Qualche tempo fa ho fatto un po' arrabbiare un caro amico dicendogli che,
in my humble opinion, il veltronismo altro non è che la faccia nascosta della luna del berlusconismo: immagine, apparenza, produzione di narrazioni a mezzo di cazzate. O, se vi piace di più, attenzione maniacale al mondo dei simboli.
Occhio, ho scritto 'maniacale' per salvarmi in corner: non sono così grullo da non sapere che il simbolo è uno dei modi in cui gli esseri umani cercano di governare il proprio rapporto col mondo (un filosofo direbbe “governare la relazione tra essere e pensiero” o “la relazione tra identità e alterità”). Io sono un
animal (per tanti motivi: chiedere alla mia povera moglie...)
symbolicum, insomma, e lo siete pure voi che mi leggete.
Diciamolo con
Franco Volpi (gli sia lieve la terra).
“Di fronte allo stupore che segnala che l'essere non è come appare e il mondo non è quello che sembra, il simbolo è una strategia per ridurre la contingenza, per congiungere le parti in un intero e «ricomporle» (in greco: symballein). Il simbolo ha la forza di conferire un senso condiviso alla realtà e di «rimettere in ordine il mondo». Ma non appena fissato e stabilito, esso tende a irrigidirsi in forme, occultando la dinamica vivente da cui sorge”.
Il simbolo serve a conferire senso, dunque a tenere la barra del timone dritta, a non perdersi nella foresta, ma può anche nascondere al nostro sguardo il mondo in cui viviamo. Fino a farcelo dimenticare completamente.
Gli esseri umani rinunciano infatti molto più volentieri a una realtà che non ai simboli che la rappresentano, lo sappiamo (e qui potrei senz'altro mettermi a maramaldeggiare sulle tristissime vicende occorse ai comunisti italiani, ma volentieri me ne astengo...).
Silvio Berlusconi ha venduto simboli per anni annorum, in ogni contrada di questo sventurato Paese. Anzi, è proprio vendendo simboli che Berlusconi è diventato Berlusconi, simbolo lui stesso fate voi di cosa. Papi Silvio - una delle tante maschere della nostra eterna commedia dell'Arte, mica altro -
“non ha rivali nel sapersi indirizzare al (suo) popolo” interpretandone
“le pulsioni elementari con argomenti e atteggiamenti esemplari, idonei a metterlo in movimento al suo seguito” e
“dispone anche di strumenti persuasivi che nessuno può neanche lontanamente sognarsi”. Così
Gustavo Zagrebelsky perché io non avrei saputo dirlo meglio.
Walter V. non dispone, come è noto, di
“strumenti persuasivi”. Sì, certo: conosce un sacco di gente in RAI (da Minoli all'ultimo degli uscieri) perché ha fatto politica in RAI, e solo in RAI, per tutta la sua vita, ma per avere la meglio sul dulcamara nazionale questo non basta, non basta proprio.
Qualche mese fa, in un editoriale davvero memorabile su
la Repubblica, Nadia Urbinati se ne uscì così:
“La docilità è una qualità che si predica degli animali, non degli uomini; è un obiettivo che i domatori si prefiggono quando cercano di abituare un animale a fare meccanicamente determinate cose. Al moto della mano del padrone il cane sa quel che deve fare e lo fa. Docilità significa non avere una diversa opinione di come pensare e che cosa fare rispetto all'opinione preponderante; significa accettare pacificamente quello che il padrone di turno, per esempio l'opinione generale di una più o meno larga maggioranza, crede, ritiene e vuole. Sono ancora una volta i liberali (sempre pensato che i liberali siano i meglio fichi der bigoncio, sempre pensato, n.d.r.)
che ci hanno fatto conoscere questo lato inquietante del potere moderno. Un lato che si è mostrato quando il potere è riuscito ad avvalersi di strumenti nuovi”, gli
"strumenti persuasivi" di cui parla Zagrebelsky, i media, quelli che Berlusconi controlla e Walter V. invece no sebbene sia tanto amico di Minoli e di Fabio Fazio.
“Il moderno potere fondato sull'opinione non ha più bisogno di usare la violenza diretta (...); usa invece una specie di addomesticamento che produce, come scriveva Mill, una forma di “passiva imbecillità”. I cittadini docili assomigliano a una massa di spettatori: in silenzio ad ascoltare e, semmai, giudicare alla fine dello spettacolo, con applausi o fischi”.
I regimi politici di quello che una volta si chiamava “l'Occidente” (bei tempi, altroché: bei tempi!) hanno subito una profondissima trasformazione, nell'ultimo quarantennio: dopo quella famosa sudata di Richard Nixon davanti alle telecamere è andata pian piano affermandosi la democrazia del pubblico e dell'opinione, quella in cui il ruolo dei leader politici è
decisivo.
E io lo capisco, certo: mi fa cagare veramente di gusto, ma lo capisco.
Il politico moderno opera in un mondo in cui la comunicazione è tutto, un mondo nel quale spesso e volentieri l'apparenza è più importante della realtà. Qualcuno, ma non ricordo chi (forse Timothy Garton Ash?), ha scritto che ormai nelle nostre società ricche ed evolute (ehm...) la politica non è
“né fact
né fiction
, ma faction
. Un dramadocumentary
. Un mondo condiviso, in un sottile e abituale gioco di relazioni, da politici, spin doctor
, pr e giornalisti che lavorano per le corporation
dei media a Londra, Berlino, Parigi o Washington”. Detto ciò, l'accesso ai media, nelle democrazie liberali più evolute (ovvero a Londra, Berlino, Parigi e Washington) è in genere regolamentato, più o meno bene. Nelle democrature come l'Italia invece no. E vale forse la pena di ricordare,
en passant, che nelle democrazie liberali più evolute un
tycoon dei media non avrebbe mai potuto eccetera eccetera eccetera...
E' vero che la tivvù è stata (almeno, a me questo pare incontestabile) un mezzo di democratizzazione della politica perché ha permesso a tutti, ma proprio a tutti, di avvicinarsi al dibattito politico. Per questa democratizzazione, però, abbiamo pagato e stiamo pagando dei prezzi molto salati: la superficialità, lo svuotamento di ogni discorso appena appena un po' complesso, la sua riduzione a chiacchiera quando non a pettegolezzo. Mettiamoci poi la tendenza dei peggiori tra i politici (i più...) a rivolgersi ai cittadini-spettatori dicendo solo quello che i cittadini-spettatori vogliono sentirsi dire e siamo a posto, direi: la politica non è più
educazione (indicazione di un percorso, di un orizzonte), è diventata
seduzione.
Il nostro problema è che gli italiani leggono poco i giornali e guardano molto la tivvù.
E le cose che passano in tivvù sono quelle che il Papi della Patria vuole che passino, visto che la tivvù, giova ripeterlo, la controlla lui. Lasciamo perdere le riserve indiane che pure ci sono (e che comunque fanno pena), è così e punto.
In questa situazione, la parte politica che nel cuor mi sta non ha la minima possibilità di giocarsela sul piano della democrazia dell'opinione. Dovrebbe cercare di fare altro, di
essere altro.
Il problema della sinistra italiana, in generale, è di non aver mai voluto affrontare sul piano culturale (che è altra cosa dal battersi ora contro l'enorme conflitto di interessi di cui Berlusconi è portatore, battaglia comunque – ovviamente – sacrosanta) la questione del quinto potere e dei suoi limiti in una società come la nostra, culturalmente e civilmente arretratissima; il problema di Walter V., maniacalmente perso tra i suoi simboli, è di essersi sempre rifiutato di prenderne atto.
Dove pensa di vivere, il signor Veltroni?
L'unica riflessione di cui la sinistra è stata capace sul modo di fare informazione in questo Paese ridicolo è quella che l'ha portata a mettere un Curzi di qua, un Freccero di là e un Santoro lassù, illudendosi che questo bel giochino fosse sufficiente a pararsi il culo. Di questo modo di far politica, sciocco, futile e autolesionista, Walter V. è stato da sempre l'interprete più pregiato: di più, ne è stato il campione indiscusso (e il compagno D'Alema, va detto, ha sempre – togliattianamente, ovvio – condiviso).
In questa situazione, però, gli item che passano (che stan passando da un quarto di secolo, va) nei televisori degli italiani non possono che essere quelli del signor Berlusconi, e solo quelli del signor Berlusconi. Noi possiamo solo seguire, mai proporre qualcosa d'altro; giocare di rimessa e basta, e sempre sul terreno scelto dal nostro avversario.
Vivendo nel suo mondo, le nostre parole d'ordine non possono che assomigliare alle sue. Anzi, non possono che essere le sue.
Un esempio? Se l'imprenditore, l'uomo del fare, è meglio del politico di professione che non fa un cazzo da mane a sera in quelle aule sorde e grigie (in Italia ce ne sono stati di pessimi, è vero, di politici di professione: ma pure De Gasperi, Nenni, Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer sono stati professionisti della politica, nevvero?), ecco la sinistra inventarsi gli Illy e i Soru, eccola candidare al Parlamento i Calearo e i Colaninno figlio. Non entro nel merito di cosa poi abbiano fatto concretamente Illy e Soru. E' su cosa Illy e Soru hanno simboleggiato che trovo molto da eccepire.
Oggi ci è messa pure la miracolata da YouTube, al secolo Serracchiani Debora, il fenomeno del nostro tempo alla cui mitopoiesi pure io, nel mio piccolo, ho contribuito.
Grandiosa quando a Curzio Maltese, che le chiede “perché ha scelto di stare dalla parte di Franceschini?”, risponde: “Perché è il più simpatico”.
Ma ancora più grande quando, pavlovianamente docile (come ha scritto l'Urbinati? “Al moto della mano del padrone il cane sa quel che deve fare e lo fa. Docilità significa non avere una diversa opinione di come pensare e che cosa fare rispetto all'opinione preponderante; significa accettare pacificamente quello che il padrone di turno, per esempio l'opinione generale di una più o meno larga maggioranza, crede, ritiene e vuole”. Ecco...), sostiene che non appoggerebbe mai un leader del PD proveniente dal funzionariato politico e perciò l'uomo adatto alla bisogna sarebbe proprio (rullo di tamburi!!!) l'attuale segretario, il povero Dario Franceschini, “un mio collega, un avvocato”. Capito qual è l'immaginario della ragazza? Di qua l'uomo del fare (un avvocato, perbacco: come Gianni Agnelli) che può aiutare l'Italia a risollevarsi, di là i professionisti della politica (la casta, ve la ricordate la casta?) che han portato l'Italia alla rovina. Vi ricorda qualcosa? Vi ricorda qualcuno?
E tiene molto a precisarlo, la giovane Serracchiani che combatte il vecchio in nome del nuovo: “non vengo da tutta una vita di sezione”. Sapete, io ci ho incontrato un sacco di bella gente, nelle sezioni del mio vecchio partito, i DS. Gente che spendeva volentieri il proprio tempo libero facendo politica gratuitamente, battendosi per una causa in cui credeva profondamente. Gente in genere molto civile e attenta agli altri, in special modo agli altri che hanno di meno. Gente, tra le altre cose, con un'elevatissima soglia di sopportazione per le cazzate. Perché ne sentiva, di cazzate, dai leader (sempre gli stessi da sempre): ostia, se ne sentiva... Questa è la mia esperienza delle sezioni di partito. A Debora Serracchiani tutto ciò deve fare un po' schifo.
Fortuna solo che la signora non ha detto che con lei c'è l'Italia che ama e dall'altra parte c'è invece l'Italia che odia, ma ci è mancato tanto così.
E io alla fine devo confessarvi che non ce la faccio proprio più, con questo nuovismo acchiappacitrulli (ve lo ricordate, sì, che Walter Veltroni non è mai stato comunista “perché si poteva stare nel PCI senza essere comunisti”?), con queste favolette per allocchi, con questo apparato simbolico da vorrei ma non posso (I care, do you remember?) che però ha la magnifica colonna sonora di Nicola Piovani (uno dei taaanti amici di Walter nostro...) ad accompagnare e sottolineare: roba da Oscar, ostia de un'ostia!
Insomma, sotto la (simbolica!) frangetta niente, fioi. Però un niente nuovo di pacca. Proprio come Veltroni, uguale uguale.