giovedì 31 luglio 2008
Parole celebri dalle mie parti (n.30)
L'amico del tiranno
Omero Ciai, su la Repubblica di oggi: ”Può un mostro sacro della letteratura contemporanea trascorrere un pomeriggio di tè e biscottini al capezzale di un dittatore senza che la cosa passi inosservata?”.
Eh, no: non può. Specie se il dittatore in questione va poi a spiattellarlo in giro...
Antonio Muñoz Molina (grandissimo scrittore di suo) ne ha parlato il 26 luglio su El País .
In questi termini: “Al tiranno ottantenne lo lusinga che vadano a trovarlo intellettuali, che poi racconteranno con ammirazione quanto egli è affezionato alla letteratura e quanto è ancora attento, lucido ed informato. Gli intellettuali che rendono omaggio al dittatore e lo chiamano affettuosamente “Fidel” vengono di solito da paesi democratici nei quali manifestano apertamente le loro critiche contro il potere, ma evidentemente perché tanta ribellione si trasformi in riverenza basta soltanto che quel potere sia assoluto. Essi coltivano una solidarietà totale, quasi eroica, ma solo con i carnefici, mai con le vittime, ed hanno un cuore di ghiaccio verso i perseguitati che non fanno parte della loro ortodossia”.
Limpido, vero?
Grazie di cuore ad Antonio Muñoz Molina.
martedì 29 luglio 2008
Parole celebri dalle mie parti (n.29)
Febbre da costi
Com'era prevedibile, la destra locale (Forza Italia più Lega, essendo AN passata a miglior vita) non si è fatta sfuggire l'occasione per, come direbbero i giornalisti veri? Insorgere? Ecco...
Secondo il coordinatore comunale di Forza Italia, Giuseppe N., spendere in cultura è uno spreco: casa, sicurezza (anzi, maiuscolo 'Sicurezza': come vuole lo zeitgeist), offerta sanitaria (sic), manutenzione delle strade, dovrebbero costituire le “pietre miliari” della strategia amministrativa dell'ente locale. Altro che buttar via soldi in cultura!
Per il maschio Alfa della Lega Nord de noantri, invece, la cultura “seriamente gestita” è importante. Peccato, quindi, che chi governa (chi ha governato?) la città di M. faccia del clientelismo: “A incidere veramente sui bilanci è la cultura quale bacino di voti elettorali. Eliminati questi approcci e iniziative discutibili sul piano qualitativo, il comparto ne guadagnerebbe in termini di livello delle programmazioni e delle attività culturali, ma anche sotto il profilo dell'equilibrio finanziario”. Ovviamente non si dice chi siano (siano stati?) i vituperatissimi clientes, gli amici degli amici. Non si fanno nomi, manco uno. Il boss leghista – solitamente assai facondo, ma per l'occasione alquanto sibillino - dice che sta ancora attendendo una risposta dal vecchio assessore alla Cultura del comune di M., dimessosi nell'ottobre scorso (che poi sarei io...), “circa il rendiconto delle spese in ordine alle manifestazioni culturali”. E termina in gloria, sfolgorante in soglio: “Finora si spendevano soldi anche per iniziative dubbie e poi si batteva cassa. Ma ora la musica è cambiata” (in effetti s'ode, in sottofondo, La cavalcata delle Walkirie).
Eh... E' dura.
La Destra della mia città non conosce (o forse non sa riconoscere) quella legge economica che si chiama “febbre da costi” e che vuole che nella sanità ed in alcuni particolari settori dove non sono possibili, per ragioni strutturali, grandi incrementi di produttività, i costi siano destinati nel tempo a crescere più del PIL e dell'inflazione.
E' stato William Baumol, un grande economista americano, ad aver parlato per primo della febbre da costi (che per questo motivo viene chiamata anche “malattia di Baumol”).
La scoperta di Baumol partì casualmente (come spesso accade, per le grandi scoperte. Colombo doveva saperne qualcosa. Sto parlando naturalmente di Cristoforo, non del tenente: lo dico per quei leghisti che, eventualmente, potrebbero trovarsi a leggere quello che scrivo), partì casualmente, dicevo, da un'analisi sui costi delle prestazioni artistiche dal vivo con la ovvia constatazione che un quartetto di Mozart della durata di mezz'ora, eseguito nel XVIII secolo, richiedeva un tempo di arpeggio assolutamente uguale a quello odierno: e tutto ciò senza che si sia verificato neppure un minimo incremento di produttività mentre, in quasi tutti i settori, questa nel frattempo è cresciuta in maniera esponenziale.
D'altro canto, però, i salari degli orchestrali hanno seguito quelli del resto dell'economia e possono essere corrisposti se e solo se la società accetta di finanziare i concerti con un'aliquota della produttività accumulata in altri settori.
Questo stesso paradigma l'ingegnoso signor Baumol l'ha poi applicato a tutti quei settori dove il lavoro si identifica con la prestazione stessa e non può che parzialmente essere sostituito da macchine: in particolare, reggetevi forte, la sanità, la scuola, i servizi alla persona, il restauro. Tutte cose che dovrebbero (mi vien da ridere...) esser care alla Sinistra (vabbé: a quello che ne rimane, dai...)
Nella sanità, ad esempio, il progresso tecnico è volto NON a sostituire il lavoro, ma a supportarlo meglio (affinché possano essere conseguiti risultati terapeutici sempre più soddisfacenti, ça va sans dire) e implica per forza di cose un aumento dei costi del servizio (eh, già: un aumento dei costi. Pensate un po' che orrore) dovuto alla continua ricerca di tecniche di avanguardia e all'introduzione di nuove possibilità di cura.
Occorre, quindi, che la società sia disposta a riproporzionare la spesa collettiva a favore dei servizi sanitari.
Certo, non bisogna rinunciare a combattere sprechi ed inefficienza, ma rifiutarsi di seguire la Destra lungo la via del progressivo smantellamento della sanità pubblica, questo sì, questo bisogna farlo.
Però - ahi, ahi, ahi - si dà il caso che il Centrosinistra, in questo povero Paese, chissà perché, insegua spesso e volentieri la Destra in quelli che sono i suoi territori di caccia. E' avvenuto di recente anche nella città (città si fa per dire) di M., con la ormai leggendaria Questione Sicurezza. Si spera non avvenga ora con la Cultura, in nome delle altrettanto leggendarie compatibilità di bilancio.
Bisognerebbe rispondere qualcosa, a 'sti signori, in effetti: magari non tanto a Forza Italia, che dei servizi culturali farebbe a meno volentieri - questa cosa, in ogni caso, l'ho sentita dire di recente, nel corso di una riunione di partito, pure allo stravagante Presidente della nostra provincia, uno del Centrosinistra (oddio! Sto male, sto male, per il tanto ridere!), uno del PD: “Con l'aria che tira adesso cosa vuoi tagliare? La cultura, no?”. Anzi, non l'ha detto: l'ha asserito. Come al solito - magari non tanto a Forza Italia, dicevo, ma alla Lega sì.
Una cosa semplice. Che so?
Certi servizi non saranno MAI in equilibrio finanziario, perciò basta demagogia, basta cazzate. Basta, vero?
lunedì 28 luglio 2008
sabato 26 luglio 2008
Cinquant'anni ad oggi
La scena di Dante Cruciani/Totò che fa lezione sul tetto potrei ripetervela dialogo per dialogo, parola per parola e non sfidatemi, non vi venga in mente di scommettere con me...
Ma poi tutto, dai: tutto quanto.
Peppe er Pantera (Vittorio Gassman nel suo primo ruolo comico, un'invenzione di Mario Monicelli e degli sceneggiatori Age, Scarpelli e Suso Cecchi D'Amico) che, come dicono a Roma, zagagliava, e aveva in mente un colpo sc-sc-sc-scientifico.
E Capannelle: “Dimmi un po' ragassuòlo, tu conosci un certo Mario che abita qua intorno?”
Mario era Renato Salvatori e aveva tre mamme, il fortunato, mica una.
Capannelle si chiamava Carlo Pisacane: un bravissimo attore napoletano. A me sembra di morire ogni volta che, ad un certo punto, er Pantera prende le misure, con uno sguardo assai eloquente, ai suoi poveri abiti raffazzonati e gli dice: “Ma per forza in giro così devi andare?”, Capannelle risponde, tutto orgoglioso: “Sportivo!” e quell'altro, tra lo sconsolato e l'incazzato: “Ma quale sportivo, stai in divisa da ladro...”.
Ferribotte, poi (Tiberio Murgia, da Oristano, attore per caso e per botta di culo), l'atroce fratello della povera Carmela: “Componiti, Carmela!”. “Composta sono”.
E infine Tiberio (Marcello Mastroianni), Tiberio che ci mette l'epigrafe :“Rubare è un mestiere impegnativo. Ci vuole gente seria, mica come voi. Voi al massimo potete andare a lavorare”.
Martedì scorso la Repubblica ha dato la parola a Furio Scarpelli, 89 anni, in una pagina davvero bellissima a firma Paolo D'Agostini. L'intervistato, raccontando come nacque I soliti ignoti, riesce pure a spiegare perché il cinema italiano, da grandissimo che era, è diventato una robetta.
Prendete nota.
E quella volta ci si era innamorati giustamente di un Gassman che, da attore di alta tradizione, si potesse camuffare da romano che parodiava gli eroi dei film americani. Questo era un rischio, ma quello che oggi si chiama rischio all'epoca era stimolante. Si diceva semplicemente: oh, famo 'sta cosa perché non è stata fatta. Lo spirito anche della produzione era: se lo spettatore qualche cosa non la sa, meglio, gliela diciamo noi. Ora avviene il contrario: ma 'sta cosa lo spettatore non la conosce, quindi è inutile che gliela diciamo. Monicelli vide in una trattoria un tale che aveva sempre le palpebre a mezz'asta, era Tiberio Murgia, e l'ha fatto diventare attore. Ora gli attori non sono più in grado di camuffarsi da personaggi diversi da quello che sono. Adesso fanno il giovanotto per sempre, pure a 50 anni.
venerdì 25 luglio 2008
mercoledì 23 luglio 2008
Questo stava scritto su un muro, a Genova
Ultime notizie dal paesello
Parole celebri dalle mie parti (n.28)
martedì 22 luglio 2008
Faccio le pulci a uno
La riporto nella sua interezza.
Ora, è vero che Daniel Woodrell è un grande scrittore.
Ed è vero che in Italia non ha ancora avuto il successo che merita.
Non è vero, però, che Ang Lee ha tratto Cavalcando con il Diavolo da Il bel cavaliere se n'è andato.
Posso testimoniarlo in quanto Il bel cavaliere se n'è andato (The Death of Sweet Mister) me lo sono letto. E' stato pubblicato da Bompiani, nel 2001.
Cavalcando con il Diavolo è tratto da Woe to live on, il primo romanzo di Daniel Woodrell ad uscire da noi, nel 2000, per la casa editrice Le Vespe (con lo stesso titolo del lavoro del regista taiwanese, che è del 1999).
Di recente (sabato 12 luglio) la Repubblica, sull'Almanacco dei Libri, ha ospitato una bella intervista di Silvana Mazzocchi a Woodrell. Utilissima ad inquadrare un autore di cultura raffinatissima (“In tutti i miei romanzi ho sempre cercato di raccontare come se io stesso fossi quei personaggi, per portare, nella mia prosa, la sensibilità della gente rude che la popola. Io cerco il “verismo” (usa la parola italiana, ndr), il verismo del vostro Giovanni Verga, un autore meraviglioso che descrive il mondo contadino come fosse dentro le vite dei suoi protagonisti. Non osservandoli da sopra un piedistallo, ma sentendo battere i loro cuori e odorando il loro respiro. Io scrivo di delinquenti, di poveracci perduti e soli, di potenziali eroi vinti dalle terribili circostanze della vita”) e di fortissimo senso morale (“Intanto diciamo che mi sento in dovere di raccontare personaggi che, altrimenti, sarebbero del tutto ignorati dalla letteratura americana. Persone per cui la droga e l'alcol sono fondamentali per tirare avanti. Le zone tipo quella dove tuttora io vivo con mia moglie Katie Estill, anche lei scrittrice, sono piene di gente così. E io non ho voluto trasferirmi altrove, proprio per rimanere dove stanno i miei personaggi”. E a me, a questo punto, è venuto in mente ciò che una volta disse il mio amatissimo Graham Greene, e cioè che “il ruolo dello scrittore è quello di suscitare nel lettore simpatia verso quegli esseri che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia”).
Ho appena acquistato Uno strano destino (Tomato Red, 1998): ma, vedete, mica perché me l'ha consigliato il signor Serino... Semplicemente perché amo molto le storie delle Ozark Mountains raccontate da Daniel Woodrell.
Detto ciò, visto che son tornato su Serino, ci resto: uno che scrive su Repubblica (e mica solo su Repubblica...) e che si presenta, pensate un po', come “critico letterario” (lo stesso mestiere che faceva un Pietro Pancrazi, per dire...) non dovrebbe proprio, eh no, parlare di capolavori che non ha letto. E' malcostume.
Dice: ma può capitare, una svista... O magari (e questo è un classico) nell'impaginazione della breve è saltata una riga...
Può capitare? E' saltata una riga?
Sia.
E spiego perché. Nel numero 471 del Mucchio Selvaggio, sei anni e qualche spicciolo fa, il “critico letterario” in questione recensì Olocausto americano di David E. Stannard, un libro di storia - edito da Bollati Boringhieri - il cui tema era la distruzione delle culture native nelle Americhe ad opera dei conquistatori europei .
Bene. Nell'occasione, Serino parlò dell'”America che oggi piange i martiri inamidati delle Twin Towers” e consigliò caldamente la lettura di Olocausto americano.
No, dico... Avete notato la finezza di quel "martiri inamidati"? E dei "moderni indiani" che ne pensate?
Bellissima poi quella sull'America, definita "errore di navigazione" nelle pagine di una rivista che ha costruito le sue fortune (piccole, per carità. Purtroppo...) sul veicolare, tra le altre cose, la miglior cultura americana nel nostro povero Paese, tra musica, cinema, letteratura e fumetto. E gliel'hanno pure fatta passare, ostia!
Un mito, Gian Paolo Serino.
Chissà se si è mai pentito, il “critico letterario”, per aver firmato certe (miserabili) stronzate... Per quanto mi riguarda, comunque, quella volta il nostro (vabbè, dai... Si fa per dire) riuscì in ogni caso a farmi capire di aver avuto un'infanzia veramente molto difficile.
E adesso me lo ritrovo che scrive cose inesatte su Repubblica. E sul grande Daniel Woodrell, per di più, scrittore nato e vissuto in un Paese che è solo, direbbe Serino, “un errore di navigazione”. O tempora...
(nella foto, il "critico letterario" Gian Paolo Serino ritratto in mezzo a pile di libri che forse ha letto, ma forse anche no)
lunedì 21 luglio 2008
Incontro al vertice
All'incontro, definito “molto cordiale” da entrambe le parti, erano presenti il signor Armando, maestro e amico della cagnetta a pois, e la moglie del professor tic, signora E.
I due importanti character hanno espresso la comune volontà di perseguire la strada del surreale in un clima di reciproca collaborazione, anche alla luce dell'attuale tendenza al cazzeggio del professor tic di cui talkischeap costituisce una sorta di manifesto in continuo sviluppo.
giovedì 17 luglio 2008
Con quella faccia un po' così...
La notte perfetta per andare in Cina
Ad esempio, avrei tanto voluto raccontarvi di The Amalgamation Polka di Stephen Wright
(uno straordinario romanzo storico: epico e visionario, sentimentale e violento. In una parola sola, americanissimo) o, per dire, di Storia di un'archivista, di Travis Holland e di Fuori i secondi, dello scrittore argentino Martin Kohan: tutta ottima letteratura davvero. Avrei voluto perché quando mi capita una cosa bella a me piace poterla condividere con qualcun altro.
Ma non l'ho fatto: un po' per pigrizia, un po' perché quando avrei dovuto farlo avevo altro da scrivere, magari qualche cazzata sul Partito Democratico o sulla leggendaria Sinistra Arcobaleno (anzi, la Sinistra, l'Arcobaleno), e voi capirete...
Insomma.
Ieri ho finito di leggere La notte perfetta per andare in Cina di David Gilmour, uno scrittore canadese che si chiama proprio come il chitarrista dei Pink Floyd.
E' la storia di una perdita sconvolgente (il figlio di Roman, un conduttore televisivo di successo, scompare nel nulla in una sera d'inverno, quando il padre lo lascia da solo in casa per andare a farsi un paio di birre in un bar), di un senso di colpa annichilente (“Ovunque guardassi non vedevo che disprezzo. Lo leggevo sui volti degli investigatori quando si presentavano alla porta; lo vedevo nei vicini di casa; lo coglievo in M. quando credeva che io non la guardassi; eppure non protestavo. Pensavo ancora, ne voglio ancora.”) e di un crollo emotivo inesorabile, raccontata senza alcun patetismo e con uno stile (benissimo reso dalla traduzione di Valeria Raimondi) fluido, essenziale, elegantissimo. Sul serio: l'impressione che questo breve romanzo lascia è quella di una grazia narrativa prodigiosa. La voce di Roman, i suoi pensieri, i suoi sogni, i suoi dialoghi con il mondo dei morti si alternano nelle pagine con repentini cambi di marcia, la sua tragedia personale si fa nausea (“Santo cielo, che giornata infinita era stata quella, ed erano solo le due e mezza del pomeriggio. Quanti giorni come questo davanti a me. Giorni e giorni e giorni e giorni e giorni, uno dopo l'altro, che avanzavano ruzzolando come acrobati del circo, diversi fra loro, ma in maniera irrilevante, questo con le braccia lunghe, quell'altro con uno strappo nella manica. Una capriola dopo l'altra e dopo l'altra ancora. Nauseante.”), il suo dolore visione e poi, da ultimo, viaggio, in una notte caraibica davvero perfetta per andare in Cina.
Se n'è parlato poco, di questo romanzo bellissimo in cui ogni parola, ogni frase, sembra essere necessaria, come se fosse stata pesata più e più volte dall'autore (“Desidero ringraziare il mio nuovo editor Patrick Crean per avere comperato il libro e poi avermi convinto a buttarlo via e a riscriverlo”). E chissà perché, con tutte quelle miserie di stagione che, giusto dietro l'angolo, riescono infallibilmente a trovare il loro recensore...
David Gilmour è nato a London, nell'Ontario, cinquantanove anni fa. E' stato critico cinematografico, giornalista televisivo e ha diretto per quattro anni il Toronto Film Festival.
A perfect night to go to China è il suo sesto romanzo.
mercoledì 16 luglio 2008
Give the people what they want!
Per chi non lo sapesse, desipiente significa sciocco, ignorante, vuoto.
Poi, paragonando la tv pubblica a quella commerciale, ha parlato di differenze ormai “evanescenti” e di “un'omologazione al ribasso che sbiadisce la missione del servizio pubblico e colloca la nostra televisione al di sotto di altre televisioni europee”.
Per esemplificare, se l'è presa con quelle trasmissioni televisive che improvvisano processi per direttissima ai fatti di sangue. Secondo Calabrò, pure i notiziari della Rai sono ormai invasi dalla cronaca spicciola e si producono in “smodate intrusioni nella vita privata delle persone”. Grand Guignol e voyeurismo a carrettate, insomma.
E adesso leggete un po' come han cantato queste due belle gallinone del pollaio di Silvio nostro (che da qualche parte ci sia un bell'ovetto?) in seguito alle osservazioni del Garante.
Enrico Mentana, direttore editoriale Mediaset.
Il direttore di Studio aperto Giorgio Mulè, che con coccodè fa pure rima.
E vabbè, andiamo... Ma dove? Co-co-coccodè.
Intanto pare che la spesa culturale media di una famiglia italiana, a parità di reddito, sia la metà di quella di una famiglia inglese.
Come dite? Che con quello che han detto Mentana e Mulè questo non c'entra niente?
C'entra, c'entra... Lasciatevi servire.
Coccodè, coccodè.
martedì 15 luglio 2008
Parole celebri dalle mie parti (n.27)
C'era un sacco di bella gente! D'Alema, Veltroni, Casini, Cicchitto, Di Pietro, Amato, Calderoli, Rutelli, Franceschini, Pezzotta, Cesare Salvi e tanti, tantissimi altri: mamma mia, che scialo di intelligenze! Davvero non ci si crede che la politica, in un Paese piccolino come il nostro, abbia a disposizione tutto 'sto po' po' di firmamento di neuroni.
E al Residence di Ripetta, in Roma, sapete cosa? E' andato in scena - come direbbero i giornalisti veri? - l'ennesimo duello tra Walter Veltroni e Massimo D'Alema.
D'Alema vuole una legge elettorale alla tedesca?
Uno che Goffredo De Marchis di Repubblica definisce “pasdaran veltroniano”, tale Salvatore Vassallo, ha ricordato a D'Alema i bei tempi in cui l'ex ministro degli Esteri era un fervente sostenitore del sistema francese, presidenziale e a doppio turno, cioè qualcosa di molto distante dal metodo proporzionale in vigore a Berlino.
D'Alema pare abbia confidato a Cesare Salvi: “Ci potevo pensare prima sul sistema tedesco? Beh, le esperienze vanno fatte e questo è il bilancio di quindici anni: un disastro”.
L'editorialista di Repubblica Massimo Giannini oggi sottolinea: “La malattia del Pd è stata certificata, ancora una volta, dalle visioni politiche radicalmente opposte e apparentemente inconciliabili di Veltroni e D'Alema”. Veltroni vuole un sistema elettorale ancorato al maggioritario, D'Alema al proporzionale. Veltroni “resta fedele all'ideale di un bipartitismo imperfetto, nel quale il sistema francese esalta la vocazione maggioritaria del Pd, lo consolida nella sua autosufficienza riformista, e lo salva per sempre dall'abbraccio con la sinistra massimalista. D'Alema resta affezionato all'idea che questo bipolarismo non funzioni, e vede nell'introduzione del sistema tedesco il possibile passepartout per riaprire al Pd la porta delle alleanze, ricucendo i vecchi rapporti con le sinistre antagoniste (da Bertinotti ai Verdi) e soprattutto saldando un nuovo asse con il centro cattolico (da Casini a Pezzotta)".
E' impietoso, Giannini, con i duellanti: “Ma anche sul tema dei rapporti con il centrodestra la dissonanza è sconcertante. Prima delle elezioni Veltroni sedeva al tavolo con Berlusconi, e D'Alema dietro alle quinte inorridiva di fronte ai primi vagiti di un improbabile «Veltrusconi». Oggi i ruoli si sono invertiti. D'Alema cerca di non rompere l'esile filo del confronto con la maggioranza (anche a costo di farsi dare dell'inciucista e di non criminalizzare a priori l'ipotesi di una «grande coalizione») mentre è Veltroni a dire no grazie, con questo premier non si può”.
Bah... Essendo uomo di mondo, tic invita a considerare che...
lunedì 14 luglio 2008
Toh! Una fiction religiosa!
sabato 12 luglio 2008
Tanto peggio per gli occhi svogliati
Amo il cinema di John Ford come poche cose al mondo.
Se così fosse, l'uomo che un giorno gridò “Non voglio più vedere dei peli del naso su uno schermo di quindici metri!” non avrebbe alcuna speranza sul piccolo schermo. John Ford, in effetti, non amava molto i primi piani. Oppure, il che è lo stesso, i quadri da esposizione. Egli girava molto in fretta, e gli ci sono voluti solo ventotto giorni per realizzare She wore a yellow ribbon (e non La charge héroique, un titolo – quello francese – stupido e un grande controsenso). Era il 1949, ed egli era allora produttore di se stesso e faceva di testa sua. Quarantun'anni più tardi, il film passa perfettamente dal grande al piccolo schermo (TF1). Elementare dite? Non esattamente.
Gilles Deleuze ha ricordato una volta ai giovincelli della FEMIS che il loro lavoro di cineasti consisterebbe nel produrre dei “blocchi di durata-movimento”. Ora, se i "blocchi" di John Ford sono così perfetti, è perché essi rispettano la più elementare delle sezioni auree: non durano più del tempo necessario a un occhio esercitato per vedere tutto quello che essi racchiudono. Il tempo per vedere tutto quello che c'è da vedere, equivale alla buona durata e al buon movimento di un occhio tanto disciplinato nell'arte di guardare quanto un cavaliere fordiano lo è in quella di montare a cavallo.
Questo principio, così semplice, ha permesso a Ford di complicare, raffinare, e anche arzigogolare le cose dando sempre un senso di classicismo memorabile. Non è l'azione che dà le durate, è la percezione di uno spettatore ideale, di un esploratore che vedrebbe da lontano tutto ciò che c'è da vedere (ma nulla di più).
Un contemplativo rapido, ecco il paradosso Ford. E' impossibile guardare i suoi film con occhio obliquo, poiché in tal caso non si vede più nulla (se non delle storie di marmittoni sentimentali).
L'occhio dev'essere pronto perché, in una qualunque immagine di un film di Ford, si possono trovare alcuni decimi di secondo di contemplazione pura, prima che giunga l'azione. Si esce da una capanna o da un'inquadratura e ci sono delle nuvole rosse sopra un cimitero, un cavallo abbandonato nell'angolo destro dell'immagine, il brulichio blu della cavalleria, il viso sconvolto di due donne: sono delle cose che bisogna vedere subito all'inizio dell'inquadratura, perché non ci sarà una “seconda volta” (tanto peggio per gli occhi svogliati).
Ford è uno dei grandi artisti del cinema. Non solo grazie alla composizione delle sue inquadrature e delle sue luci, ma, più profondamente, perché egli gira così in fretta da fare due film per volta: uno per scongiurare il tempo (stiracchiando le storie, per paura di finire), e un altro per salvare l'istante (quello del paesaggio, due secondi prima dell'azione). E' lui che gode dello spettacolo per primo. E inoltre non si devono cercare nei suoi film dei personaggi che, davanti a un bel paesaggio, dicano:”Oh! Com'è bello!”. Non è compito del personaggio suggerire allo spettatore quello che deve vedere. Questo comportamento sarebbe immorale.
Tanto più che i personaggi hanno già abbastanza da fare nel ritardare l'età della pensione e la fine delle peripezie della storia.E' un tema che inizia ne I cavalieri del Nord-Ovest e che non cesserà di ritornare. I personaggi di Ford (militari compresi) non sono mai soltanto saltimbanchi al sevizio delle loro convinzioni, e queste inoltre tenderanno sempre meno a condurli verso terre promesse, anche se contribuiscono a disegnare la sagoma dei cavalieri sullo sfondo in technicolor di un cielo in fiamme o di un chiaro di luna. Questa immagine si trova, evidentemente, ne I cavalieri del Nord-Ovest. Questa sfilata-girotondo, che va da sinistra a destra, è collettiva, interminabile.
Ma c'è un altro movimento, più misterioso, che giunge dal fondo dell'inquadratura. E che sorge al centro dell'immagine sempre. Come se questo cineasta che aveva costruito tutto sul rifiuto del primo piano e del quadro da esposizione talvolta lasciasse qualcosa andare verso i suoi personaggi.
E' così che troviamo un primo piano ne I cavalieri del Nord-Ovest. Ci vediamo Nathan Brittles-John Wayne-Raymond Loyer che parla a sua moglie, morta da tempo, e sepolta lì a due passi, spiegandole che ha ancora sei giorni prima della pensione e che non ha ancora deciso nulla. Allora, sulla tomba, si disegna la sagoma di una donna. Si tratta, ovviamente, di una ragazza inoffensiva, ma per chi ha imparato a vedere Ford come va visto questo breve istante fa paura. E' il passato che ritorna la centro dell'immagine, senza preavviso, “alla Ford”. Inutile dire che quando l'immagine ha non soltanto dei contorni, ma un cuore, il piccolo schermo l'accoglie con tutti i riguardi che le sono dovuti.
giovedì 10 luglio 2008
Parole celebri dalle mie parti (n.26)
mercoledì 9 luglio 2008
Errata corrige: è QUESTA, la migliore del mese
E il Bokassa del Viagra non ne usciva mica tanto bene. Eh, no.
Giudicate voi: “Il premier italiano Silvio Berlusconi è stato uno dei più controversi leader nella storia di un paese conosciuto per la corruzione e i vizi dei suoi governi (...) un uomo d'affari con massicce proprietà e grande influenza nei media, che è considerato da molti un dilettante in politica e ha conquistato la sua importante carica solo grazie alla sua notevole influenza sui mezzi di comunicazione italiani”.
Tutto ciò ha creato un caso diplomatico, sapete? Risolto con una nota di scuse a Berlusconi e all'Italia.
La Casa Bianca innanzitutto ha spiegato di aver preso la biografia su Internet, dall'Encyclopedia of World Biography.
Poi uno dei portavoce di Bush ha diffuso una lettera formale in cui la presidenza americana si scusa per “il linguaggio insultante nei confronti del premier Berlusconi e del popolo italiano”: i sentimenti espressi nella biografia “non rappresentano le vedute del presidente Bush, del governo americano e degli americani. Ci scusiamo con l'Italia e con il primo ministro per questo errore davvero sfortunato. Bush ha per Berlusconi e per gli italiani la più grande stima”.
Bene. Io trovo sia effettivamente una vergogna che l'Italia sia stata definita “un paese conosciuto per la corruzione e i vizi dei suoi governi”. Ma come è stato possibile? Ma chi gliel'ha passata, 'sta bufala?
E pure Silvio nostro, dai: trattato così... La maggioranza dei miei connazionali l'ha votato, no? Saran mica tutti coglioni o stronzi? Del tutto inaccettabile, perdiana!
Com'era quella? Right or wrong, my country, nevvero?
E per fortuna che nella biografia taroccata del toro (torello...) da monta più amato dalle italiche genti non compariva la storia del pranzo di nozze del figlio di Recep Tayyip Erdogan, il premier turco. Per fortuna, perché sennò ci sarebbe stato veramente da incazzarsi di brutto, con 'sti americani.
Beh, ve lo dico io: sarà pure verosimile, questa storia (Silvio nostro, si sa, è di indole giocosa), ma è apocrifa, capito?
Berlusconi è uno che ormai pensa e agisce sempre da statista, e uno statista certe cose, beh, non se le può proprio concedere.