In qualche modo l'Argentina ce l'ho dentro, io.
Un po' (un po' tanto) sono stati gli scrittori - Julio Cortázar, Ernesto Sabato, Roberto Arlt, Osvaldo Soriano, Manuel Puig, Tomás Eloy Martinez, Rodolfo Walsh, Adolfo Bioy Casares e... sì, pure Borges, anche se qui forse non dovrei citarlo, non sta bene – un po' le madres e le abuelas di Plaza de Mayo, e i loro figli e nipoti: perché c'è un posto, nel mio cuore, che appartiene solo a loro, alle vittime di quella che il generale Jorge Videla - capo della Giunta militare che prese il potere a Buenos Aires nel 1976 autodefinendosi "Processo di Riorganizzazione Nazionale" – chiamò guerra sucia, la 'guerra sporca'.
«Non è stata una repressione come quella scatenata più o meno negli stessi anni in altri paesi latinoamericani, quella dell'Argentina tra il 1976 e il 1982. Diversa non soltanto per il numero enormemente superiore dei desaparecidos ma anche perché i 30 mila di questo paese (...) sono stati il risultato di un lavoro 'scientifico', progettato e applicato meticolosamente in ogni angolo del paese; secondo i capi di Buenos Aires i nemici da abbattere non erano soltanto i 'sovversivi' armati o disarmati: i militari avevano deciso di far fuori un'intera generazione, quella dei giovani e degli adolescenti che, se non erano attivisti politici, rappresentavano in ogni caso un campo inquinabile dalle idee politiche. Un generale fu allora esplicito in pubblico: “Liquideremo prima i militanti, poi i loro simpatizzanti, infine gli indifferenti”».
Così scrisse un grande giornalista che purtroppo non c'è più, Joaquin Sokolowicz, e mi è già capitato di usare le sue parole la volta che ho parlato de Il ministero dei casi speciali, un grande romanzo di Nathan Englander sull'Argentina ai tempi della guerra sporca: i grupos de tareas che sequestravano i militanti, i simpatizzanti e pure gli indifferenti (quasi tutti finirono inghiottiti dal Leviatano); le Ford Falcon verdi che giravano per le strade, sorta di simbolo itinerante del terrore e della violenza della repressione; i luoghi di detenzione degli scomparsi - posti come la Escuela de Mecanica de la Armada - e la tortura; i voli della morte - di cui ha raccontato, in uno splendido, straziante libro, un altro grande giornalista, Horacio Verbitsky - con i quali gli assassini si sbarazzavano dei corpi dei desaparecidos gettandoli drogati dagli aerei nell'oceano.
In un'intervista a Roberto Carnero la scrittrice Elsa Osorio ha ricordato quegli anni di grande paura: «Anche chi, come me, non aveva nulla a che fare con la resistenza armata, ma aveva soltanto la colpa di essere uno studente universitario, non poteva uscire di casa tranquillo. Da un momento all’altro potevano prenderti e sbatterti in prigione. Magari solo perché avevi partecipato a una manifestazione per chiedere l’abbassamento del prezzo dei biglietti dell’autobus. Era un clima di terrore. Chiunque non era conforme poteva essere una vittima. Anni dopo avremmo conosciuto nei dettagli quanto di orrendo il regime militare aveva messo in pratica, ma già allora non si poteva non sapere, non era facile girarsi dall’altra parte».
Nella scrittura di Elsa Osorio centrali sono il ricordo di quegli anni infami e il proposito di «mantenere viva la memoria» delle perdite irreparabili e delle offese subite.
Forse chi mi sta leggendo già conosce I vent'anni di Luz, un suo romanzo meritatamente celebrato.
In libreria, adesso, potete trovare una raccolta di tredici racconti, Sette notti d'insonnia.
Alcuni sono sul serio magistrali, credetemi: non è da tutti saper evocare una tragedia, personale e collettiva, semplicemente con dei puntini di sospensione (accade in Le lettere di Juan, verificate) né immaginare storie come Pianto o Sette notti d'insonnia, dove il presente riesce a prendersi le sue belle rivincite sul passato e sul terrore, oppure - la più toccante di tutte, per me - Il film di Mónica, dove l'Argentina e ciò che è stato, visti da Barcellona, non sono altro che “un mucchietto di miseria” che qualcuno odia ferocemente e qualcun altro, invece, non riesce a smettere di amare nonostante tutto, in un ribaltamento di prospettiva e di senso davvero fulminante.
Mi permetto di consigliarvela, insomma, la lettura di Elsa Osorio.
Tra l'altro, e per tornare un po' da dove sono partito, per amare (e capire, o almeno per provare a capire) l'Argentina e gli argentini, essere italiani aiuta non poco, secondo me.