning di Joni Mitchell (che indirettamente ha dato il nome a Chelsea Clinton), Third Week in the Chelsea dei Jefferson Airplane, e Like a Drug I Never Did Before di Joey Ramone.
Un luogo mitico, insomma. E non solo a New York. Sul Chelsea Hotel, però, nel giugno scorso è calato il sipario. Fino a giugno, e per decenni, l'edificio era stato gestito dai membri della famiglia Bard. Pronti a far credito a tutti in cambio di un pizzico di creatività (a volte chiedevano, a chi non poteva pagare, un'opera d'arte prima della partenza). Stanley Bard, direttore per quasi quarant'anni, collezionava ogni libro che fosse stato scritto nell'albergo.
Adesso, i Bard sono stati messi da parte dal consiglio di amministrazione, che ha affidato il timone dell'hotel a un team reduce dalle ristrutturazioni di tre alberghi extralusso di Manhattan, il Chambers, il Maritime e il Bowery Hotel: alberghi di divi, modelle e stilisti.

Il Chelsea Hotel venne costruito nel 1883 con dodici piani di appartamenti per 40 famiglie (la prima coop di Manhattan) e rimase fino al 1902 l'edificio più alto di New York. Nel 1905 divenne un hotel per clienti a lungo termine, e da allora fu "una specie di Torre di Babele della creatività e delle cattive abitudini” che “alcuni dei cervelli più sballati e autodistruttivi del mondo, almeno una volta, hanno chiamato 'casa'". Così The International Herald Tribune.



Chissà se in futuro ci sarà ancora qualcuno che chiamerà 'casa' il Chelsea Hotel.