Mi capita spesso di pensare che i critici (i critici cinematografici come i critici letterari) non esistono più: ormai esistono solo recensori.
Magari ottimi recensori, come no...
Fatto sta (è un dato di fatto, appunto), che i critici, beh, i critici ormai son più rari del Gronchi rosa.
Poco male, dite voi?
Può essere. Non discuto.
Certo però che certi critici erano davvero qualcosa di spettacolare.
Ad esempio,
Jacques Rivette. Che sul numero 120 dei
Cahiers du Cinéma, anno domini 1961, pubblicò una critica memorabile di
Kapò, il film di Gillo Pontecorvo.
Ci ho pensato a lungo, devo dire.
Lo pubblico o non lo pubblico, questo prodigio dell'intelligenza (una riflessione, tanto profonda da far venire le vertigini, sul realismo nell'arte, sul punto di vista dell'autore - "male necessario" - e sull'atteggiamento che l'autore dovrebbe avere in rapporto a ciò che filma, ovvero sulle implicazioni che comporta il filmare la morte)?
Poi ho deciso: pubblico.
La domanda che Rivette si è posto, tanti anni fa, mi pare cruciale ancora oggi: se ci si abitua, poco a poco, all'orrore, questo non rischia di finire per far parte del paesaggio mentale dell'uomo moderno? E quindi: "chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi di ciò che avrà smesso in effetti di essere scioccante?".
La traduzione dal francese è di Serena Daniele.
Il meno che si possa dire è che è difficile, allorché si decida di fare un film su un tale soggetto (i campi di concentramento), non porsi certe questioni preliminari: ma tutto accade come se, per incoerenza, stupidità o vigliaccheria, Pontecorvo abbia risolutamente evitato di porsele.
Per esempio, quella del realismo: per molte ragioni, facili da comprendere, il realismo assoluto, o ciò che ne fa le veci al cinema, è impossibile qui; ogni tentativo in questa direzione è necessariamente incompiuto (“dunque immorale”), ogni prova di ricostruzione o di truccatura, ridicola e grottesca, ogni approccio tradizionale dello “spettacolo” fa emergere voyeurismo e pornografia. Il regista si trattiene dal nauseare, perché ciò che osa presentare come la “realtà” sia fisicamente sopportabile dallo spettatore, il quale di conseguenza non può che concludere, forse inconsciamente, che, certo, era penoso, che selvaggi questi Tedeschi, ma tutto sommato non intollerabile, e che essendone avveduti, con un po' d'astuzia o di pazienza, doveva essere possibile trarsene fuori. Allo stesso tempo ciascuno si abitua subdolamente all'orrore, questo rientra poco a poco nelle abitudini, e farà presto parte del paesaggio mentale dell'uomo moderno; chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi di ciò che avrà smesso in effetti di essere scioccante?
E' qui che si comprende che la forza di Notte e nebbia veniva meno dai documenti che dal montaggio, dalla scienza con la quale i fatti bruti, reali, ahimé!, erano offerti allo sguardo, in un movimento che è giustamente quello della coscienza lucida, e quasi impersonale, che non può accettare di comprendere e di ammettere il fenomeno. Altrove si sono potuti vedere documenti più atroci di quelli riportati da Resnais; ma a cosa non si abitua l'uomo? Ora non ci si abitua a Notte e nebbia; ciò che il cineasta giudica è ciò che mostra, ed è giudicato dal modo in cui lo mostra.
Altra cosa: si è citata molto, a sinistra e a destra, e più spesso abbastanza scioccamente, una frase di Moullet: la morale è questione di carrellate (o la versione di Godard: le carrellate è questione di morale); si è voluto vedervi l'apice del formalismo, per quanto se ne potrebbe piuttosto criticare l'eccesso “terrorista”, per riprendere la terminologia paulhaniana. Guardate, tuttavia in Kapò, l'inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sulla recinzione elettrificata; l'uomo che decida, a questo punto, di fare una carrellata in avanti per riprendere il cadavere dal basso verso l'alto, premurandosi d'inscrivere esattamente la mano alzata in un angolo dell'inquadratura finale, quest'uomo non ha diritto che al più profondo disprezzo.
Ci martellano da qualche mese con i falsi problemi della forma e del fondo, del realismo e del fiabesco, della sceneggiatura e della “messa in scena”, dell'attore libero o dominato e di altre scempiaggini; diciamo che è probabile che tutti i soggetti nascano liberi e uguali nel diritto; ciò che conta è il tono, o l'accento, la sfumatura, comunque la si voglia chiamare - vale a dire il punto di vista di una persona, l'autore, male necessario, e l'atteggiamento che questa persona assume in rapporto a ciò che filma, e quindi in rapporto al mondo e alle cose: quello che si può esprimere attraverso la scelta delle situazioni, la costruzione dell'intreccio, i dialoghi, la recitazione degli attori, o la pura e semplice tecnica “indifferentemente ma in egual misura”. Ci sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido; la morte è una di quelle, senza dubbio; e come, nel momento di filmare una cosa così misteriosa, non sentirsi un impostore? Andrebbe meglio in tutti i casi porsi la questione e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si filma: ma è proprio del dubbio che Pontecorvo e i suoi simili sono più sprovvisti.
Fare un film è dunque mostrare determinate cose e, allo stesso tempo e attraverso la stessa operazione, mostrarle da una certa angolazione; questi due atti sono rigorosamente inscindibili. Così come non ci può essere assoluto nella regia, poiché non c'è regia nell'assoluto, allo stesso modo il cinema non sarà mai un “linguaggio”: i rapporti del segno al significato non hanno corso alcuno qui, e non portano che a eresie tanto tristi quanto la piccola Zazie.
Ogni approccio del fatto cinematografico che tenti di sostituire l'addizione alla sintesi, all'unità, ci rimanda subito a una retorica d'immagini che non ha a che vedere con la cinematografia più di quanto il design industriale abbia a che vedere con la pittura: perché questa retorica resta così cara a quelli che si definiscono da soli “critici di sinistra”? Forse perché sono prima di tutto degli irriducibili professori: ma se noi abbiamo sempre detestato, per esempio, Pudovkin, De Sica, Wyler, Lizzani e gli antichi combattenti dell'Idhec è perché il risultato logico di quel formalismo si chiama Pontecorvo. Checché ne dicano i giornalisti, la storia del cinema non si rivoluziona tutte le settimane. La meccanica di un Losey, la sperimentazione newyorkese non li commuovono più di quanto le ondate di scioperi non turbino la pace delle profondità. Perché? C'è che gli uni non si pongono che problemi formali, e che gli altri li risolvono all'origine nel non porsene alcuno. Ma che dicono piuttosto quelli che fanno veramente la storia e che pure chiamiamo “uomini d'arte”? Resnais ammetterà che se il tal film della settimana interessa in lui lo spettatore, è tuttavia davanti ad Antonioni che proverà la sensazione di non essere che un dilettante; così Truffaut parlerebbe senza dubbio di Renoir, Godard di Rossellini, Demy di Visconti; e come Cezanne, contro tutti i giornalisti e i cronisti, fu poco a poco imposto dai pittori, così i cineasti impongono alla storia Murnau e Mizoguchi...