Qualche tempo fa
Massimo D'Alema ha sostenuto (magari lo ricorderete, nel mio piccolo ne ho scritto pure io, il 19 dicembre scorso) che
“a volte l'inciucio serve”, che
“per i comunisti italiani c'è sempre stato” e guai se non ci fosse stato: certi inciuci hanno costruito la convivenza in Italia. Al giorno d'oggi è tutto più complicato e
“invece sarebbero utili anche adesso”. Purtroppo, però, l'azionismo radicale, una cultura politica
“che non ha mai fatto bene al Paese”, lo impedisce. E questa è Storia, cari miei:
“c'è sempre stato qualcuno più a sinistra, una cultura azionista che ha sempre contestato...”.
Cosa?
Ma per esempio l'articolo 7 della Costituzione repubblicana, definito dal nostro “il primo grande inciucio”. L'articolo 7, avete presente? Quello che recepiva nella legge fondamentale della Repubblica i Patti Lateranensi firmati nel 1929 dalla Chiesa cattolica e da Benito Mussolini.
Insomma, nella storia della politica italiana, gli azionisti hanno sempre lavorato ai fianchi i realisti di sinistra à la D'Alema, e sapeste che due palle, compagni... 'sti azionisti: sempre a ronzare, stanno. Sempre a mozzicare, come si direbbe dalle parti di Roma.
Mercoledì scorso è uscito su la Repubblica un editoriale firmato da Gustavo Zagrebelsky (titolo: Il sospetto) che sembra prendere molto sul serio (tremendamente sul serio) i presupposti del sopracitato ragionamento politico del Massimo dei minimi.
«Il veleno del sospetto non circola solo tra le forze politiche, ma anche tra i cittadini e i partiti che li rappresentano. Nell'opposizione, che subisce l'iniziativa della maggioranza, si fronteggiano per ora sordamente, due atteggiamenti dalle radici profonde. L'uno è considerato troppo “politico”, cioè troppo incline all'accordo, purchessia; l'altro, troppo poco, cioè pregiudizialmente contrario. Sullo sfondo c'è l'idea, per gli uni, che in materia costituzionale l'imperativo è di evitare l'isolamento, compromettendosi anche, quando necessario; per gli altri, l'imperativo è, al contrario, difendere principi irrinunciabili senza compromessi, disposti anche a stare per conto proprio. La divisione, nella sua profondità, è stata spiegata ricorrendo alla storia della sinistra: da un lato la duttilità togliattiana (che permise il compromesso tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana sui Patti Lateranensi), dall'altro l'intransigenza azionista (che condusse il Partito d'azione all'isolamento).
Tali paragoni, indipendentemente dalla temerarietà, sono significativi. Corrispondono a due paradigmi politici, rispettivamente, la convenienza e la coerenza: una riedizione del perenne contrasto tra l'etica delle conseguenze e l'etica delle convinzioni. L'uomo politico degno della sua professione – colui che rifugge tanto dall'opportunismo quanto dal fanatismo e cerca di conciliare responsabilmente realtà e idealità – conosce questo conflitto e sa che esistono i momenti delle decisioni difficili. Sono i momenti della grande politica. Ma da noi ora non è così. Ciò che è nobile nei concetti, è spregevole nella realtà. La buona convenienza appare cattiva connivenza. Il sospetto è che, dietro un gioco delle parti, sia in atto la coscientemente perseguita assimilazione in un “giro” di potere unico e autoreferenziale, una sorta di nuovo blocco o “arco costituzionale”, desiderando appartenere al quale si guarda ai propri elettori, che non ci stanno, come pericolo da neutralizzare e non come risorsa da mobilitare. Vaghezza, silenzi e reticenze sono gl'ingredienti di questo rapporto sbagliato, basato sulla sfiducia reciproca. È banale dirlo, ma spesso le cose ovvie sono quelle che sfuggono agli strateghi delle battaglie perdute: in democrazia occorrono i voti e la fiducia li fa crescere; la sfiducia, svanire. Il sospetto si dissipa in un solo modo: con la chiarezza delle posizioni e la risolutezza nel difenderle. La chiarezza si fa distinguendo, secondo un ordine logico e pratico, le cose su cui l'accordo c'è, quelle su cui potrebbe esserci a determinate condizioni e quelle su cui non c'è e non ci potrà mai essere. La risolutezza si dimostra nella convinzione con cui si difendono le proprie ragioni. Manca l'una e l'altra. Manca soprattutto l'idea generale che darebbe un senso al confronto costituzionale che si preannuncia. Così si procede nell'ordine sparso delle idee, preludio di sfaldamento e sconfitta.
Per esempio, sulla difesa del sistema parlamentare contro i propositi presidenzialisti, la posizione è ferma? Sulle istituzioni di garanzia, magistratura e Corte costituzionale, fino a dove ci si vuol spingere? Sul ripristino dell'immunità parlamentare c'è una posizione, o ci sono ammiccamenti?».
Citazione lunghissima, ma ne valeva la pena, secondo me.
Ieri Luciano Violante, il famoso participio presente del verbo 'violare', ha respinto al mittente ogni insinuazione: lo ha fatto a nome del Pd? Forse: in fondo Violante è il responsabile Riforme dello Stato per il Pd. Lo ha fatto a nome di D'Alema? Mmmm... Lo ha fatto a titolo personale? E chi lo sa? Col Pd non si può mai dire: perché è un guscio vuoto, il Pd, o un partito senza fissa dimora, come ha scritto oggi Ilvo Diamanti.
Fatto sta che Violante ha rigettato ogni addebito e ha detto che i punti fermi (del Pd? Di D'Alema? Suoi? Vedremo, magari persino capiremo) sono i seguenti: «Repubblica parlamentare, separazione e bilanciamento dei poteri, indipendenza della magistratura». E fin qui, siamo ai fondamentali della liberaldemocrazia. Violante ha poi aggiunto: «Intendiamo confrontarci in Parlamento con i nostri avversari, perché in questo consiste la democrazia. Siamo consapevoli dei rischi politici e istituzionali (...). E questo richiederà, oltre ad una dura battaglia parlamentare contro le leggi-privilegio, un supplemento di attenzione da parte nostra alle parole di chi, come il professor Zagrebelsky, ci invita alla prudenza e ci segnala i pericoli».
Gustavo Zagrebelsky ha risposto a stretto giro di posta: secondo lui, le parole di Violante tradiscono un desiderio alquanto velleitario.
«In chiaro: la fonte della degenerazione costituzionale sta nell'anomala e straordinaria concentrazione di potere economico-mediatico-politico nella stessa persona e nel sistema di potere che attorno a questa persona è venuto a costruirsi. Non è una fisima, questa preoccupazione. L'ubbidienza si ottiene facendo leva sui bisogni materiali (economia), sull'appagamento intellettuale (cultura), e sul potere di comando (politica). L'unione di questi tre poteri è un intruglio micidiale, nemico della libertà e della democrazia. Quelli che sottovalutano o non vogliono vedere il pericolo di questa concentrazione non sono nelle condizioni di affrontare con la dovuta responsabilità le questioni costituzionali del momento».
E a questo punto Zagrebelsky interroga il Pd (non Violante: il Pd): che fine ha fatto il conflitto di interessi, «espressione edulcorata per indicare quella abnorme concentrazione di potere»? Sta a cuore, al Pd, il conflitto di interessi? Una domanda pregiudiziale, questa. Senza risposta, non può esserci confronto con chicchessia.
«Prenderà il Pd una posizione chiara e impegnativa nelle sedi proprie?».
Io questo non lo so. Ma non sono ottimista: perché lo si troverà sempre, nel Pd, il realista che ti dice che alla gente - come dimostrano inoppugnabilmente gli ultimi sondaggi - del conflitto di interessi non importa un fico secco. Alla gente importano ben altre questioni... Ben altre! Con questo conflitto di interessi avete stancato, voi azionisti radicali: stan-ca-to!!! Ed è già tantissimo, guardate, che il famoso participio presente del verbo 'violare' si sia abbassato a rispondere qualcosa a quel rompicoglioni di Zagrebelsky.
Perché, poi? Per sentirsi rispondere “non mi fido mica tanto, io, di voi”? E chissenefrega, se non ti fidi: cazzi tuoi. Quante divisioni hai, professor Zagrebelsky? Eh? Parliamo d'altro, va... Anzi, di ben altro.
P.S.
In questi giorni di celebrazioni craxiane mi è capitato di leggere un articolo su Riccardo Lombardi, socialista e fondatore del Partito d'Azione: è uscito un libro, firmato dal giornalista dell'agenzia Agi Carlo Patrignani, che ne ricorda la figura: si intitola Lombardi e il fenicottero.
Scrive Patrignani che l'ingegnere di Regalbuto, nel suo ultimo discorso ad un'assise del Psi, poco prima di morire, fu molto critico con quel «perverso sentimento che prende molti socialisti, quasi soddisfatti ogni volta che i comunisti rallentano il cammino della loro evoluzione in senso occidentale, nel timore che ciò danneggi il Psi. Dobbiamo invece aiutarli ad avere prospettive di governo».
Capito, l'azionista Lombardi? Immagino con che spirito avrà accolto al tempo le sue parole Bettino Craxi, segretario del Psi, fervente anticomunista e politico realista...
Domandina finale: secondo voi cosa ne pensa, Massimo D'Alema, dei politici à la Lombardi?