Me lo ricordavo bello, ma non così bello.
Conobbi la musica di mister Bragg nel 1984, con un disco (eh, si... Era proprio così che si diceva, allora: disco. Non usa più...) che si intitolava Brewing Up With Billy Bragg. Ma era già da un po' di tempo, almeno un anno, che avevo sentito parlare di questo inglese dal notevolissimo nasone che se ne andava in giro, di palco in palco (di piccolo palco in piccolo palco...), trascinandosi dietro una chitarra elettrica e un amplificatore e presentandosi al mondo in questa maniera folgorante: “Quando un artista folk sale sul palco con la sua chitarra, può pensare di essere James Taylor o Bob Dylan. Quando ci salgo io, penso di essere i Clash”.
E, credete a me: appena appoggiavi la puntina (eh, già... Proprio la puntina del giradischi) sui solchi del vinile e It says here letteralmente esplodeva, capivi che era vero. Ci si poteva fare airwaving, sulla prima canzone di Brewing up... Pareva veramente che fossero Joe, Mick, Paul & Topper, a suonare. Ed invece era Billy Bragg quello che stava incendiando, se non il mondo, il tuo mondo, in quel momento. Pennate secche sulle corde della chitarra, riff veloci e compatti e una voce che dovevi avere i testi sotto mano, altrimenti le parole non le capivi: non era proprio l'inglese che ci insegnavano a scuola quello che usciva dalle casse del mio stereo da poveretto.
E che belle cose aveva messo insieme, il laburista Billy Bragg. Elegie per la povera gente e fucilate al Sun e al Daily Mirror (quei giornalacci dove “la politica si mescola al bingo e alle tette/ in un gioco di soldi e cifre”), canzoni piene di rabbia, di furori nient'affatto astratti, di ironia e di amore per la vita. Come era possibile non rimanere incantati da uno che se ne usciva in questo modo: “Sono cresciuto con la soggezione/ Per la ragazza della porta accanto”? Si, era decisamente per me che cantava, il nasone: per la mia terribile timidezza e per tutte quelle volte che me ne stavo in disparte, per conto mio, a spiare le vite degli altri, ben più che per le mie incazzature adolescenziali, quasi sempre sorde e cieche come le incazzature a quell'età hanno la ventura di essere.
Avevo appena compiuto diciott'anni, nel 1986, quando uscì il “difficult third album” di Billy Bragg che apriva con un Johnny Marr schitarrante in una canzone magnifica dedicata alla brunetta Shirley (“I'm celebrating my love to you/ with a pint of beer and a new tattoo”), una tipa interessante, pareva (“Shirley, sei tu l'unico motivo che mi fa alzare dal letto prima di mezzogiorno”). Nelle chiacchierate sulla poesia con l'uomo delle tasse ci trovavi l'amore e la politica, “thoughts of lust” e protest songs urlate a pieni polmoni in faccia a Margaret Thatcher e Ronald Reagan. E a volte non capivi di che cosa si stesse parlando, veramente: Billy Bragg non ignorava, infatti, che si può finire per amare appassionatamente la politica anche solo perché non c'è proprio nient'altro, intorno a te, da poter amare (“Un uomo può passare un bel po' di tempo/ Chiedendosi cosa avesse in mente Jack Ruby/ E il tempo è tutto ciò che mi resta qui senza di te”). Non c'era nessuna autoindulgenza, nella sua poetica, e la retorica magari veniva sfiorata ma (quasi...) sempre evitata, nella consapevolezza che una canzone politica non dovrebbe mai assomigliare ad un comizio. Dirà qualche anno più tardi, in una delle sue canzoni più belle, Waiting For The Great Leap Forward: “Mischiare pop e politica, mi chiedono che senso abbia/ io rispondo offrendo il mio imbarazzo e le mie solite scuse”. E sembra proprio di avercelo davanti, quel suo sorriso gentile.
La Motown fu una vera e propria fabbrica di hit da classifica, negli anni Sessanta: canzoni pop scritte da neri e cantate da neri, ma pensate per poter piacere anche ai bianchi (il che è come dire "scritte per tutti", naturalmente), caramelle che, nei primi anni di vita del marchio, giravano quasi esclusivamente a 45 giri, dolcificate con fiati, violini e voci di supporto di taglio gospel, il ritmo quasi sempre a quattro tempi. Sì, sfornava hit a getto continuo, la Motown: Smokey Robinson and the Miracles erano Motown, così come Martha Reeves and the Vandellas; i Temptations erano Motown, come Gladys Knight; le Supremes di Diana Ross erano Motown, come i Four Tops di Levi Stubbs.
Il periodo d'oro dell'etichetta fu senza dubbio quello che va dal 1963 al 1968: gli scrittori di canzoni della Motown, prima il trio Holland-Dozier-Holland e poi Norman Whitfield e Barrett Strong
(quelli, per capirci, di I heard it through the grapevine. Tra le altre cose...), fecero ballare l'America (e non solo l'America) negli anni delle lotte per i diritti civili e della guerra in Vietnam, della liberazione sessuale e del rock che diventava adulto con Bob Dylan, i Beatles, gli Stones e metteteci pure chi volete voi, che io rischio di mettercene troppi.
Quando le cose vanno a pezzi, canta Billy Bragg, i Four Tops rimangono al loro posto. Perché le loro canzoni sono sempre lì, e sono state scritte proprio per te. E' una storia commovente, quella che viene raccontata: una cronaca di poveri amanti sbagliati, di violenza domestica e di ferite dell'anima, quelle per cui non c'è cura.
Alla protagonista resta però la forza di metter su un nastro (un nastro...) dei Four Tops. E di piangere le lacrime di Levi Stubbs.
“When the world falls apart, some things stay in place”: se la musica pop significa per voi quello che significa per me, non c'è bisogno di dire altro.
Un capolavoro, avrete inteso.
6 commenti:
al secolo Steven Williams....questo nome gli costò un arresto. GRANDE BILLY e GRANDI LE SUE BATTAGLIE PACIFISTE.
Billy Bragg! :-)
Indimenticabili due suoi concerti di fine anni '80, a Roma.
Due ore sul palco, solo voce e chitarra elettrica, e un cuore grande come un dirigibile...
Non c'è più stato un altro come lui.
Si, è stato un grandissimo. Nei miei anni Ottanta. E pure nei tuoi, vedo.
Beh, pure adesso. :-)
Ho smesso di correr dietro al mercato musicale, ma mi piace cantare per fatti miei.
Mentre rileggevo il testo di "Levi Stubb's Tears" me lo ricantavo, e mi sono accorto di un refuso:
non è "Are here to make everything right that's wrong", bensì "Are here to make right everything that's wrong".
(e poi, beccati questo: http://youtube.com/watch?v=I4v8VJ0LRgA)
Oooops!
Provvedo immmediatamente.
In effetti...
Thanks a lot,
tic
Posta un commento