Sa cosa dicono, signor Angel? Che nel mondo non c'e' sufficiente religione per far si' che gli uomini si amino, ma abbastanza per far si' che si odino.
domenica 31 maggio 2009
Angel Heart (di Alan Parker)
Sa cosa dicono, signor Angel? Che nel mondo non c'e' sufficiente religione per far si' che gli uomini si amino, ma abbastanza per far si' che si odino.
sabato 30 maggio 2009
Come tutti gli altri
Il primo: “Caro Serra, eccetera eccetera... Leggo che in una fabbrica del Veneto un consiglio di fabbrica si è accordato con il datore di lavoro (sa Dio per quale piatto di lenticchie) per il licenziamento, in caso di difficoltà legata alla crisi in atto, prioritariamente dei lavoratori stranieri. (...) Sono portato a credere ad una almeno delle balle della destra di governo: molti operai credono e votano per essa”.
Il secondo: “Caro Michele Serra, dopo il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, scopriamo un nuovo epigono di Karl Marx: il vicepresidente della Confindustria Alberto Bombassei! Questi, durante la trasmissione Annozero, ha redarguito l'operaio napoletano cassintegrato che contestava la delocalizzazione all'estero della produzione Fiat, spiegandogli che da un punto di vista etico, che sia cinese o americano non fa differenza: sono tutti uguali di fronte al rischio di perdere il lavoro. Ha poi aggiunto: non facciamo la guerra tra i poveri. Straordinario! Un padrone che spiega agli operai l'importanza dell'unità d'azione del proletariato! A Napoli su una lapide del 1871 è scritto: «Il servaggio è male volontario di popolo ed è colpa de' servi più che de' padroni». Penso che oggi sia più vero di allora”.
Michele Serra risponde: “Gli operai sono diventati di destra? Che fine ha fatto la solidarietà di classe? E il mito dell'internazionalismo? Queste due lettere inquadrano lo stesso (enorme) argomento con un certo scoramento. E anche con una certa malizia (vedi la conclusione del lettore XY: il servaggio è colpa dei servi più che dei padroni).
In realtà i sondaggi e gli studi sui flussi elettorali non dicono che «gli operai sono di destra». Dicono, semmai, che gli operai votano più o meno come gli altri gruppi sociali, con una leggera prevalenza della destra. Dicono, cioè, che la sinistra non è più, come fu, la principale casa politica dei salariati, il referente quasi naturale dei loro interessi e della loro identità sociale. E questa, certo, è una novità storica. Naturalmente si è liberi di pensare che alla base di questa novità ci sia una specie di scadimento politico culturale di una classe sociale fuorviata da una propaganda subdola, inciuchita dal conformismo televisivo, sbriciolata, in quanto classe, dalla globalizzazione e dalla crisi. Mi sembra, però, troppo comodo e soprattutto non verosimile. (...) Gli operai non sono mai stati «buoni» per natura, neppure nei più radicali libelli operaisti. Vero, piuttosto, che per oltre un secolo la percezione del proprio svantaggio sociale ha suscitato, negli operai, soprattutto voglia di rivalsa, e una colossale auto-organizzazione politica. Oggi la condizione di svantaggio produce, al contrario, soprattutto paura. E la paura è la materia prima della nuova destra, che sa come trasformarla in voti. Più facile dire a un operaio «ti proteggo io impedendo l'immigrazione» che suggerirgli vaghe tappe di un'emancipazione di classe molto remota. Più facile promettergli partecipazioni ai profitti piuttosto che chiedergli di ricominciare a lottare – come suo padre, come suo nonno - per una maggiore giustizia sociale”.
Serra conclude con una battuta: “fare la destra è più facile che fare la sinistra”.
In Italia, mi pare, stiamo vivendo uno di questi momenti: gli interessi privati (ma a volte andrebbero chiamati, più semplicemente, “i cazzi propri di ciascuno”) hanno travolto l'interesse pubblico ovunque e ad ogni livello, e penso che la sinistra ci metterà un sacco di anni ad uscire dall'angolo in cui è stata cacciata (o è andata a cacciarsi?).
John Dewey sosteneva essere cruciale, per il controllo dell'opinione pubblica, «la capacità di collegare il discorso pubblico con il discorso privato». Detto altrimenti, una politica vince quando le sue parole passano dai libri, o dagli editoriali, alle chiacchiere da bar.
In questo momento, nei bar, vince la destra. Anche se non paga quasi mai da bere.
Quanto agli operai, ha ragione Serra: dove sta scritto che dovrebbero essere “buoni per natura”?
Che cazzo è, un operaio, il buon selvaggio?
Mi sono ricordato di una vecchia intervista a Carlo Fruttero in cui lo scrittore raccontò di aver lavorato in una fabbrica, per un breve periodo.
«Che cos'è che le si rivelò?», gli chiesero.
Rispose così: «Senza nessuno sforzo vidi e capii che questi proletari erano come le duchesse e i principi del castello di Passerano: ce n'erano di verbosi, di logorroici, di cupi, di tristi, di noiosi, di sognatori, di intelligenti, di onesti e di truffatori. Erano come tutti gli altri».
giovedì 28 maggio 2009
Al calduccio sotto le mie copertine (n.3)
mercoledì 27 maggio 2009
Leone
Secondo me quelle di Tito e di Repubblica sono mere illazioni. Ciàcole, dai...
Se il papi di Noemi Letizia ultimamente pensa spesso a un Leone, questi non è certo il famigerato Presidente Giovanni: ma cosa volete che ne sappia, il Bokassa del Viagra, della storia del nostro Paese, suvvia!
Berlusconi, in realtà, ha in mente il caso di Leone di Lernia: uno che, proprio come lui, ha cominciato cantando, e come cantava! Oh, se cantava!
È il dimenticatoio in cui è inopinatamente finito Leone di Lernia - che molto promise, in his golden days, ma davvero poco seppe poi mantenere – a ossessionare Silvio Berlusconi, credete a me.
lunedì 25 maggio 2009
Temuti, amati, odiati
Sentite un po' che ha detto, a un certo punto...
Quel che è certo è che nella scrittura e nella vita viviamo in un costante scambio di parole. Sappiamo che il mondo ci dà parole e che scrivendo le restituiamo al mondo. Ma la parola scritta non è più la stessa parola data dal mondo: è stata trasformata dal linguaggio, che è di tutti, per dire qualcosa che prima non era di nessuno. (...)
C'è chi scrive per essere amato: Dickens, Garcìa Marquez.
C'è chi scrive per essere odiato: Céline, Houellebecq.
C'è chi scrive per essere gustato: Saramago, Nélida Piñon, artefici della lingua più
C'è chi scrive per in-vertire: Balzac, Galdòs, Dos Passos.
C'è chi scrive per sov-vertire: D.H. Lawrence, Juan Goytisolo, Jean Genet.
C'è chi scrive per di-vertire: Sterne, Saki, Diderot.
C'è chi scrive per con-vertire: Mauriac, Bernanos, Graham Greene.
C'è chi scrive per av-vertire: Swift, Voltaire, Orwell.
Temuto, amato, odiato, lo scrittore nasconde il segreto desiderio di essere, al tempo stesso, un disturbo per il mondo che è, e un creatore del mondo che può essere.
Beh, che ne dite?
Lo amate, Dickens?
Lo odiate, Céline - che sembra tenerci un bel po', in effetti, a essere odiato?
Lo trovate gostoso, Saramago?
Preferite chi vuole sov-vertire o chi vuole con-vertire?
E l'avete capita, voi, quella degli scrittori che scrivono per in-vertire?
sabato 23 maggio 2009
E Zarathustra così parlò al popolo:
Io avrei poco da aggiungere, senonché, l'altro giorno, l'inaugurazione di un sottopasso è stata presentata dall'immaginifico e romanticissimo Presidente della Provincia di Gorizia (uomo del Pd perdutamente “innamorato” del Pd, già uomo dei diesse perdutamente "innamorato" dei diesse, già uomo del Pds perdutamente "innamorato" del Pds, già uomo del Pci perdutamente "innamorato" del Pci) come un esempio di “Mission Impossible” incredibilmente portata a termine.
E andiamo avanti così, andiamo avanti: sottopasso dopo sottopasso.
venerdì 22 maggio 2009
File under: Jurassic Park.
giovedì 21 maggio 2009
mercoledì 20 maggio 2009
Era ora!
I soliti ignoti (di Mario Monicelli)
lunedì 18 maggio 2009
Al calduccio sotto le mie copertine (n.2)
domenica 17 maggio 2009
Il campione della nostra fede
En passant vi dico che mi sono definitivamente rotto i coglioni di vedere il povero Benedetto Croce citato a sproposito dai nostri liberali alle vongole. Questa cosa del "non possiamo non dirci cristiani" andrebbe un po' contestualizzata, diciamo così. Cerco di farlo velocemente.
Nel 1942 Santa Romana Chiesa aveva cominciato a prendere le distanze dal Fascismo (proprio nel momento in cui avevano cominciato a farlo gli italiani, bombardati in casa loro dagli Alleati e massacrati sui fronti di guerra: quando si dice il caso, no?). Il regime aveva reagito con furiosi attacchi della sua stampa. Croce - che sapeva benissimo quanto fosse rilevante, in Italia, l'orientamento politico della Chiesa cattolica – si buttò a difendere il Papa e i preti. Gli rispose Giuseppe Bottai con un articolo dal titolo velenosissimo, Benedetto Croce rincristianito per dispetto. Ora, come ha scritto Ruggiero Romano in Paese Italia, “Croce non era «rincristianito» per niente. Molto più semplicemente, egli aveva voluto ricordare che si ha un bel dichiararsi (o financo essere) laici, atei, libertini: non per questo ci si toglie di dosso venti secoli di cristianesimo”. Tutto qua.
Secondo il papi di Noemi, tenere il G8 in Abruzzo è un modo per dare un “riconoscimento chiaro delle nostre origini e della nostra comune comune civiltà cristiana” in un momento in cui “ci sono dei rapporti, che dobbiamo cercare di migliorare, fra il mondo cristiano e quello musulmano”.
Bellissime parole, nevvero? Immagino come saranno state accolte da Papa, cardinali, vescovi e pretaglia assortita. E la civiltà cristiana, e l'Italia come terra cristiana, e le radici cristiane del popolo italiano, e le radici cristiane dell'Occidente: musica per le orecchie di quel simpaticone di Ratzinger.
D'altronde, si capisce: son tutte cose decisamente più serie e importanti dell'affaire Noemi. E pure, diciamocelo, di tutti quegli immigrati "senza arte né parte" (così Berlusconi) che sono stati rispediti in Africa da Maroni con un bel calcio in culo.
“Alla Chiesa importa molto dei comportamenti privati, ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive ed uno sciupafemmine che le dà invece una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupafemmine”. Così il senatore Cossiga - uno che se ne intende non poco, di certi ambientini - qualche giorno fa.
Un pensiero affettuoso ai cattolici adulti...
venerdì 15 maggio 2009
Toghe rosse e disfattisti
E – occhio a questa, occhio - «anche la sinistra non è stata da meno. Una forza politica – scrive Caselli - che ha sempre fatto della “questione morale” un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l'ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come “inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti"».
Anna Finocchiaro sarebbe poi la stessa persona che “non esclude” di candidarsi, a ottobre, alla segreteria del famoso Partito democratico, come è andata a dire in giro un paio di giorni fa.
E insomma, secondo Caselli, il terrorismo fu «un fenomeno subalterno alla società» - e perciò venne sconfitto - «la mafia invece detta spesso i tempi e i modi. E lo fa attraverso un complesso sistema di rapporti e favori. Interessi reciproci con il mondo che alla mafia dovrebbe essere esterno e ostile».
La conclusione? «Il re, qualunque sia il re, non ama apparire nudo. Fra destra e sinistra vi sono differenze abissali, dietro cui c'è però un filo comune: la politica, senza distinzioni, vive di consenso. Se il consenso rischia di affievolirsi per le inchieste che disvelano “troppa” collusione con la mafia, ecco che la politica, tutta la politica, finisce più o meno consapevolmente per non accettarle più».
Tutta la politica...
L'altro giorno, da qualche parte, ho scritto che “di dire le cose da politico io non ho più voglia". Perciò un mio caro amico mi ha dato del disfattista: secondo lui qualcosa si può ancora fare, attraverso l'azione politica, contro lo schifìo che ci opprime.
Io da tempo sono affetto dalla sindrome di Cosimo Piovasco di Rondò, barone d'Ombrosa, il protagonista de Il barone rampante di Italo Calvino, quello che si rifugiò sugli alberi per tenere alla debita distanza un mondo che non gli piaceva per niente: i frequentatori più fedeli del mio povero, patetico blogghe ormai lo sanno bene...
Il punto qui (qui in talkischeap, intendo), però, è che Cosimo “visse sugli alberi”, sì, ma “amò sempre la terra”: questo almeno sta scritto su una stele che lo ricorda, nella tomba di famiglia...
In un passo di una lettera spedita nel febbraio del 1926 Gaetano Salvemini, allora esule in Francia, così scriveva alla vedova di Giacomo Matteotti: «Io attraversai, fra il 1921 e il 1924, un periodo di stanchezza fisica e di depressione morale. Detestavo i fascisti, ma non avevo fiducia negli antifascisti. Me ne stavo fra i miei libri, risoluto a non rientrare più nella politica attiva. Ma quando Lui fu ucciso, io mi sentii in parte colpevole della Sua morte. Lui aveva fatto tutto il Suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere, l'Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini. Allora presi la mia decisione. Dovevo ritornare ad occupare il mio posto nella battaglia. Ed ho fatto il possibile per attenuare in me il rimorso di non avere sempre fatto il mio dovere».
Ecco, io sarò pure un disfattista ma, dall'alto degli alberi, amo sempre la terra. E cercherò, in qualche modo, di fare sempre quello che ritengo essere il mio dovere di uomo e di cittadino responsabile...
mercoledì 13 maggio 2009
lunedì 11 maggio 2009
domenica 10 maggio 2009
Volan stracci e mortacci
La prima cosa che mi sento di dire è che sarebbe ora che 'sto fatuo citrullo la piantasse di citare i versi di Kavafis. Chi di gallina nasce convien che razzoli: uno come Fausto Bertinotti, per quanto mi riguarda, giusto dei libri di Sophie Kinsella può parlare.
Le anticipazioni della stampa raccontano di un giudizio ferocissimo su Romano Prodi: secondo l'ex presidente della Camera dei deputati il professore sarebbe infatti “il leader politico che in questi anni ha avuto la peggior parabola discendente”, un cattolico democratico, tecnocrate fin che vuoi ma comunque "contagiato dal dossettismo", trasformatosi, nel corso del tempo, in “uno spregiudicato uomo di potere”.
Secondo la portavoce di Romano Prodi, Sandra Zampa, «le parole di Bertinotti sollecitano un'unica risposta. Quella che il presidente Prodi usa in casi come questi: “de mortuis nisi bonum”». Dei morti non si può che parlar bene.
Ve la ricordate, sì, la battuta di Flaiano su Cardarelli, “il più grande poeta morente”, di cui l'infausto Fausto si appropriò per liquidare da par suo l'esperienza del secondo ministero Prodi, lo scorso anno?
Una prece, dai.
venerdì 8 maggio 2009
In sintonia col popolo
“Caro dottor Augias, è con profonda tristezza che scopro di vivere in un paese che non mi piace, circondato da gente che non mi piace, volgare e suddita. Si dice in giro che non vi debbano più essere nemici, ma solo avversari con cui confrontarsi pur nella diversità di opinione. Ma per confrontarsi bisogna avere qualcosa da dirsi, usare un linguaggio comune. Mi chiedo: che cosa mi accomuna a questo signore che ci governa, ossessionato dal suo aspetto e dalla sua potenza sessuale, e con il popolo che lo segue adorante e plaudente? Vedo qualcosa di avvilente nelle private vicende di un anziano e facoltoso signore che finge di essere giovane e “in forma” circondandosi di ragazzine avvenenti e disponibili. E c'è qualcosa di così orribile in questo sciagurato paese che esulta per le avventure dell'anziano signore, solo perché è un potente e lo difende dalla moglie che protesta pubblicamente contro la sua indecorosa condotta. Mi sento estraneo e disgustato”.
Io queste cose non potrei mai dirle, vedete... perché ho in tasca la tessera del famoso Partito Democratico.
Ora, dovete sapere che qualche giorno fa un famoso giovane dirigente nazionale del famoso Partito Democratico, tal Enrico Letta (nipote di), ci ha ammoniti tutti: noi del piddì «siamo troppo snob, crediamo di essere migliori del Paese e questo è l’inizio della disfatta».
Io quindi, cari miei, non sono (non posso proprio essere) migliore di quegli italiani (e sono milioni di milioni, come le stelle di Negroni) che, letteralmente, idolatrano il Bokassa del Viagra, né posso permettermi di giudicarli male. Pena la disfatta. Se invece farò il bravo, se non sarò snob, ovvero se imparerò non dico a comprendere, ma almeno a rispettare la grandezza inattingibile di maestri di stile quali Silvio Berlusconi, Fabrizio Corona e Aida Yespica - sembra dirmi Letta (il nipote o lo zio?) - forse l'Italia imparerà ad amarmi, finalmente.
Non potrò certo essere io del piddì, dunque, a interpretare politicamente l'indignazione del signor Bertini: lo farà qualcun altro, o magari non lo farà nessuno e allora il signor Bertini, invece di andare a votare, se ne andrà al mare. Che dire? Buon pro gli faccia? Diciamolo, e non se ne parli più.
Ben prima del famoso giovane dirigente nazionale Enrico Letta, dalle mie parti un altro Enrico ammoniva severamente noi del piddì: «Ma dove cavolo è scritto che il riformismo debba per forza essere guerra al popolo? Che cazzo di libri abbiamo letto per finire dall’altra parte del tavolo e assumere questo atteggiamento sprezzante verso l’umanità?» (15 giugno 2008).
giovedì 7 maggio 2009
mercoledì 6 maggio 2009
Il Golem del sergente Michail
Erano stati degli Ak47, a sparare. Nel caso lo ignoriate, la lettera A indica il tipo di fucile, avtomat in russo. La K è l'iniziale del cognome del suo inventore: Kalashnikov. Le cifre 4 e 7, invece, si riferiscono all'anno in cui il giovane sergente dell'Armata Rossa Michail Kalashnikov presentò ai suoi superiori la propria stupefacente invenzione: un fucile in grado di produrre una potenza di fuoco terrificante, pari a 650 colpi al minuto. L'Ak47 si smontava in meno di un minuto e si poteva pulire rapidamente, praticamente in ogni condizione climatica. In più, non si inceppava mai: una macchina di morte “miracolosamente resistente, astutamente semplice ed efficace in maniera devastante” che era destinata a rivoluzionare l'uso delle armi nel campo di battaglia e nei successivi cinquant'anni avrebbe cambiato il mondo. Come scrive Michael Hodges in Kalashnikov, il fucile del popolo. Scenari di un'arma senza frontiere (Marco Tropea Editore), l'Ak47 “avrebbe difeso il potere della Russia comunista e sconfitto il potere dell'America capitalista”. Sarebbe diventato “l'espressione della rivoluzione internazionale, eppure il suo primo impiego sulla scena internazionale sarebbe stato per soffocare la rivoluzione in Ungheria nel 1956”.
Un icona mondiale dello scannamento, insomma, definita dal suo stesso creatore un Golem, come la creatura animata dal rabbino Loew a Praga di cui si racconta in una leggenda ebraica: quel fucile - riconobbe Michail Kalashnikov, nel frattempo divenuto generale - “era uscito dall'orbita dei suoi artefici e aveva acquisito forza propria”.
Attualmente al mondo sono in uso settanta milioni di Ak47, stando alle stime - e sono stime prudenti - delle Nazioni Unite: potremmo scorgerne uno “tra le mani di un soldato delle forze governative irachene oppure di un ribelle, di un mujaheddin afghano, di un guerrigliero colombiano, di un combattente palestinese o di un soldato bambino africano”.
Hodges segue il fucile da Iževsk, città natale del suo inventore, al Vietnam che fece entrare l'arma, imbracciata dai vietcong, nel vortice della mitologia rivoluzionaria novecentesca; dalle strade di fuoco di Ramallah al Sudan della guerra civile degli anni Ottanta; dal confine tra Pakistan e Afghanistan alla Cecenia ribelle al potere di Mosca; dall'Iraq a New Orleans prima e dopo Katrina.
Scrittura rapida, da giornalista cazzuto.
Un paio di storie: nel 1982 gli israeliani invadono il Libano, prendono gli Ak47 ai palestinesi e li mettono in mostra, come trofei, in un parco pubblico vicino a Tel Aviv, “in mezzo ai chioschi dei gelatai e alle luci dei proiettori, in modo che le famiglie potevano passeggiare in mezzo ai kalashnikov ed essere certe che finalmente i terroristi erano stati sconfitti. Poi, dopo la mostra nel parco, gli israeliani diedero i kalashnikov alla Cia e la Cia li imbarcò su navi container e li spedì in Pakistan. In Pakistan furono messi in casse caricate su muli, dopodiché i pakistani li mandarono al di là dei monti, ai mujaheddin dell'Afghanistan, per combattere contro i russi. Il primo kalashnikov che tenne in mano Bin Laden era un fucile palestinese che gli avevano dato gli americani, ai quali era stato fornito dagli israeliani”
I kalashnikov riuscirono a cambiare persino il panorama afghano: “in seguito ai primi, riusciti attacchi dei mujaheddin contro i convogli militari, i russi sfoltirono la vegetazione lungo un raggio di trecento metri (corrispondenti all'effettiva potenza di fuoco di un Ak 47) su entrambi i lati di tutte le strade principali, sradicando alberi e arbusti con carri armati e bulldozer o cospargendoli di defoglianti. Era l'ammissione pubblica e umiliante della vulnerabilità sovietica nei confronti di quello che fino a quel momento avevano considerato il loro fucile”. Un Golem, appunto.
Il primo prodotto davvero globale "che risponde a una propria logica di diffusione fluttuando liberamente fra culture e paesi che potrebbero reclamarlo come proprio, dalla Russia che lo ha progettato alla Cina che ne ha avviato una massiccia produzione in serie”: un fenomeno totalmente internazionale che galleggia su “un'ondata di morte e denaro”.
martedì 5 maggio 2009
Al calduccio sotto le mie copertine (n.1)
lunedì 4 maggio 2009
Audrey Hepburn
“Spesso ci chiedono com'era essere figli di una star, e spesso restano delusi e perplessi alla nostra risposta: «Non ne abbiamo proprio idea». Era la nostra mamma, una mamma come tutte le altre. Ascoltava meravigliata le nostre storie di tutti i giorni, ci dava qualche consiglio e ci raccontava un po' della sua vita. Veniva a prenderci a scuola, organizzava le nostre feste, amava passeggiare con i suoi cani e andare al mercato, chiacchierava con i nostri amici, e proprio attraverso loro abbiamo imparato che qualcosa di straordinariamente normale regnava a casa nostra: «Hollywood restava fuori dalla porta».
Audrey Hepburn se ne andò il 20 gennaio del 1993, dopo una lunga malattia.
Voglio ricordarla con una battuta di Vacanze romane: "Quello di cui il mondo ha bisogno è che si torni alla dolcezza e al senso morale", diceva la principessa Anna a Joe Bradley/Gregory Peck.
Era perfettamente credibile, Audrey Hepburn, donna dolcissima, di fortissimo senso morale, quando pronunciava quelle parole.Perché era una vera principessa, lei... non una Lady D. qualsiasi.