Il quotidiano la Repubblica ha recentemente intervistato Stefano Massini, 33 anni, autore e regista teatrale fiorentino, dieci testi scritti - tradotti e rappresentati in mezzo mondo, da Parigi a Los Angeles – scritti in sei anni.
Profeta pure in patria, il nostro, eh: nel nostro povero Paese, infatti, Massini ha avuto qualcosa come quattrocento repliche in quattro anni.
Nella sua Firenze, però, non se lo cagano nemmeno di striscio, parrebbe. Scrive infatti Paola Zanuttini che “se in Italia Masini ha avuto quattrocento repliche in quattro anni, a Firenze ne ha avute solo due, fuori abbonamento, per Processo a Dio”.
Non è – sostiene Massini – un problema solo suo: «altri autori, attori e registi fiorentini che fuori spopolano qui non sono in cartellone».
E cosa c'è in cartellone?
«È un discorso lungo. La cultura leghista non attecchisce solo al Nord e le spinte localistiche e identitarie sono forti dappertutto, anche qui: a Firenze, il grosso dell'offerta teatrale è costituito da compagnie amatoriali che propongono il repertorio dialettale, detto vernacolare».
Qualche titolo?
«I' nipote di Sor Priore, La mi' socera la fa le faville, o L'acqua cheta di Augusto Novelli, autore primo 900 sconosciuto ai più che in città è un vero cult. Il brutto è che nei teatri veri i famigerati nuovi comici toscani, genere Benvenuti, Monni, Pieraccioni-Panariello-Ceccherini, fanno le stesse cose a livello professionale».
Molto informato dei fatti.
«Io ho studiato Archeologia, ma il teatro mi è sempre piaciuto, dalle recite scolastiche in poi. Da ragazzo facevo il tecnico nelle compagnie amatoriali e ho scoperto una cosa fondamentale: più che sapere cosa vuoi fare, devi sentire cosa non vuoi fare. Io ho sentito che delle radici, del dire al mondo quanto è buona la ribollita non me ne fregava niente».
Ci sono tantissimi autori che hanno riscoperto il dialetto.
“C'è differenza fra riscoprire il dialetto e creare una lingua, come fece Gadda e fanno tanti miei colleghi, da Enzo Moscato a Napoli a Franco Scaldati a Palermo. Poi, quello dei nuovi comici, di molto cinema e della fiction non è neanche dialetto: è calata. Agli inizi della tv, Umberto Eco disse che avrebbe contribuito a creare l'italiano, oggi salvaguarda la calata: da Milano in giù».
È la tv a salvaguardare “la calata”, naturalmente: non Umberto Eco, se non si fosse capito.
E comunque, tutto il mondo è paese. Decisamente.
Voi non potete avere idea di quante volte sono stato criticato (e aspramente, ostia!), quando facevo l'assessore alla Cultura, perché rifiutavo risolutamente di inserire nel cartellone del teatro comunale commedie dialettali et similia.
Profeta pure in patria, il nostro, eh: nel nostro povero Paese, infatti, Massini ha avuto qualcosa come quattrocento repliche in quattro anni.
Nella sua Firenze, però, non se lo cagano nemmeno di striscio, parrebbe. Scrive infatti Paola Zanuttini che “se in Italia Masini ha avuto quattrocento repliche in quattro anni, a Firenze ne ha avute solo due, fuori abbonamento, per Processo a Dio”.
Non è – sostiene Massini – un problema solo suo: «altri autori, attori e registi fiorentini che fuori spopolano qui non sono in cartellone».
E cosa c'è in cartellone?
«È un discorso lungo. La cultura leghista non attecchisce solo al Nord e le spinte localistiche e identitarie sono forti dappertutto, anche qui: a Firenze, il grosso dell'offerta teatrale è costituito da compagnie amatoriali che propongono il repertorio dialettale, detto vernacolare».
Qualche titolo?
«I' nipote di Sor Priore, La mi' socera la fa le faville, o L'acqua cheta di Augusto Novelli, autore primo 900 sconosciuto ai più che in città è un vero cult. Il brutto è che nei teatri veri i famigerati nuovi comici toscani, genere Benvenuti, Monni, Pieraccioni-Panariello-Ceccherini, fanno le stesse cose a livello professionale».
Molto informato dei fatti.
«Io ho studiato Archeologia, ma il teatro mi è sempre piaciuto, dalle recite scolastiche in poi. Da ragazzo facevo il tecnico nelle compagnie amatoriali e ho scoperto una cosa fondamentale: più che sapere cosa vuoi fare, devi sentire cosa non vuoi fare. Io ho sentito che delle radici, del dire al mondo quanto è buona la ribollita non me ne fregava niente».
Ci sono tantissimi autori che hanno riscoperto il dialetto.
“C'è differenza fra riscoprire il dialetto e creare una lingua, come fece Gadda e fanno tanti miei colleghi, da Enzo Moscato a Napoli a Franco Scaldati a Palermo. Poi, quello dei nuovi comici, di molto cinema e della fiction non è neanche dialetto: è calata. Agli inizi della tv, Umberto Eco disse che avrebbe contribuito a creare l'italiano, oggi salvaguarda la calata: da Milano in giù».
È la tv a salvaguardare “la calata”, naturalmente: non Umberto Eco, se non si fosse capito.
E comunque, tutto il mondo è paese. Decisamente.
Voi non potete avere idea di quante volte sono stato criticato (e aspramente, ostia!), quando facevo l'assessore alla Cultura, perché rifiutavo risolutamente di inserire nel cartellone del teatro comunale commedie dialettali et similia.
Passavo da schizzinoso, da schifiltoso, da snob. Ma, ve lo confesso, non me fregava proprio niente di niente.
Perché trovavo e trovo oscena quella che Massini chiama “cultura leghista”. Perché trovavo e trovo inquietante la cultura (?) del maso chiuso. Perché, quando sento la parola “identità”, io tiro fuori il mio revolver.
En passant vi consiglio pure un bel libriccino, di quelli che allontanano i politici dal popolo (se qualcuno mi avesse dato un euro per tutte le volte che mi son sentito dire dal mio sindaco di leggere di meno e di ascoltare invece di più la “nostra gente”, adesso sarei ricco): Eccessi di culture, di Marco Aime. Edizioni Einaudi.
Posso capire (almeno credo...): nel caos generale – costumi che mutano, garanzie che evaporano – sono molti i soggetti deboli (innanzitutto culturalmente deboli, spesso anche socialmente deboli) che si aggrappano disperatamente a un'identità, come dei naufraghi a un relitto. Che si tratti poi di identità nazionale, identità religiosa, identità razziale, si intende in ogni caso un bene rifugio in cui ci si ritrova come gruppo, entro il quale ci si sente NOI, noi contro tutto e tutti: zingari e fannulloni, islamici e rumeni, immigrati clandestini e casta politica.
Posso capire, ma finisce lì.
Non scatta l'immedesimazione, perché non può scattare: io sono quel che sono e non ci posso fare proprio nulla.
E non scatta nemmeno la pietà, per fortuna: trovo che la pietà sia un sentimento orribile.
Come uomo politico non ero il cinico che passavo per essere, insomma.
Perché trovavo e trovo oscena quella che Massini chiama “cultura leghista”. Perché trovavo e trovo inquietante la cultura (?) del maso chiuso. Perché, quando sento la parola “identità”, io tiro fuori il mio revolver.
En passant vi consiglio pure un bel libriccino, di quelli che allontanano i politici dal popolo (se qualcuno mi avesse dato un euro per tutte le volte che mi son sentito dire dal mio sindaco di leggere di meno e di ascoltare invece di più la “nostra gente”, adesso sarei ricco): Eccessi di culture, di Marco Aime. Edizioni Einaudi.
Posso capire (almeno credo...): nel caos generale – costumi che mutano, garanzie che evaporano – sono molti i soggetti deboli (innanzitutto culturalmente deboli, spesso anche socialmente deboli) che si aggrappano disperatamente a un'identità, come dei naufraghi a un relitto. Che si tratti poi di identità nazionale, identità religiosa, identità razziale, si intende in ogni caso un bene rifugio in cui ci si ritrova come gruppo, entro il quale ci si sente NOI, noi contro tutto e tutti: zingari e fannulloni, islamici e rumeni, immigrati clandestini e casta politica.
Posso capire, ma finisce lì.
Non scatta l'immedesimazione, perché non può scattare: io sono quel che sono e non ci posso fare proprio nulla.
E non scatta nemmeno la pietà, per fortuna: trovo che la pietà sia un sentimento orribile.
Come uomo politico non ero il cinico che passavo per essere, insomma.
Io proprio non ci riuscivo, a dire: “Volete la merda, dunque, gente mia bella gente? E allora eccovela, la merda! Prendete e mangiatene tutti! E ricordatevi, al momento del voto, di chi vi ha nutrito a merda, mi raccomando...”.
Non ci riuscivo.
Perciò, come assessore, ero decisamente l'uomo sbagliato nel posto sbagliato.
Ne ho preso atto, a un certo punto, come ben sapete.
Non ci riuscivo.
Perciò, come assessore, ero decisamente l'uomo sbagliato nel posto sbagliato.
Ne ho preso atto, a un certo punto, come ben sapete.
11 commenti:
stò MASSINI mè somigia a POWLEAN (da ascoltare) Liam
Bof, c'è anche chi considera "merda" Harry Potter, Via col vento o Stephen King. Per quanto mi riguarda, se tutta la cultura fosse dialetto nostrano sarebbe tristissima, ma se fosse solo Il mulino del Po magari sarebbe ancora peggio.
Ah, poi c'è anche chi considera "merda" Davidaic, pensa tu...
@tic. me lo accaparro sicuro il libro sugli eccessi di culture. già solo la copertina mi ha mandato in visibilio. a parte questo, è vero che quelli che studiano archeologia poi finiscono a far cose che non c'entrano una bega.
@yod. hah davidaic ist scheisse (e la parola da digitare è SAYSE hehehe).
La parola "identità" è sinistra...semplicemente perché implica l'esclusione dell'altro, ovvero di quello che non si identifica nell'identità maggioritaria o dominante.
Qui in Francia il discorso è evidente. La laicità che trae principio dal laos, il popolo primigenio, è per definizione esclusiva dell'identità. L'unica identità possibile è la Repubblica, i valori repubblicani di libertà, uguaglianza, solidarietà che non escludono nessuno...
Il modello comunitarista e identitario all'anglosassone storicamente ha fomentato e fomenta i ghetti...
Sì.Vive la République!
@ Zim: e allora, che c'è di strano? Un po' tutti vanno a far quello che capita. Ma non lo vedo negativo. Mi consolo pensando che Sedaris ha fatto di tutto, Hoeg era marinario e ballerino, Lindqvist un clown, Chuck lasciamo perdere... Per cui chissà dove possiamo arrivare noi! ;)
E Davidaic c'ha una sua dignità. per esempio, mi fa sembrare intelligente.
ti ho assegnato il premio symbelmine, caro tic...
Grazie, Manfredi.
Troppo buono...
Da maldestro praticante delle tavole di un teatro (più uno scantinato, per la verità, ma animato da talenti VERI), devo convenire con te, caro Tic. In Italia non è morto solo il teatro, è morta l'idea stessa di teatro. quelle rare volte che sono andato in scena mi è parso di officiare un rito voodoo.
Rassegnamoci, perché è una cosa che la televisione ci ha tolto, forse per sempre, e non saranno pochi ostinati a farla rinascere, per quanto eroici e capaci.
E' il segno dei tempi... purtroppo.
Sì.
Temo proprio sia così.
Negli ultimi anni la domanda che mi sentivo rivolgere con più frequenza, prima di uno spettacolo teatrale, è la seguente: "Assessore, ma quanto dura?".
Se rispondevo "Due ore" o "due ore e mezza", dovevi vedere le facce.
Succede perché la gente, a teatro, non ha il telecomando in mano...
E la cosa più frustrante, caro Marco, è che di certe cose chi fa politica NON può parlare pubblicamente.
Non avrebbe senso denunciare il problema.
Ti accuserebbero di disprezzare la gente, se tu lo facessi. Di non capirli. Di non capire il loro mondo.
E la politica quindi, che già di suo si adatta volentieri allo Zeitgeist, si adatta.
Sinistra e destra non fa differenza, credimi.
Anzi, la sinistra, adesso come adesso è pure peggio.
Perché ha una storia, alle spalle: per la sinistra italiana tutta, la Cultura era qualcosa di importantissimo, una volta.
E la sinistra ha svenduto allegramente pure questa parte della sua storia.
Dovresti conoscere alcuni dei bei tomi che conosco io, Marco, per capire quanto, alla sinistra, importi della cultura.
Monfalcone è provincia della provincia, certo.
Ma mica sta sulla luna.
Ciau.
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