
Ho riletto ieri questo splendido omaggio alla memoria di Groucho Marx firmato da Italo Calvino (c'è anche una puntatina finale, noterete, sull'immenso Vladimir Nabokov. Che non ha scritto solo Lolita... )
Uscì sul Corriere della Sera il 28 agosto 1977: Groucho Marx aveva lasciato il mondo in quei giorni.
Lo potete trovare in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, pubblicato da Einaudi nel 1980: un libro da cui l'intelligenza tracima.
Si intitola Il sigaro di Groucho e sta a pagina 301.
Ciò che distacca Groucho Marx dagli altri grandi comici dello schermo è che la sua maschera si presenta con gli attributi esteriori del prestigio, del successo, dell'autorità, del saper vivere: sigaro baffoni occhiali abito scuro e quell'avanzare a lunghi passi a ginocchia piegate in fuori come pattinando che è la sua invenzione mimica più emblematica.Mentre lo spazio vitale da cui i suoi due fratelli traggono la loro frenetica euforia sono la libertà l'avidità l'astuzia del nullatenente assoluto (Chico con la sua aria d'emigrante italiano della Brooklyn inizio del secolo; Harpo con la sua aria d'angelo spiritato e un po' perverso piovuto da un cielo chagalliano) - e in questo rientrano nel filone delle classiche maschere comiche da Chaplin e Keaton a Woody Allen, del disadattato patetico, del povero cane preso a calci dalla vita, dell'underdog sociale o psicologico - i ruoli che Groucho incarna sono invece sempre in qualche modo figure di potere (dittatore, miliardario, impresario, grande avvocato, professore universitario).
Ma di questo potere Groucho mette fuori tutta la sostanza ignobile, svela di quanta bassezza è impastata ogni affermazione di prestigio, di quanto cinismo ogni pretesa di rispettabilità, di come ogni successo non sia che una precaria vacanza senza illusioni prima di ripiombare al livello zero da cui si è partiti. Se le maschere dell'underdog sublimano l'insuccesso, Groucho sveste il mito del successo d'ogni possibile sublimazione, dimostra quanto l'affermazione sociale porta con sé di miserabile e di gaglioffo.
Consumato viveur e conquistatore irresistibile, Groucho insegue bionde vedove giunoniche e soprattutto i loro conti in banca, ma le sue mosse di seduttore sono così sbadate e disincantate da togliere alla conquista ogni significato e valore. Ciò che Groucho sa è che il traguardo d'ogni azione ambizione desiderio è il poco o il nulla. Per questo, in fin dei conti successo e insuccesso s'equivalgono nel suo imperturbabile sarcasmo.Si può dire che Groucho non ha mimica facciale: la sua fisionomia è sempre ferma (in contrasto con gli stralunamenti ininterrotti di Chico e di Harpo); le sue gags sono affidate alla parola; le sue operazioni espressive consistono in cortocircuiti verbali, in fulminee discontinuità comportamentali. “Chiedo mille dollari”. “Te ne offro dieci”. “Ah, ah, ah!” Risata sprezzante e di compatimento, e poi subito: “I take it!” (“Ci sto!”)
Chico, che parla il cattivo inglese degli emigranti, e Harpo il muto, che s'esprime estraendo oggetti dalle inesauribili tasche, compensano il difetto d'articolazione con la musica. (Il primo è un virtuoso di piano, il secondo d'arpa). Groucho è la negazione della musica, è la prosaicità più brutale, è la stonatura perpetua.
Ma proprio perché rifiuta ogni autoillusione, proprio perché dissolve gli orpelli e riduce tutto a una essenza umana elementare, Groucho afferma la superiore dignità di ci si presenta per quello che è, l'innocenza di chi gioca a carte scoperte, il disinteresse di chi sa che tutte le vincite si risolvono in fumo.
Per questo sento il bisogno d'inchinarmi alla memoria di Groucho, e lo associo nel mio rimpianto a un altro grande cinico che se n'è andato quest'estate, un altro spietato osservatore del genere umano come spettacolo comico e sgradevole, un altro manipolatore dell'elasticità della lingua (dell'inglese come la più elastica delle lingue) per rendere le smorfie e i passi falsi dell'esistenza: il romanziere Vladimir Nabokov.


Vendola il poeta, commentando la scelta veltroniana di Spello (bel posto davvero: posso testimoniare), in Umbria, come luogo da cui dare inizio alla propria campagna elettorale (avete presente W. a Spello, vero? “Cominciare da qui, da questa piazza, da questo borgo, è un modo per dire a cosa pensiamo: non al destino di questo o quel leader, non a questo o quel partito, ma al destino dell'Italia, al nostro paese, alle gravi difficoltà del suo presente e alle straordinarie potenzialità del suo futuro” (...) “Io mi candido per cambiare il Paese, non per ricoprire una carica. Per questo, chiedo agli italiani, in questi sessanta giorni, di pensare non a quale partito ma a quale Paese” e via kennediando), il poeta Nichi Vendola, dicevo, commentava: “Noi facciamo parlare Bertinotti a Marrakech, facciamo una cosa più vivace. Quello di Veltroni sembrava un intervallo”.
Trovo splendida, invece, l'uscita su Marrakech.
(Qui sopra, il poeta Nichi Vendola colto dall'obiettivo del fotografo in atteggiamento cogitabondo: probabilmente, sta pensando alla composizione del suo prossimo carme)

Prima di loro c'era stato solo quel cinico meraviglioso che risponde al nome di Dino Risi che si era inventato una cosa ENORME su Sassi (“che il mare ha consumato /sono le mie parole d'amore per te”) per prendere per il culo l'imperatore Gino Paoli e la sua proverbiale joie de vivre. Ricordate (spero per voi di si, perché c'è da sganasciarsi) ne I Mostri l'episodio del povero ragazzo cieco (ma che forse potrebbe riacquistarla, la vista perduta, dice un oftalmologo dopo avergli dato un occhiata veloce) sfruttato da un Gassman davvero atroce, pochissimo interessato alla sua salute e alla sua felicità?

Charles Diehl e le sue figure bizantine (testo veramente bellissimo: tic ha già iniziato a leggerselo, perciò lo può dire)
e Charles King con la sua Storia del Mar Nero (editore Donzelli).
P.S.
Ieri sera ho ascoltato, dopo diversi mesi, alcune canzoni degli Smashing Pumpkins. Alcune da Siamese Dream (secondo molti, il loro disco più bello), altre da Mellon Collie and the Infinite Sadness (secondo un sacco di gente, il loro lavoro più completo: la summa del loro suono – Marc Bolan schiantato sui Black Sabbath, ebbe a scrivere Alberto Campo - e del loro modo di scrivere canzoni, ci intendiamo?). Sono stati, i Pumpkins, una delle band più grandi di sempre: non solo, quindi, di quegli anni Novanta del XX secolo che li hanno visti esplodere (in tutti i sensi, purtroppo per loro e pure per noi).
Ogni tanto viene fatto anche qualcosa di profondo, sul tema dell'adolescenza. Ora è più difficile da intercettare, visto che l'adolescenza, prima che un mito o uno stato ormonale è diventata soprattutto un target, un sistema di vasi comunicanti che dal pozzo nero dove si riversano fiumi di merci scadenti sbocca nel pozzo di San Patrizio dal quale escono ricchezze inaudite: ma viene ancora fatto.
La stessa cosa che si avverte leggendo gli adolescenti di Salinger, o vedendo film come “Rusty il selvaggio” e serial TV come “Twin Peaks”. Quel dubbio, ecco, di essere sempre stati dalla parte sbagliata, e di averla letteralmente dilapidata, l'adolescenza, in un dolore obbligatorio e insensato.

Il sarcofago di Portonaccio (dal nome del quartiere di Roma in cui è stato ritrovato), dell'ultimo quarto del II secolo d.C., che raffigura uno scontro cruentissimo tra romani e barbari, credetemi, è incredibile: Yann Rivière fa notare che il greco Filostrato, autore delle Imagines, usava l'espressione 'frustare gli occhi' per descrivere l'effetto prodotto da una profusione ('inestricabile confusione') di corpi umani, cavalli, armi. Ed è proprio così, vedete: una frustata agli occhi. Da togliere il fiato.
E poi, per dire, il busto dell'imperatore Marco Aurelio ritrovato ad Avenches, in Svizzera, in oro lavorato a sbalzo, ovvero uno dei tre soli ritratti romani realizzati in oro scampati al processo di rifusione. Si ignora quale impiego avesse un busto di questo tipo: forse ornava l'asta di uno stendardo portato da un insignifer alla testa di una legione, o forse era un oggetto rituale utilizzato nel quadro del culto imperiale che probabilmente veniva celebrato nel santuario del Cicogner ad Avenches.
A Palazzo Grassi ci sono stato domenica scorsa con mia moglie e, come forse avrete intuito, sono uscito entusiasta dalla mostra. Salti così, facevo.

Me l'avevano presentato come un'opera notevole, ed invece - sia maledetta la mia credulità e siano maledette le recensioni del primo che passa – era proprio la solita operina del solito registino italianino-ino-ino. Una robina che manco alla tivvù varrebbe la pena. Dice: ma c'era Toni Servillo, che è uno bravissimo. Embé?
Perché ogni cosa ha il suo nome, e quindi i farabutti li dobbiamo chiamare farabutti - magari bestemmiando a cuore aperto come fa il personaggio interpretato da Silvio Orlando - e gli amici amici, la merda merda e l'amore amore. Perché le parole (come diceva quello: ahi ahi ahi ahi...) sono importanti.

























































Inviate a tic una lista dei vostri orrori preferiti. Se mi spaventeranno il giusto, ne farò un post...