Amo il cinema di John Ford come poche cose al mondo.
Non solo perché Ford è uno dei grandi artisti del cinema. Ma anche perché i suoi film, i suoi personaggi, le sue visioni, la sua estetica, fanno parte del mio immaginario personale (appartengono al mio mondo) fin da quando ero bambino. Per questo devo ringraziare mio padre, grandissimo appassionato di film western e fan terminale di John Wayne. Penso di aver visto Sentieri selvaggi a sei anni, o giù di lì, grazie a lui.
Se qualcuno poi mi chiede qual è il mio film preferito, generalmente rispondo L'uomo che uccise Liberty Valance, uno straordinario film di Ford (un capolavoro assoluto, via...) sul crepuscolo del West e del mito della frontiera che riesce a commuovermi fino alle lacrime ogni volta che lo rivedo (e lo rivedo spesso. In dvd, ovviamente).
E insomma, ho deciso di pubblicare un bellissimo testo di Serge Daney sul cinema di Ford (anche se torna soprattutto a I cavalieri del Nord-Ovest - She wore a yellow ribbon, del 1949).
Daney (critico ai Cahiers du cinéma, poi redattore capo dal 1974 fino al 1981, quando lasciò la rivista per diventare il critico cinematografico dell'allora neonato quotidiano Libération; fondatore nell'inverno del 1991 del settimanale Trafic; morto di Aids nel giugno 1992) aveva un ideale molto alto della critica cinematografica perché amava e rispettava profondamente il cinema. In L'exercise a étè profitable, Monsieur scrisse: "La critica era necessaria quando, nella società, c'era un luogo dove la violenza, il senso, il bisogno di dire o di fare formavano come un nodo, un eccesso. Ma perde questa necessità a partire dal momento in cui il 'diritto alla creazione', come dicevano i comunisti, è aperto e riconosciuto a tutti. Il critico dava notizie di certi viaggiatori ad alto rischio personale. Tarkovskij, Godard, Cassavetes, Fassbinder, delle persone come loro, che erano dei viaggiatori. Il critico non serve a niente quando tutto questo è sostituito dall'autoprogrammazione turistica dell'individuo". Per Daney, il critico era uno che scriveva per prima cosa una lettera aperta all'autore, e questa lettera veniva poi letta dal pubblico eventuale di un film. La critica, per lui, rappresentava "l'interesse di chi 'fa' di fronte a quelli che non fanno. Può assomigliare a un avvocato". Altri critici, invece, "rappresentano gli interessi del pubblico di fronte a chi crea. Assomigliano piuttosto a dei giudici. (...) E' la guida del consumatore, a volte anche illuminata o che mima l'illuminazione, a volte anche insolente o che mima l'insolenza. Ma tutto questo porta velocemente al conformismo puro e semplice perché, per definizione, ogni pubblico, anche illuminato, anche adulto, vuole del consenso".
Viviamo in tempi di consumo (e sperpero) velocissimo di tutto.
Daney ci spiega perché il cinema di Ford richieda invece un occhio pronto, un occhio attento, un occhio non svogliato.
John Ford forever
Secondo un'idea tanto diffusa quanto discutibile, alla televisione il primo piano è re.
Se così fosse, l'uomo che un giorno gridò “Non voglio più vedere dei peli del naso su uno schermo di quindici metri!” non avrebbe alcuna speranza sul piccolo schermo. John Ford, in effetti, non amava molto i primi piani. Oppure, il che è lo stesso, i quadri da esposizione. Egli girava molto in fretta, e gli ci sono voluti solo ventotto giorni per realizzare She wore a yellow ribbon (e non La charge héroique, un titolo – quello francese – stupido e un grande controsenso). Era il 1949, ed egli era allora produttore di se stesso e faceva di testa sua. Quarantun'anni più tardi, il film passa perfettamente dal grande al piccolo schermo (TF1). Elementare dite? Non esattamente.
Gilles Deleuze ha ricordato una volta ai giovincelli della FEMIS che il loro lavoro di cineasti consisterebbe nel produrre dei “blocchi di durata-movimento”. Ora, se i "blocchi" di John Ford sono così perfetti, è perché essi rispettano la più elementare delle sezioni auree: non durano più del tempo necessario a un occhio esercitato per vedere tutto quello che essi racchiudono. Il tempo per vedere tutto quello che c'è da vedere, equivale alla buona durata e al buon movimento di un occhio tanto disciplinato nell'arte di guardare quanto un cavaliere fordiano lo è in quella di montare a cavallo.
Questo principio, così semplice, ha permesso a Ford di complicare, raffinare, e anche arzigogolare le cose dando sempre un senso di classicismo memorabile. Non è l'azione che dà le durate, è la percezione di uno spettatore ideale, di un esploratore che vedrebbe da lontano tutto ciò che c'è da vedere (ma nulla di più).
Un contemplativo rapido, ecco il paradosso Ford. E' impossibile guardare i suoi film con occhio obliquo, poiché in tal caso non si vede più nulla (se non delle storie di marmittoni sentimentali).
L'occhio dev'essere pronto perché, in una qualunque immagine di un film di Ford, si possono trovare alcuni decimi di secondo di contemplazione pura, prima che giunga l'azione. Si esce da una capanna o da un'inquadratura e ci sono delle nuvole rosse sopra un cimitero, un cavallo abbandonato nell'angolo destro dell'immagine, il brulichio blu della cavalleria, il viso sconvolto di due donne: sono delle cose che bisogna vedere subito all'inizio dell'inquadratura, perché non ci sarà una “seconda volta” (tanto peggio per gli occhi svogliati).
Ford è uno dei grandi artisti del cinema. Non solo grazie alla composizione delle sue inquadrature e delle sue luci, ma, più profondamente, perché egli gira così in fretta da fare due film per volta: uno per scongiurare il tempo (stiracchiando le storie, per paura di finire), e un altro per salvare l'istante (quello del paesaggio, due secondi prima dell'azione). E' lui che gode dello spettacolo per primo. E inoltre non si devono cercare nei suoi film dei personaggi che, davanti a un bel paesaggio, dicano:”Oh! Com'è bello!”. Non è compito del personaggio suggerire allo spettatore quello che deve vedere. Questo comportamento sarebbe immorale.
Tanto più che i personaggi hanno già abbastanza da fare nel ritardare l'età della pensione e la fine delle peripezie della storia.E' un tema che inizia ne I cavalieri del Nord-Ovest e che non cesserà di ritornare. I personaggi di Ford (militari compresi) non sono mai soltanto saltimbanchi al sevizio delle loro convinzioni, e queste inoltre tenderanno sempre meno a condurli verso terre promesse, anche se contribuiscono a disegnare la sagoma dei cavalieri sullo sfondo in technicolor di un cielo in fiamme o di un chiaro di luna. Questa immagine si trova, evidentemente, ne I cavalieri del Nord-Ovest. Questa sfilata-girotondo, che va da sinistra a destra, è collettiva, interminabile.
Ma c'è un altro movimento, più misterioso, che giunge dal fondo dell'inquadratura. E che sorge al centro dell'immagine sempre. Come se questo cineasta che aveva costruito tutto sul rifiuto del primo piano e del quadro da esposizione talvolta lasciasse qualcosa andare verso i suoi personaggi.
E' così che troviamo un primo piano ne I cavalieri del Nord-Ovest. Ci vediamo Nathan Brittles-John Wayne-Raymond Loyer che parla a sua moglie, morta da tempo, e sepolta lì a due passi, spiegandole che ha ancora sei giorni prima della pensione e che non ha ancora deciso nulla. Allora, sulla tomba, si disegna la sagoma di una donna. Si tratta, ovviamente, di una ragazza inoffensiva, ma per chi ha imparato a vedere Ford come va visto questo breve istante fa paura. E' il passato che ritorna la centro dell'immagine, senza preavviso, “alla Ford”. Inutile dire che quando l'immagine ha non soltanto dei contorni, ma un cuore, il piccolo schermo l'accoglie con tutti i riguardi che le sono dovuti.
Se così fosse, l'uomo che un giorno gridò “Non voglio più vedere dei peli del naso su uno schermo di quindici metri!” non avrebbe alcuna speranza sul piccolo schermo. John Ford, in effetti, non amava molto i primi piani. Oppure, il che è lo stesso, i quadri da esposizione. Egli girava molto in fretta, e gli ci sono voluti solo ventotto giorni per realizzare She wore a yellow ribbon (e non La charge héroique, un titolo – quello francese – stupido e un grande controsenso). Era il 1949, ed egli era allora produttore di se stesso e faceva di testa sua. Quarantun'anni più tardi, il film passa perfettamente dal grande al piccolo schermo (TF1). Elementare dite? Non esattamente.
Gilles Deleuze ha ricordato una volta ai giovincelli della FEMIS che il loro lavoro di cineasti consisterebbe nel produrre dei “blocchi di durata-movimento”. Ora, se i "blocchi" di John Ford sono così perfetti, è perché essi rispettano la più elementare delle sezioni auree: non durano più del tempo necessario a un occhio esercitato per vedere tutto quello che essi racchiudono. Il tempo per vedere tutto quello che c'è da vedere, equivale alla buona durata e al buon movimento di un occhio tanto disciplinato nell'arte di guardare quanto un cavaliere fordiano lo è in quella di montare a cavallo.
Questo principio, così semplice, ha permesso a Ford di complicare, raffinare, e anche arzigogolare le cose dando sempre un senso di classicismo memorabile. Non è l'azione che dà le durate, è la percezione di uno spettatore ideale, di un esploratore che vedrebbe da lontano tutto ciò che c'è da vedere (ma nulla di più).
Un contemplativo rapido, ecco il paradosso Ford. E' impossibile guardare i suoi film con occhio obliquo, poiché in tal caso non si vede più nulla (se non delle storie di marmittoni sentimentali).
L'occhio dev'essere pronto perché, in una qualunque immagine di un film di Ford, si possono trovare alcuni decimi di secondo di contemplazione pura, prima che giunga l'azione. Si esce da una capanna o da un'inquadratura e ci sono delle nuvole rosse sopra un cimitero, un cavallo abbandonato nell'angolo destro dell'immagine, il brulichio blu della cavalleria, il viso sconvolto di due donne: sono delle cose che bisogna vedere subito all'inizio dell'inquadratura, perché non ci sarà una “seconda volta” (tanto peggio per gli occhi svogliati).
Ford è uno dei grandi artisti del cinema. Non solo grazie alla composizione delle sue inquadrature e delle sue luci, ma, più profondamente, perché egli gira così in fretta da fare due film per volta: uno per scongiurare il tempo (stiracchiando le storie, per paura di finire), e un altro per salvare l'istante (quello del paesaggio, due secondi prima dell'azione). E' lui che gode dello spettacolo per primo. E inoltre non si devono cercare nei suoi film dei personaggi che, davanti a un bel paesaggio, dicano:”Oh! Com'è bello!”. Non è compito del personaggio suggerire allo spettatore quello che deve vedere. Questo comportamento sarebbe immorale.
Tanto più che i personaggi hanno già abbastanza da fare nel ritardare l'età della pensione e la fine delle peripezie della storia.E' un tema che inizia ne I cavalieri del Nord-Ovest e che non cesserà di ritornare. I personaggi di Ford (militari compresi) non sono mai soltanto saltimbanchi al sevizio delle loro convinzioni, e queste inoltre tenderanno sempre meno a condurli verso terre promesse, anche se contribuiscono a disegnare la sagoma dei cavalieri sullo sfondo in technicolor di un cielo in fiamme o di un chiaro di luna. Questa immagine si trova, evidentemente, ne I cavalieri del Nord-Ovest. Questa sfilata-girotondo, che va da sinistra a destra, è collettiva, interminabile.
Ma c'è un altro movimento, più misterioso, che giunge dal fondo dell'inquadratura. E che sorge al centro dell'immagine sempre. Come se questo cineasta che aveva costruito tutto sul rifiuto del primo piano e del quadro da esposizione talvolta lasciasse qualcosa andare verso i suoi personaggi.
E' così che troviamo un primo piano ne I cavalieri del Nord-Ovest. Ci vediamo Nathan Brittles-John Wayne-Raymond Loyer che parla a sua moglie, morta da tempo, e sepolta lì a due passi, spiegandole che ha ancora sei giorni prima della pensione e che non ha ancora deciso nulla. Allora, sulla tomba, si disegna la sagoma di una donna. Si tratta, ovviamente, di una ragazza inoffensiva, ma per chi ha imparato a vedere Ford come va visto questo breve istante fa paura. E' il passato che ritorna la centro dell'immagine, senza preavviso, “alla Ford”. Inutile dire che quando l'immagine ha non soltanto dei contorni, ma un cuore, il piccolo schermo l'accoglie con tutti i riguardi che le sono dovuti.
(tratto da: Devant la recrudescence des vols de sacs à main. Aléas 1991. Traduzione di Giulia Carluccio)
5 commenti:
Una volta, tanti anni fa, stavo per venire alle mani in un cineforum. Con uno che continuava a sminuire John Wayne, anche davanti a me che gli citavo (se non TUTTO "Sentieri Selvaggi")almeno il finale di "Cavalieri del Nord Ovest" (quando è commosso e, per leggere la dedica sul regalo fattogli dai soldati, deve mettersi gli occhiali ed è imbarazzatissimo).
Non toccatemi Ford: posso diventare violento. Come se mi toccate Stan Laurel o James Cagney, Dino Risi o Mario Bava, Blake Edwards o Brian De Palma, Kubrick o Kurosawa. O i fratelli Vanzina (con loro scherzavo) http://lucianoidefix.typepad.com/
Citato, l'episodio degli occhiali, da Berardi e Milazzo in 'Un uomo inutile', uno dei più begli episodi di KEN PARKER.
Ma su Parker scriverò a breve...
Ecco, appunto, l'amato corvo rosso... stavo giusto giusto per farti notare che questo cavallo di battaglia ancora non era uscito in grande spolvero.
Spero si farà cenno a "Il respiro e il sogno", uno dei miei must di tutti i tempio a "Diritto e rovescio". Lo ho tutti, come forse si sarà notato.
E per "Bianco Natale" di Tom's Bar, ti prego, un altro post ancora...
Tic, non ne posso più di te! Anche Ken Parker...
Io ho la serie originale completa e a suo tempo ne scrissi articoli elogiativi su vari giornali, nel disperato tentativo di aiutarlo ad avere il successo che strameritava.
http://lucianoidefix.typepad.com/
Quello che scriverò, ve lo dedicherò...
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