Secondo De Maistre, il gran reazionario, “ogni degradazione individuale o nazionale è immediatamente annunciata da una degradazione rigorosamente proporzionale del linguaggio”.
Penso avesse ragione da vendere. Fate la prova: aprite bene le orecchie e provate ad ascoltare i miei e vostri connazionali. Che lingua parlano? Eh? Con quali parole si esprimono?
Ascoltateli con attenzione: non credo sia una cosa brutta, non vi sto proponendo di adottare il punto di vista del visitatore di un giardino zoologico davanti alle bestie in gabbia, per intenderci. Ma quello, in genere affettuoso, dell'entomologo di fronte ai propri insetti. Ascoltarli parlare (concentrandosi, badate, sul lessico usato, non sulle cose dette) non è in fondo un modo per prendersi cura di loro, almeno un po'? Perciò fatelo senza particolari scrupoli. Quando potete. E poi mi direte. Secondo me si capisce molto bene perché il nostro povero Paese stia andando a ramengo.
Ho deciso di pubblicare alcuni testi che trattano della questione della lingua. O meglio, di come la lingua italiana, negli ultimi decenni, sia stata sistematicamente (programmaticamente, direi) stuprata. Sono firmati da gente che sapeva benissimo che “ogni degradazione individuale e nazionale è annunciata da una degradazione rigorosamente proporzionale del linguaggio”.
Cominciamo con un testo di Leonardo Sciascia pubblicato nella rubrica Quaderno, sul quotidiano L'ora di Palermo, il 30 gennaio 1965. Occhio a quanto Sciascia scrive di Aldo Moro (del “mito” Moro...). Ho scelto di evidenziare in neretto alcune parole.
LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Una conferenza tenuta da Pasolini in varie città d'Italia, ha scatenato sulla questione della lingua penne più o meno illustri, più o meno competenti, più o meno cariche di malumori e veleni. Ognuno ha voluto dire la sua, e spesso facendo dire a Pasolini quello che non ha detto. I più, infatti, lo hanno accusato di aver voltato gabbana, di essersi convertito alla lingua tecnologica, di comunicazione, del nord: e di avere, per conseguenza ripudiato la lingua di espressione del sud, là dove, invece, Pasolini si era limitato a constatare lo spostamento linguistico dall'asse Roma-Firenze all'asse Torino-Milano, cioè l'insorgere di una lingua che io chiamerei “manageriale”, nella quale viene sì a risolversi il lungo processo di eliminazione dei particolarismi linguistici, e dunque l'avvento di una lingua finalmente unitaria, ma con conseguenze che sarebbero poi una specie di perdita dell'anima.
Constatazione, questa, che Pasolini fa non senza dolore ed orrore: così come un medico, per quanto addolorato, non può fare a meno di registrare il decesso di un paziente; che sarebbe, in questo caso, l'asse linguistico Roma-Firenze.
Personalmente non ho mai avuto problemi linguistici se non nel senso della ricerca della chiarezza. E sono convinto che scrittori come Pirandello, come Saba, come Moravia, abbiano portato abbastanza avanti il processo di unificazione tra lingua letteraria e lingua parlata. Anzi: sono convinto che Moravia l'abbia addirittura risolto. Se poi questa soluzione non è valida per tutti i livelli della società italiana, ciò si deve al fatto che la società italiana ha, a tutt'oggi, dei livelli irraggiungibili. Considero dunque come artificioso e mistificatorio, come alibi di individuali impotenze (che raggruppandosi formano però una forza, una potenza teorizzatrice), quella specie di grido di dolore per la lingua che non c'è che da qualche parte si leva. “Se ci fosse davvero una lingua italiana moderna, lubrificata, quali grandi cose scriveremmo!”, molti hanno l'aria di dire. Mentre, al contrario, sono le grandi cose da dire che fanno la lingua.
Una conferenza tenuta da Pasolini in varie città d'Italia, ha scatenato sulla questione della lingua penne più o meno illustri, più o meno competenti, più o meno cariche di malumori e veleni. Ognuno ha voluto dire la sua, e spesso facendo dire a Pasolini quello che non ha detto. I più, infatti, lo hanno accusato di aver voltato gabbana, di essersi convertito alla lingua tecnologica, di comunicazione, del nord: e di avere, per conseguenza ripudiato la lingua di espressione del sud, là dove, invece, Pasolini si era limitato a constatare lo spostamento linguistico dall'asse Roma-Firenze all'asse Torino-Milano, cioè l'insorgere di una lingua che io chiamerei “manageriale”, nella quale viene sì a risolversi il lungo processo di eliminazione dei particolarismi linguistici, e dunque l'avvento di una lingua finalmente unitaria, ma con conseguenze che sarebbero poi una specie di perdita dell'anima.
Constatazione, questa, che Pasolini fa non senza dolore ed orrore: così come un medico, per quanto addolorato, non può fare a meno di registrare il decesso di un paziente; che sarebbe, in questo caso, l'asse linguistico Roma-Firenze.
Personalmente non ho mai avuto problemi linguistici se non nel senso della ricerca della chiarezza. E sono convinto che scrittori come Pirandello, come Saba, come Moravia, abbiano portato abbastanza avanti il processo di unificazione tra lingua letteraria e lingua parlata. Anzi: sono convinto che Moravia l'abbia addirittura risolto. Se poi questa soluzione non è valida per tutti i livelli della società italiana, ciò si deve al fatto che la società italiana ha, a tutt'oggi, dei livelli irraggiungibili. Considero dunque come artificioso e mistificatorio, come alibi di individuali impotenze (che raggruppandosi formano però una forza, una potenza teorizzatrice), quella specie di grido di dolore per la lingua che non c'è che da qualche parte si leva. “Se ci fosse davvero una lingua italiana moderna, lubrificata, quali grandi cose scriveremmo!”, molti hanno l'aria di dire. Mentre, al contrario, sono le grandi cose da dire che fanno la lingua.
Ma Pasolini non è da confondere col coro che lamenta la lingua che non c'è. Egli ha, di solito, esatta percezione del farsi delle cose: e nel suo discorso ha colto un fenomeno che viene ineluttabilmente svolgendosi nella società italiana, cioè l'avvento di un linguaggio fabbricato negli ambienti “manageriali”, un linguaggio di comunicazione. Solo che questo linguaggio è soltanto un gergo furbesco, come giustamente è stato osservato: e non è poi vero che sia totalmente depurato da ombre e sfumature espressive. E' il gergo, insomma, dei caroselli televisivi, dei presentatori tipo Bongiorno, degli uomini politici: e contiene aspirazione alla persuasione, alla stupidità, alla felicità. Non una lingua, dunque, ma un gergo: e il constatarne l'esistenza è come porre un corollario a quella teoria della “managerial revolution” che sarebbe il caso di tornare a verificare. Insomma, la rivoluzione dei dirigenti tecnici porta la conseguenza di una rivoluzione linguistica che in Italia, in ultima analisi, rischia di provocare una specie di petrarchismo tecnologico.
La lingua di Moro
Non ho ancora letto il testo della conferenza di Pasolini: ho letto una sua risposta alle critiche che gli erano state mosse, e molte di queste critiche. Per sentito dire, dunque, so che Pasolini ha indicato come carta della nuova lingua il discorso che l'onorevole Moro pronunciò alla inaugurazione dell'autostrada del Sole.
L'onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza noto, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull'asse Milano-Torino. E dell'uomo politico meridionale ha tutte le qualità, e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell'oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Fracalanza rivolge ai suoi elettori nei Vicerè di Federico De Roberto: discorso di magistrale non dire relativamente ai problemi di cui essi elettori erano individualmente e collettivamente gravati, e spaziante con vaga disinvoltura nei cieli della politica estera e coloniale, della potenza patria, del prestigio internazionale. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l'onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. E' sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele: che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete. E chi l'ha sentito e visto in televisione non può non condividere l'impressione dell'ineffabile non senso che l'onorevole Moro comunica. “Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto!”
Se dunque il “sao ko kelle terre” della nuova lingua è il discorso dell'onorevole Moro, è il caso di dire che stiamo freschi davvero.
Non ho ancora letto il testo della conferenza di Pasolini: ho letto una sua risposta alle critiche che gli erano state mosse, e molte di queste critiche. Per sentito dire, dunque, so che Pasolini ha indicato come carta della nuova lingua il discorso che l'onorevole Moro pronunciò alla inaugurazione dell'autostrada del Sole.
L'onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza noto, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull'asse Milano-Torino. E dell'uomo politico meridionale ha tutte le qualità, e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell'oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Fracalanza rivolge ai suoi elettori nei Vicerè di Federico De Roberto: discorso di magistrale non dire relativamente ai problemi di cui essi elettori erano individualmente e collettivamente gravati, e spaziante con vaga disinvoltura nei cieli della politica estera e coloniale, della potenza patria, del prestigio internazionale. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l'onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. E' sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele: che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete. E chi l'ha sentito e visto in televisione non può non condividere l'impressione dell'ineffabile non senso che l'onorevole Moro comunica. “Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto!”
Se dunque il “sao ko kelle terre” della nuova lingua è il discorso dell'onorevole Moro, è il caso di dire che stiamo freschi davvero.
6 commenti:
Mi sfugge una cosa: posto che non dobbiamo osservarli (osservarci?) come animali in gabbia ma come entomologi (forse perche' gli insetti passano tra le sbarre?), cosa, di preciso, dovrei osservare? Il fatto che la lingua parlata si stia modificando? Il fatto che una lingua sia anche gergale? Il fatto che esista una terminologia che non e' piu' appannaggio dei puri economisti? O il fatto che si italianizzino termini inglesi appartenenti a quel gergo? O il fatto che utilizzino termini non usati nel Sapegno? Sono i dizionari che vengono aggiornati di anno in anno rispetto alla lingua parlata o e' il contrario? Chi scrisse 'stette la spoglia immemore orba di tanto spiro' forse avrebbe giudicato Moravia poco rispettoso dell'italica lingua. Non lo so, non sarei cosi' ortodosso in un P/paese che ha unificato la lingua attraverso una trasmissione tv, mentre oggi ci scandalizziamo che tanta ggente guardi la stessa tv (il paese di mamma Rai) e da essa continui ad imparare. Lei ha sempre parlato molto bene dell'America, o meglio degli Usa. Eppure parlano da sempre una lingua che assomiglia all'inglese (ma non lo e'), dove si usa 'wanna' per 'want to', 'gonna' per 'going to', lingua che in patria cambia velocemente e di zona in zona a seconda del modificarsi delle componenti culturali immigrate.
Insomma, mi sembra che sia uno dei tanti scandali di paese, una 'mise' francese in un paesino dell'abruzzo. Un affare tutto italiano. Condannerei piuttosto modelli comportamentali, i grandi fratelli, i non-film/non-sceneggiati fiction tv (sembrano i romanzi editi reader's digest), la miseria di certi orizzonti che molti si pongono. Nulla a che vedere con una lingua che non ha mai identificato un popolo (parli veramente con un toscano e le dira' che lui parla italiano e lei no), che e' unificata dalla tv solo da 40 anni, che non identifica una nazione o una patria (lo so ne abbiamo gia' parlato, ma Austria e Germania hanno ripreso strade separate dopo una breve parentesi 'democratica', e pensare che ero io quello di estrema destra).
Di nuovo quel mio difettuccio. Mi scusi: Austria e Germania hanno la stessa lingua (altro che Abruzzo e Piemonte) ma non sono lo stesso Stato, ne' la stessa Patria, ne' la stessa Nazione. Anche se qualcuno ha tentato di dire che lo erano. Non e' durato molto.
Senta cosa mi ha chiesto pochi giorni fa (con una punta di fastidio, sembrava, per una 'modernità' molto esibita da parte di certi connazionali, però, in tuta evidenza, malissimo digerita) un visitatore del mio blog:
"Scusate l'OT, ma in termini di possibile snobismo lessicale o gergale vorrei levarmi un dubbio: 'class action' e' mobilitazione di categoria?".
Bello il suo primo post. Mi ci vorrebbe un'ora per rispondere, a modo mio, a tutte le sue domande.
Osservo solo che certi modelli comportamentali sono ANCHE dei linguaggi parlati.
La lingua si modifica, certo. Le lingue, con l'uso, si modificano. In CHE COSA, è questo il punto. In meccanismi SIGNIFICANTI? O in aria ai denti?
E' vero, l'avevo chiesto, e, confermo, con una grossa punta di fastidio. Perche' da fastidio anche a me. Ma veramente non capivo cosa si condannasse nel suo post, quale aspetto del 'degrado'. Compreso questo pero' io incoscentemente non vedo il pericolo per tutti, lo vedo per alcuni, ma lo considero parte di una mutazione costante, muta tutto, anche l'espressione della condizione di 'ggente'. Ci saranno nuovi modi di essere patrizi e nuovi modi di essere plebei. Solo che oggi abbiamo la totale visuale sulla condizione altrui e rischiamo di spaventarci di piu'. Ritengo che assi Firenze Roma o Milano Torino siano provincialmente superati a quarant'anni di distanza, e questo non mi spaventa, crea opportunita', ma, certo, anche nuove classi di stolti. Sara' un problema loro.
Tra l'altro, ha notato la grossa contraddizione del mio citato post? Mi lamentavo di 'class action' ma esordivo con 'scusate l'OT' (Off Topic, una sorta di 'fuori tema'): sono autoindulgente e quindi dico che non me ne sono neanche accorto perche' non c'era snobismo, ma praticita' gergale. Come tutti gli strumenti, non esistono strumenti buoni e strumenti cattivi, esistono solo utilizzi buoni o cattivi che se ne fanno. Ma continueranno ad esistere intelligenti e stolti, colti ed ignoranti, ricchi e poveri, dik dik.
Nel post si condanna una lingua che pian piano (perché è da più di quarant'anni che va avanti, la cosa. E purtoppo senza soluzione di continuità)rischia di non significare più un cazzo di niente. Si condannano dei luoghi comuni linguistici, adoperati indifferentemente da patrizi e plebei, che sono solo flatus vocis. O forse si condanna solo, implicitamente, lo scarsissimo amore degli italiani per il silenzio.
Non me ne importerebbe una sega, sa. Il problema è che poi certa gente ti viene comunque tra i piedi. Perché compie delle scelte, governando. Perché vota dei coglioni, quando vota. Perché con i propri gusti di merda determina i temi e le mode del giorno e contribuisce a relegare le cose che a A ME stanno a cuore in qualche cantina o in qualche soffitta.
Bella quella sui ricchi e poveri e i dik dik. Mettiamoci pure i Camaleonti. Quello di loro che aveva i baffoni, tra l'altro, è uno degli esempi che faccio quando mi capita di parlare di comicità involontaria.
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