Chiedono al
Bokassa del Viagra (lo fa un inviato de
Le Iene: un suo dipendente, quindi) se egli si senta o meno “antifascista”. La risposta:
“Io penso solo a lavorare e a risolvere i problemi degli italiani”.
Il professor Augusto Monti cominciò ad insegnare italiano e latino presso il liceo classico «Massimo D'Azeglio», a Torino, nel 1924.
Aveva alle spalle molti anni di insegnamento in ginnasi e licei di mezza Italia, da Bosa a Chieri, da Reggio Calabria a Brescia.
Al «D'Azeglio», in cattedra, c'erano alcune figure notevoli, professori che lasciavano il segno, come ebbe a dire Norberto Bobbio: ad esempio Zino Zini (che insegnava filosofia, era comunista e aveva collaborato a L'Ordine Nuovo di Gramsci) e Umberto Cosmo (ex redattore de La Stampa ed ex neutralista, che insegnava italiano).
Monti finì ad insegnare nella sezione B (Bobbio era nella A), avendo per allievi Cesare Pavese, Massimo Mila, Giulio Einaudi.
Proprio Massimo Mila ne lasciò un ritratto indimenticabile.
Gli capitavamo tra le mani, dunque, appena emessi dal ginnasio, e lì per lì ci sbigottiva con la severità soldatesca dei modi e la fierezza del cipiglio dietro le lenti spesse da miope: un volto duro, tormentato, scavato da rughe profonde, un volto da “riformatore”, da persona a cui non piace il mondo così com’è, ma non ha nessuna intenzione di limitarsi a deplorazioni e piagnistei, bensì, a questo mondo, è fermamente decisa a cambiar la faccia. Erano gli anni che le ultime resistenze crollavano davanti al fascismo, e non c’era mattina che prima d’entrare in classe Monti non si fosse letto nel “Corriere della Sera” la sua razione quotidiana di notizie spiacevoli: Matteotti, il 3 gennaio, Amendola, Gobetti, a Torino le leggiadre imprese di De Vecchi e Brandimarte. Ma di queste cose noi non si sapeva nulla; a noi risultava soltanto che il professore d’italiano aveva sempre i nervi.
Guai se sentisse un bisbiglio in classe: certi colpi batteva sulla cattedra, che nessuno capiva come riuscisse a restare impassibile, col male che doveva farsi alle nocche. E se per caso, durante la lezione, avvertiva il rumore d’un temperino che cautamente tagliasse le pagine di un libro ( - Chi poteva immaginare, accidenti! Che avrebbe cominciato dalla fine? -), apriti cielo! Avevi finito di far bene.
Ma la scuola di Monti non tardava ad aprirsi in due settori ben distinti: le ore in cui “interrogava”, ed erano per i più – e pure per lui – l’inferno, che non si sapeva mai cosa diavolo volesse, certe domande ti faceva che nessun libro ne forniva la risposta, e se tu recitavi appuntino la lezione – biografia dell’autore, elenco delle opere e “giudizio”- lui ti ascoltava con una faccia come se gli stessi narrando di sua madre le peggiori infamie, e poi magari ti concedeva il sei, la sospirata sufficienza, ma con un sospiro di sopportazione, che tanto valeva ti dicesse in faccia quello che pensava: che sangue da una rapa non se ne può cavare.
Ma c’erano, e ben più numerose, le ore in cui Monti “spiegava”: ed erano il paradiso. La lezione culminava sempre nella lettura del testo; inquadramento storico, analisi stilistica, commento critico e spiegazione letterale dei passi difficili, tutto era semplicemente un aprire la strada e rimuovere ostacoli, perché avvenisse, alla fine della lezione, l’epifania, perché la lettura facesse la prova del nove di tutto quanto era stato spiegato, e quelle pagine che fino a poco prima t’erano parse magari nient’altro che un noioso vecchiume, si animassero meravigliosamente vive, giovani, ilari, entusiasmanti. (…) Monti a legger Dante, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Manzoni: che teatro! Quell’uomo così arcigno, all’aspetto, si faceva presto a scoprire ch’era l’uomo più divertente della terra, e c’era davvero chi, malato, si alzava da letto per non perdere l’ora in cui Monti spiegava e leggeva il settimanale canto di Dante. Quella scoperta dei classici, che in genere si fa per conto proprio dieci, venti, trent’anni dopo la scuola, quando d’essere un arnese di scuola i classici, appunto, hanno cessato, Monti te la faceva far lì, seduta stante, con un insegnamento che ripristinava la vita in tutte quelle cose che la scuola tende a imbalsamare.
Era la scuola della riforma Gentile: analisi estetiche, molto spirito e poca lettera, gran discorrere di “mondo poetico” e pazienza se non sai la data precisa della nascita di Ludovico Ariosto; puoi sempre andartela a vedere sul libro di testo o su un’enciclopedia, ma quell’altro la scuola ti deve apprendere – a leggere l’Ariosto , a gustare l’Orlando e le Satire, l’Ariosto sapere che è - ché se tutto ciò non lo impari direttamente da quelle ottave e da quelle terzine, attraverso la parola del maestro, nessun libro te lo potrà insegnare mai più.
(…) E guai se in classe, nell’ora di italiano, quando “spiegava”, Monti cogliesse qualche sgobbone che, la testa china sul banco, vergando all’impazzata la matita su un foglio, cercasse di quelle meravigliose spiegazioni, di fermare qualcosa per iscritto.
- Cosa fai, tu? cosa scrivi?
- Prendevo appunti…
- Porta qua.
Tric, trac, il foglio lacerato sulla faccia, i pezzi nel cestino, e il solito sermone, duro, severo, che se l’avesse sorpreso a giocare a tre sette col compagno di banco, non sarebbe stato tanto: - Non son cose da imparare a memoria, queste. Apri le orecchie. E il cervello, se l’hai. Poi rileggiti il testo, e ascolta quello che dice. Non c’è altro. Torna a posto. Ed era tutto così, a quella scuola, tutto ottenuto per vie che parevano indirette, e non erano. Tutto la negazione di quella bestialissima, fra le più bestiali invenzioni moderne, che è la propaganda. Idealismo involontario. Antifascismo involontario. In tre anni di quella scuola – e che anni! 1924-1927- mai che da quella cattedra una parola di “politica” si sia sentita cadere, se non fosse la politica del De Monarchia, del Principe, degli Ultimi casi di Romagna. Mai sentito la parola fascismo: Mussolini, De Vecchi, Gobetti, Amendola, Matteotti, nomi che mai si sentirono suonare in quell’aula.
Tu uscivi, da quel liceo, che manco sapevi qual governo ci fosse nel tuo paese. Ma tanti piccoli Bruti, si usciva, tanti odiator di tiranni, e pronti a mordere, ad azzannare, ed abili, alla prima occhiata che si desse fuor del nido, a riconoscere subito il marcio dove stava, e incapaci di chiuderci un occhio e farci l’abitudine. Macché: scomodi, duri, angolosi, tutto prender di petto, compromessi niente, “pensa a’ famiglia” niente, “e chi te lo fa fa” niente.
Di fronte a quei risultati Monti stesso rimaneva esterrefatto e costernato, e quando i suoi pulcini li vide filare, come montoni di Panurgo, chi al confino, chi nelle brigate internazionali di Spagna, chi in galera ( e naturalmente ci tirarono pure lui), si mise le mani nei capelli e cominciava perfino a giustificarsi e a tentare uno scarico di responsabilità.
- Mi dovete dar atto, che io in classe, di politica, mai una parola vi ho detto.
- Ma no; professore! Mai una parola. Cosa le viene in mente? Lei non c’entra. Ci lasci fare. Siamo noi che siamo fatti così.
Combinazione, tutti a quel modo erano fatti, di quell’Atlante, i Ruggeri.
Ragazzi (e poi uomini) straordinari che ebbero Augusto Monti maestro in classe o entrarono in contatto con lui per la sua attività di bibliotecario nel liceo torinese. Oltre a Mila, Einaudi e Pavese, Leone Ginzburg e Vittorio Foa, Norberto Bobbio e Tullio Pinelli.
Con loro il professor Monti si incontrava spesso anche fuori di scuola, per conversare e discutere, confrontarcisi e litigare: in centro a Torino, al caffè Rattazzi, o nelle piole di periferia.
Non volle mai iscriversi al PNF e perciò, nel 1932, temendo di essere cacciato dalla scuola, lasciò l'insegnamento.
Fu arrestato una prima volta nel '34. Il secondo arresto gli valse una condanna a cinque anni di carcere da parte del Tribunale Speciale. Non volle firmare, a 55 anni, una domanda di grazia e andò in galera senza far drammi, con stoica serenità: prima a Regina Coeli, poi a Civitavecchia
Subito dopo il suo arresto un funzionario dell’OVRA, alludendo agli altri arrestati, quasi tutti suoi allievi, gli chiese:
“Ma cosa insegnavate, voi, a scuola?”. Rispose:
“Ho sempre insegnato ai giovani ad amare e rispettare le idee”. “Ma quali idee?”. E Monti, lapidario:
“Le loro idee”.Quando qualcuno mi chiede che cosa sia, per me, l'antifascismo, io racconto questa storia.