lunedì 30 novembre 2009

Un posto nel mio cuore

In qualche modo l'Argentina ce l'ho dentro, io.
Un po' (un po' tanto) sono stati gli scrittori - Julio Cortázar, Ernesto Sabato, Roberto Arlt, Osvaldo Soriano, Manuel Puig, Tomás Eloy Martinez, Rodolfo Walsh, Adolfo Bioy Casares e... sì, pure Borges, anche se qui forse non dovrei citarlo, non sta bene – un po' le madres e le abuelas di Plaza de Mayo, e i loro figli e nipoti: perché c'è un posto, nel mio cuore, che appartiene solo a loro, alle vittime di quella che il generale Jorge Videla - capo della Giunta militare che prese il potere a Buenos Aires nel 1976 autodefinendosi "Processo di Riorganizzazione Nazionale" – chiamò guerra sucia, la 'guerra sporca'.

«Non è stata una repressione come quella scatenata più o meno negli stessi anni in altri paesi latinoamericani, quella dell'Argentina tra il 1976 e il 1982. Diversa non soltanto per il numero enormemente superiore dei desaparecidos ma anche perché i 30 mila di questo paese (...) sono stati il risultato di un lavoro 'scientifico', progettato e applicato meticolosamente in ogni angolo del paese; secondo i capi di Buenos Aires i nemici da abbattere non erano soltanto i 'sovversivi' armati o disarmati: i militari avevano deciso di far fuori un'intera generazione, quella dei giovani e degli adolescenti che, se non erano attivisti politici, rappresentavano in ogni caso un campo inquinabile dalle idee politiche. Un generale fu allora esplicito in pubblico: “Liquideremo prima i militanti, poi i loro simpatizzanti, infine gli indifferenti”».
Così scrisse un grande giornalista che purtroppo non c'è più, Joaquin Sokolowicz, e mi è già capitato di usare le sue parole la volta che ho parlato de Il ministero dei casi speciali, un grande romanzo di Nathan Englander sull'Argentina ai tempi della guerra sporca: i grupos de tareas che sequestravano i militanti, i simpatizzanti e pure gli indifferenti (quasi tutti finirono inghiottiti dal Leviatano); le Ford Falcon verdi che giravano per le strade, sorta di simbolo itinerante del terrore e della violenza della repressione; i luoghi di detenzione degli scomparsi - posti come la Escuela de Mecanica de la Armada - e la tortura; i voli della morte - di cui ha raccontato, in uno splendido, straziante libro, un altro grande giornalista, Horacio Verbitsky - con i quali gli assassini si sbarazzavano dei corpi dei desaparecidos gettandoli drogati dagli aerei nell'oceano.

In un'intervista a Roberto Carnero la scrittrice Elsa Osorio ha ricordato quegli anni di grande paura: «Anche chi, come me, non aveva nulla a che fare con la resistenza armata, ma aveva soltanto la colpa di essere uno studente universitario, non poteva uscire di casa tranquillo. Da un momento all’altro potevano prenderti e sbatterti in prigione. Magari solo perché avevi partecipato a una manifestazione per chiedere l’abbassamento del prezzo dei biglietti dell’autobus. Era un clima di terrore. Chiunque non era conforme poteva essere una vittima. Anni dopo avremmo conosciuto nei dettagli quanto di orrendo il regime militare aveva messo in pratica, ma già allora non si poteva non sapere, non era facile girarsi dall’altra parte».
Nella scrittura di Elsa Osorio centrali sono il ricordo di quegli anni infami e il proposito di «mantenere viva la memoria» delle perdite irreparabili e delle offese subite.
Forse chi mi sta leggendo già conosce I vent'anni di Luz, un suo romanzo meritatamente celebrato.
In libreria, adesso, potete trovare una raccolta di tredici racconti, Sette notti d'insonnia.

Alcuni sono sul serio magistrali, credetemi: non è da tutti saper evocare una tragedia, personale e collettiva, semplicemente con dei puntini di sospensione (accade in Le lettere di Juan, verificate) né immaginare storie come Pianto o Sette notti d'insonnia, dove il presente riesce a prendersi le sue belle rivincite sul passato e sul terrore, oppure - la più toccante di tutte, per me - Il film di Mónica, dove l'Argentina e ciò che è stato, visti da Barcellona, non sono altro che “un mucchietto di miseria” che qualcuno odia ferocemente e qualcun altro, invece, non riesce a smettere di amare nonostante tutto, in un ribaltamento di prospettiva e di senso davvero fulminante.
Mi permetto di consigliarvela, insomma, la lettura di Elsa Osorio.
Tra l'altro, e per tornare un po' da dove sono partito, per amare (e capire, o almeno per provare a capire) l'Argentina e gli argentini, essere italiani aiuta non poco, secondo me.

venerdì 27 novembre 2009

Al calduccio sotto le mie copertine (n.15)

The Dream Syndicate, Medicine Show, 1984

I got some John Coltrane on the stereo baby
make it feel all right...

giovedì 26 novembre 2009

Il confessionale


Ed eccoli qua, puntualissimi!
Il Marrazzo, ex presidente della Regione Lazio, chiede al papa di perdonarlo per essere andato a transessuali; il cardinale segretario di Stato della famosissima Santa Sede, Tarcisio Bertone, fa filtrare ai media la notizia della sofferta richiesta del suddetto Marrazzo; i media, immancabilmente, veicolano alle masse.

Che dire?
Intanto che questi siparietti del cazzo (anzi, del marrazzo, che si presta bene) devono per forza avercelo, un pubblico, in questo disgraziatissimo Paese.
Altrimenti non si spiegherebbe come mai - dopo ogni scandalo nel mondo della politica o in quello dell'economia (dal Marrazzo che s'arrazzava coi trans ai mille Calisti Tanzi) e anche, e sempre più spesso, dopo gli scannamenti più atroci (in special modo quelli che talvolta, ahi ahi ahi, avvengono nelle meravigliose famiglie italiane) – come mai, dicevo, vengano messe in scena 'ste pulcinellesche pantomime, perché tali io le considero e mi perdonerete il cinismo: sì, sì, indubbiamente brutto quello che ha fatto il Marrazzo epperò adesso l'uomo «sta compiendo un delicatissimo iter da cui nascerà una persona nuova» (così l'abate di Montecassino, Vittorelli). E? E poi? E allora? E starsene un po' zitti? Anzi, anzi, meglio: e una bella iniezione di spirito protestante?

Ma il protestantesimo non si presta abbastanza alla divulgazione e al consumo mediatico: roba scabra, troppo poca la pompa. Qui da noi, perciò, tirano un casino i format cattolici.
Tipo questo: l'hýbris dell'uomo pubblico lo porta inevitabilmente a peccare (tutto questo parlare di peccati, tra l'altro, spesso fa perdere di vista i reati: non trovate?); l'uomo pubblico cade (e - per dirla alla Sergio Leone - più grosso è, più rumore fa, quando cade); dopo la caduta, l'uomo pubblico (cattolico, ça va sans dire: si pesca sempre bene, tra i papisti; i laici, in genere, non si prestano) “implora il perdono del Santo Padre” o di Padre Pio (non voleva andare in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, il papi della Patria, principe dei puttanieri, per mondarsi?) o della Madonna del Petrolio; l'intero Paese, infine, viene fatto entrare in un confessionale dove, incredibilmente, c'è spazio per tutti.
Anche per chi, come me, farebbe volentieri a meno dell'esperienza.

lunedì 23 novembre 2009

The Big Lebowski (di Joel e Ethan Coen)


Stai per entrare in una valle di lacrime, una valle di lacrime...

domenica 22 novembre 2009

The atrocity exhibition

Titolo in prima pagina su La Stampa di ieri: Papa Wojtyla si flagellava per penitenza.
A pagina 17, cose ghiottissime.
Innanzitutto la testimonianza della suora polacca Tobiana Sobódka, madre superiora delle Ancelle del Sacro Cuore di Gesù che prestavano servizio negli appartamenti papali in Vaticano ai tempi di Giovanni Paolo II: «Molto spesso si sottoponeva a penitenze corporali. Lo sentivamo, a Castel Gandolfo avevo la camera piuttosto vicina alla sua. Si avvertiva il suono dei colpi quando si flagellava».
Poi, a corredo del pezzo, un'incredibile parata di atrocità.
Dal XVI secolo di San Luigi Gonzaga, figlio del duca di Mantova, che «si flagellava per modo che le vesti, le pareti e il pavimento erano tinti di sangue», all'Ottocento del beato Pio IX che si colpiva ogni giorno con un frustino di cuoio (se ne conservano come reliquie dei frammenti).

Da papa Paolo VI che, come testimoniato dal suo segretario particolare, durante certe cerimonie «aveva i fianchi cinti da un cilicio con punte acuminate che penetravano nella sua carne per ricordarsi meglio della croce portata da Cristo per la redenzione del mondo», a San Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell'Opus Dei.
E con San Josemaría, patrono dei franchisti, siamo davvero nell'empireo.

Così il suo successore, Alvaro del Portillo: «Abitualmente, senza spiegarne il motivo, ci chiedeva di uscire e di lasciarlo un po' solo nella stanza. Contai i forti colpi della sua disciplina: mille colpi violentissimi, cadenzati, sempre con la stessa violenza e lo stesso ritmo». E chissà cosa faceva, Alvaro del Portillo, mentre contava (fino a mille) i forti colpi della disciplina di Escrivá de Balaguer... «Il pavimento si copriva di sangue, ma egli stesso lo ripuliva prima che entrassimo».
E - per non farci mancare nulla, immagino - c'è pure la testimonianza del vescovo Javier Echevarría: «Il diabete non modificò orari e ritmi di lavoro. Quando il medico proibiva a Escrivá di usare il cilicio perché le ferite gli si infettavano facilmente, usava un frustino con cui si percuoteva vigorosamente».

A voi i commenti, io chiudo qua. Mi è venuta voglia di una bistecca al sangue.

venerdì 20 novembre 2009

Miracolo!


Oggi sto per entrare a scuola e sento due magnifiche mamme italiane che chiacchierano tra loro. Per una volta tanto, non dei loro pargoli...
Dice una: "Hai sentito che fanno santo Wojtyla?”.
Risponde l'altra: "Era ora, guarda, era ora! Se lo meritava!".
E io allora penso che, oltre all'influenza suina, ci dev'essere in giro, nel Paese, un fortissimo bisogno di santità. E trovo tutto ciò confortante anziché no, coi tempi che corrono.
Sull'aureola sacra di Karol Wojtyla proprio ieri è uscita, sul mio quotidiano di riferimento, un'intervista al cardinale Javier Lozano Barragán (lo conoscete? Un vero mostro di carità cristiana. Per dire, “se Beppino Englaro ha ammazzato la figlia Eluana allora è un omicida”: così dichiarò quando Eluana Englaro venne lasciata andare), che poi sarebbe 'sto tizio qui sotto, con la faccia che pare disegnata da Jordi Bernet.

Sostiene, Lozano Barragán, di essere stato testimone di un miracolo di Wojtyla avvenuto quindici anni prima della sua morte e che perciò Giovanni Paolo II era «già santo quando era vivo».
Gli chiedono come faccia ad affermarlo ed egli a domanda risponde: «Ho assistito a un miracolo di Wojtyla in Messico, il 5 maggio 1990. Allora ero vescovo di Zacatecas. Prima di salire sull'aereo per rientrare in Italia una mamma gli presentò il suo bambino malato di leucemia, secondo i medici inguaribile. Il Papa gli si inginocchiò davanti, lo baciò e lo benedisse, dicendogli di liberare una colomba». E poi cosa successe? «Dopo circa un mese, il padre del bambino, noto anticlericale, mi portò due foto del bambino dicendomi che era completamente guarito».
Una storia bellissima, davvero commovente.
E il passaggio sul padre del bimbo miracolato, «noto anticlericale», trovo sia un tocco di classe purissima, che lascia ammirati. Siamo dalle parti di Clifford T. Hampstead da Portland, Oregon, che, per non aver preso sul serio la catena di Sant'Antonio, ha visto suo figlio Jerome morire colpito in fronte da una berta spaccablocchi e sua figlia Magdalene, detta Meg, impazzire dopo aver inavvertitamente bevuto birra con trielina.
Roba seria, insomma.



P.S.
Esattamente vent'anni fa moriva Leonardo Sciascia, scrittore. Anzi, illuminista: checché se ne dica.
Il suo sguardo, la sua intelligenza, le sue parole, il suo coraggio, sarebbero molto utili, oggi come oggi, a questo Paese devastato.

mercoledì 18 novembre 2009

In hoc signo vinces


Meno crocifisso, più stoccafisso!

martedì 17 novembre 2009

Tempo di persecuzioni


Per capire che aria tira nelle tetre catacombe in cui i malvagi laicisti hanno relegato i poveri cattolici italiani, bisogna dare un'occhiata al modo in cui, quest'anno, sono stati ripartiti i 43 milioni 969 mila 406 euro che i contribuenti italiani hanno ritenuto di destinare allo Stato in quota 8 per mille dell'Irpef.
Ripeto: allo Stato.
Dunque, risulta che 10.586.000 ricchi euri sono stati destinati al capitolo “Beni culturali", finalizzati a restauri e interventi in favore di 26 immobili ecclesiastici sparsi per la penisola.
Ora, tali opere avrebbero tutte le carte in regola per poter usufruire della quota dell'8 per mille destinata a Santa Romana Chiesa, col suo apposito fondo “edilizia di culto”: quindi, come la mettiamo? Ma è una domanda retorica, la mia.
La mettiamo che Berlusconi vuole ritornare ai baci in bocca con la Cei, la mettiamo, ché ultimamente erano un po' in freddo: l'abbiamo notato tutti, nevvero?
E allora - altra domanda retorica - poteva forse fermarsi a miseri 10.586.000 euri, il papi della patria?
Ma no, certo che no! Perciò 14 milioni 692 mila euro dell'8 per mille destinato allo Stato (ripeto: allo Stato) andranno a finanziare 32 “interventi per il sisma in Abruzzo”.
Tra gli “interventi” in programma, fortissima preponderanza di parrocchie e monasteri.
E adesso, occhio: “Le richieste di finanziamento relative all'Abruzzo risultano presentate in data antecedente al sisma dell'aprile 2009 ed appare quindi opportuna una puntuale verifica e un coordinamento con gli interventi previsti dopo il sisma”.
E questo non è stato un deputato radicale, ad affermarlo, ma il leghista Giancarlo Giorgetti.
Cioè a dire: attenzione, non è detto che tutti i beni finanziati siano stati effettivamente danneggiati dal terremoto del 6 aprile.
Grandioso, il papi nostro, eh?
L'atto del governo n.121 per la "ripartizione della quota dell'otto per mille devoluta alla diretta gestione statale per il 2009", predisposto due mesi fa, riserva poi al capitolo “Fame nel mondo” - una roba che al buon papa Ratzinger sta parecchio a cuore, a quanto risulta: lo ha detto pure al vertice della Fao in corso a Roma, no? – ben 814 mila euro, il 2 per cento del totale per solo dieci tra onlus e associazioni. Una vera pacchia, no?
Da segnalare anche il capitolo “Assistenza ai rifugiati”, dove il grasso cola proprio da far spavento: 2,6 milioni di euro.
E a questo punto c'è bisogno di una conclusione a effetto, direi.

“Il buon dio sta sempre sempre dalla parte della miglior artiglieria”, sosteneva Napoleone Bonaparte, uno che se ne intendeva.
Piaciuta?

sabato 14 novembre 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.74)


“Cara Geneviève, siamo soliti farci beffe degli intellettuali per la loro ambiguità amletica, per i loro dubbi e le loro esitazioni. Io stesso, da giovane, disprezzavo questi tratti del mio carattere. Adesso, invece, la penso diversamente: è alle persone indecise e dubbiose che si debbono le grandi scoperte e i grandi libri. Sono altrettanto degni dei cretini tutti d'un pezzo. E se serve, sono pronti a salire sul rogo e a sfidare le pallottole tanto quanto i risoluti”.
(Vasilij Grossman, da Vita e destino)


P.S.
Vita e destino è, semplicemente, uno dei romanzi più belli di ogni tempo e luogo.
Secondo il suo autore, si tratterebbe del Guerra e pace del Novecento. Esagerato, dite voi? Beh, leggetelo: leggetelo e poi provateci, a dare a Vasilij Grossman dell'immodesto.
E se non credete a me, magari crederete a George Steiner: "Libri come Vita e destino eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio".

giovedì 12 novembre 2009

Il disagio dei moderati

Beppe Fioroni del Pd – che, secondo il quotidiano la Repubblica, sarebbe molto critico «verso l'organigramma di Bersani» - avverte il Pd: “Attenti, il disagio dei moderati è un problema serio e le poltrone non c'entrano”.
Per capire quello che Fioroni vuole comunicare bisogna prendere in mano un buon vocabolario della lingua italiana.
Leggiamo.
Disagio: ovvero “mancanza di comodità”, oppure “fatica, privazione, imbarazzo”.
Moderato: in politica “chi rifugge dagli estremismi”, oppure “chi tende al compromesso, astenendosi da posizioni di rottura e da innovazioni troppo radicali rispetto agli schemi tradizionali”.
E adesso vediamo di ragionare un po'.
I moderati – che, come abbiamo visto, rifuggono dagli estremismi e da innovazioni troppo radicali - sono critici verso Pierluigi Bersani: se ne deduce – o almeno, io ne deduco - che Pierluigi Bersani deve aver assunto delle posizioni estremiste su qualche faccenda, negli ultimi giorni. Oppure che, rispetto a qualche altra faccenda, non deve essersi astenuto da posizioni di rottura troppo radicali per un moderato doc come Beppe Fioroni.
Ora la domanda è: su quali questioni, di grazia? Perché a me non risulta niente.
Bersani è ufficialmente il segretario del famoso Partito democratico dallo scorso sabato: se togliamo la domenica, fanno quattro giorni ad oggi.
Bene: che cosa può aver mai combinato, Bersani, di così estremista e radicale, in soli quattro giorni?
Risposta: ma nulla di nulla, ovvio.
Il neosegretario del Pd ha giusto rilasciato qualche intervista in cui si è limitato a ripetere le cose che andava dicendo nella sua campagna elettorale per le primarie.
Poi, e vabbé, vorrebbe trovare un posto nel partito a uomini e donne di sua fiducia – d'altra parte, avendo egli vinto le primarie, cosa ci si aspettava che facesse?
Quindi, per capire dove sta il bussillis, è alla definizione di disagio che dobbiamo andare: “mancanza di comodità”, si è detto. Oppure “privazione”.
Ora, sapendo che il moderato per antonomasia, in Italia, è il democristiano, proviamo a rileggere l'avvertimento a Bersani del democristianissimo Fioroni: “Attenti, la mancanza di comodità dei democristiani è un problema serio”.
Dunque le poltrone c'entrano eccome. E privare un democristiano di una poltrona è precisamente una posizione di rottura troppo radicale rispetto agli schemi tradizionali dei moderati italiani.
Concludendo, il disagio dei Fioroni è nato nel preciso momento in cui Bersani ha vinto il congresso del Pd.
Non doveva permettersi di farlo, quel brutto comunista senza dio...

mercoledì 11 novembre 2009

Titolo: Quinte colonne

Sapete Bucchi, no? Ecco... Bucchi.

Rio Grande

L'altra sera, dopo più di trent'anni, ho rivisto Rio Grande, un bellissimo film di John Ford.
Potreste trovarlo ancora in edicola, credo. Costa una miseria: 9,90 euro.
E se vi dicessi che è superiore al 90% delle cose che si vedono al cine di questi tempi, mi credereste?
Mi ha emozionato sul serio, rivederlo. Ci sono la Monument Valley - uno dei miei paesaggi dell'anima, grazie a Ford – e la cavalleria degli Stati Uniti, gli apaches e un John Wayne/Kirby Yorke veramente sontuoso: un attore davvero immenso, capace di recitare con uno sguardo (di dire tutto, ma proprio tutto quello che c'è da dire, con uno sguardo) in un cinema di azioni lunghe e dialoghi brevi com'era quello di Ford, grandissimo bardo della settima arte che ha saputo raccontare storie per immagini come forse nessun altro, prima e dopo di lui.

E va bene: amo il western come poche altre cose al mondo (grazie soprattutto a mio padre, un fan terminale del genere) e quindi potrei non essere un critico granché attendibile ma...
Ma in Rio Grande c'è pure Maureen O'Hara, sapete, e per me Maureen O'Hara è la signora Wayne e punto. Poi c'è il viso bellissimo Ben Johnson, un altro capace di parlare con gli occhi (e se non mi credete, recuperate un po' L'ultimo spettacolo, di Peter Bogdanovich, anno 1971, e mi saprete dire). E c'è anche il sergente Quincannon di Victor McLagen già sergente Quincannon ne I cavalieri del Nord Ovest, il secondo film della cosiddetta “trilogia della cavalleria” di Ford, mediano tra Il massacro di Fort Apache e, appunto, Rio Grande.

Tra l'altro, e non lo ricordavo, una scena del film – la fuga, favorita da Quincannon, di Ben Johnson/Travis Tyree dall'acquartieramento della cavalleria - è ripresa pari pari ne La donna di Cochito, una delle grandi storie del mio fumetto preferito di sempre, Ken Parker (così come il Nathan Brittles/John Wayne de I cavalieri del Nord Ovest lo si ritrova in Un uomo inutile, altra grande storia dell'eroe di Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo).

Questo l'ho scritto innanzitutto a beneficio di alcuni fan di Ken Parker che passano spesso da queste parti (Luciano e Laura, in particolare) e poi anche per prendermi l'impegno - con me stesso, ovviamente - di scrivere qualcosa su Ken Parker, un giorno o l'altro.
Perché è un pezzo del mio cuore, Ken Parker: per fortuna del mio cuore.

sabato 7 novembre 2009

Al calduccio sotto le mie copertine (n.14)

The Band, The Band, 1969

Virgil Caine is the name, and I served on the Danville train,
'Til Stoneman's cavalry came and tore up the tracks again.
In the winter of '65,
We were hungry, just barely alive.
By May the tenth, Richmond had fell, it's a time I remember oh so well.
The Night They Drove Old Dixie Down, and the bells were ringing,
The Night They Drove Old Dixie Down, and the people were singin'. They went
La, La, La, La, La, La, La, La, La, La, La, La, La, La.

mercoledì 4 novembre 2009

Per tutti indistintamente

La Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha bocciato la presenza dei crocifissi nelle aule delle scuole italiane. Lo ha fatto parlando del «dovere di imparzialità e neutralità dello Stato in materia religiosa». Le reazioni dei cattolici non si sono fatte attendere e sono state in genere durissime.
Io penso che lo Stato sia (o almeno, dovrebbe essere...) la casa di tutti i cittadini a prescindere dal credo religioso di ciascuno. E se parliamo di diritti di cittadinanza, i discorsi sull'identità del popolo italiano come quelli sui simboli della nostra tradizione (se ne sentono tanti, in queste ore) c'entrano come i cavoli a merenda. Detto ciò, io non mi sono mai sentito offeso dalla presenza di un crocifisso in un ufficio pubblico ma più di una volta, ecco, ve lo confesso, mi sono chiesto cosa caspita ci facesse, un crocifisso, in un ufficio pubblico: è il posto suo? Pensateci un po': uno va a informarsi del pagamento della tassa rifiuti e si imbatte in un povero Cristo in croce. Vi suona bene? A me, no.
Ma probabilmente sbaglio...
Comunque, ecco cosa pensa il vicepresidente del Senato della Repubblica, Vannino Chiti - ex comunista con spiccata tendenza al volo pindarico (come molti ex comunisti, a dire il vero...) - del crocifisso negli uffici pubblici.

«Quella presenza fa parte della nostra storia e della nostra cultura. Non contrasta con la libertà di religione o di educazione. Per i cristiani è un simbolo di fede, della vicinanza di Dio all'umanità fino ad assumerne fisicità, sofferenza, dolore e morte prima di riscattarne futuro e speranza con la Resurrezione. Per tutti indistintamente è segno di innocenza, mitezza, sacrificio di sé per gli altri».
Per tutti indistintamente
, capite? E se la cosa vi puzza un po' di totalitarismo, rilassatevi: il Chiti non è più comunista, giusto?
Ma continua, il vicepresidente, ed è un crescendo rossiniano: «Quella croce per nessuno è ragione di oppressione, costrizione o intolleranza. Per tutti è motivo di solidarietà e amore. Su questi aspetti non possono discendere decisioni dall'alto. Mi auguro che nessuno in questi giorni rimuova il crocifisso dalle aule per metterlo nelle cantine. Non sarebbe certo la nostra libertà a fare un passo avanti».
Anch'io mi auguro che i tanti crocifissi pubblici d'Italia rimangano al loro posto e non vengano relegati in cantina, in questi giorni e pure dopo. Detto ciò, avete preso nota?
«Quella croce per nessuno è ragione di oppressione, costrizione o intolleranza. Per tutti è motivo di solidarietà e amore».
Per tutti. Indistintamente. E la discussione si chiude qui.
Infatti, come si può dire di no alla solidarietà e all'amore?
Chi oserebbe mai?

martedì 3 novembre 2009

Unforgiven (di Clint Eastwood)

Allora, sto uscendo. Se vedo qualcuno là fuori l'ammazzo. Se qualche figlio di puttana mi spara addosso non ammazzo soltanto lui, gli ammazzo anche la moglie e tutti i suoi amici. E poi gli brucio anche la casa. Meglio che nessuno spari. Voglio che facciate per Ned un bel funerale! E non azzardatevi più a sfregiare prostitute! Altrimenti torno e vi ammazzo tutti, figli di puttana.

lunedì 2 novembre 2009

L'operaio e lo zio Ho

Questa me l'ha segnalata mia moglie: l'ha trovata in un libro di Corrado Sannucci (giornalista sportivo del quotidiano la Repubblica), Lotta Continua - Gli uomini dopo, uscito per i tipi di Limina nel 1999.
Parla Franco Platania, “rivoluzionario in pensione”, operaio Fiat: «Ricordo durante un corteo interno, gridavamo il nome di Ho Chi Minh, dopo un po' venne un operaio a dirmi, va bene, io questo nome lo grido, ma si può sapere chi cazzo è?».




P.S.
Un altra cosa bella l'ho trovata io, a pagina 19: «Gli anarchici spagnoli dopo la sconfitta della Repubblica fuggirono in Francia e lì continuarono a fare i falegnami, in dignitoso e appartato silenzio. In Italia i rivoluzionari senza rivoluzione sono finiti nei talk show (...)».

domenica 1 novembre 2009

Passeggiando con Felice Andreasi

L'altra notte ho sognato Felice Andreasi. Del sogno ricordo poco (di quello che sogno quando dormo ricordo sempre poco): solo che passeggiavamo insieme, che era autunno perché sotto i nostri piedi c'era un bel tappeto di foglie di tiglio ingiallite, e che Andreasi era più o meno quello di Storia di ragazze e ragazzi, di Pupi Avati, un bel film di vent'anni fa... Non ricordo di cosa parlavamo, e nemmeno se parlavamo. Magari, chi lo sa, andavamo per funghi: pare infatti che a Felice Andreasi piacesse un sacco, andar per funghi.
Com'è che dev'essere... Qualche tempo fa avevo pensato di dedicare un post - due righette alla buona, ma scritte col cuore - a quello che io considero uno dei più grandi comici italiani di sempre: così, solo perché mi era venuto in mente quel suo pazzesco monologo su un tizio che incontra dio nell'ascensore («mi ha detto: “Lei dove va?”. Gli ho risposto: “Io vado all'ultimo piano, e lei?”. Lui mi ha fatto: “Oltre”» - finiva, più o meno, così: «ma se era lui, che bisogno aveva di prender l'ascensur?»).
Poi lasciai perdere, non so perché, ed ecco che 'sta mattina mi son svegliato e invece di trovare l'invasor - capita spesso, pare, a quelli di sinistra, quando si svegliano - mi son trovato a ridere da solo davanti al caffè pensando a Felice Andreasi che recita Piemuooonte di Giosuè Carducci (su le dentate scintillanti vette/ salta il camossio, tuooona la valanga...).

“Un bel giorno io sono nato. Subito non mi sono accorto di niente, ma dopo un po' me l'hanno fatto notare”.
Era nato a Torino (la mia capitale morale, ormai lo sapete) ma aveva sfondato a Milano, in un famigerato scantinato di via Monte Rosa 84, zona San Siro: era il vecchio Derby, avete presente? Jannacci, Villaggio, Cochi e Renato, i Gufi. Ovvero, il meglio del meglio della comicità in questo cazzo di Paese dove si è sempre riso malissimo e dove ormai c'è proprio poco da ridere.
Poi - era il 1972, mi pare - Il Poeta e il contadino. Un'altra tivvù (ma a chi potrebbe mai venire in mente, oggi, di portare in televisione una roba del genere?), un'altra Italia: un posto in cui la Val Trompia (“Siamo su a milletré”) non era ancora diventata un deprimente ridotto prealpino per leghisti tonti e poteva essere, invece, un magnifico, surreale paesaggio dell'anima per tutti e ciascuno, ovvero pure per chi la televisione la guardava da campano, o da siciliano. Miracoli che avvenivano quando l'Italia era forse un po' più povera, ma meno divisa. E indubbiamente più intelligente. Sto mitizzando, magari? Sì? E allora diciamo “miracoli che avvenivano prima che il Berlusconi marchiasse l'Italia a fuoco con le sue puttanate”: va meglio, adesso? Ci capiamo?

In giro per la rete ho pescato una cosa che mi è piaciuta parecchio. Ve la vendo così come l'ho trovata, l'autore si firma Buenaversa.
«Ho avuto il privilegio e l'onore di conoscere Felice qualche anno fa nel Monferrato, a Rocchetta Tanaro dove si teneva una festa di paese. Quel giorno Andreasi mi ha raccontato alcuni divertentissimi retroscena della sua partecipazione a "Il Poeta e il Contadino". Sembra che Beppe Recchia, regista della trasmissione, lo avesse convinto ad interrompere un balletto di Liana Orfei, entrando in scena e declamando: "Sarò il tuo leone sotto il solleone, sarai la mia pantera, nell'ombre della sera, ed ecco il tuo ghepardo.. aspettami se tardo, e infine ippopotàmo per dirti che ti amo". Felice ricordò di averle quasi buscate dal ballerino».

E io adesso provo ad andare a memoria e ve ne racconto un'altra, fortissima davvero.
Pare che ad Andreasi fosse capitato un lavoro dalle parti di Concesio, provincia di Brescia, paese natale del papa Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Montini. Insomma, eccolo che se ne sta sul palcoscenico e si mette ad imitare il pontefice. Era uno dei suoi pezzi forti, al tempo: non come l'imitazione di Gustavo Thoeni, davvero leggendaria, ma quasi.
Com'è, come non è, pare che tra il pubblico ci fosse pure un fratello del papa che ad un certo punto si mise a gridare, scandalizzato: “Il papa non si tocca! Il papa non si tocca!”. E Andreasi: “Ma io non lo so, se si tocca...”.
Potete immaginarvi il seguito?
E chiudo ricordando il grande attore, perché fu pure un grande attore: per il teatro – tra gli altri con Tino Buazzelli, da lui considerato un maestro di vita, oltre che un maestro sulla scena – e per il cinema.

Guido Chiesa, che lo diresse ne Il caso Martello, ne Il tempo dei sogni e ne Il partigiano Johnny, un giorno raccontò: «Io ero un giovane regista esordiente e Andreasi era una leggenda della mia infanzia: Il poeta e il contadino, le trasmissioni tv con Cochi e Renato, la mitica imitazione di Gustavo Thoeni… Lo andai a trovare con tutti i timori reverenziali del caso, raggiungendolo nella sede Rai di Torino, dove stava lavorando a un programma radiofonico. Devi sapere che la Rai di Torino è un posto inquietante. Una volta entrato, devi percorrere un lungo tunnel sotterraneo che passa sotto via Verdi e ti porta nel palazzo di fronte rispetto all’ingresso, dove ci sono gli studi. Percorro queste catacombe e arrivo nello studio, dove incontro Felice. Gli dico subito: che strano, questo ingresso, questo tunnel… e lui: eh, e devi sapere che nel dopoguerra il tunnel era pieno di delinquenti, di prostitute, era un luogo oscuro e pericoloso… al che io gli chiedo: ma davvero? E lui mi mette una mano sulla testa e mi fa: com’è ingenuo, com’è giovane…».

Felice Andreasi se n'è andato il giorno di Natale, nel 2005. Si era ritirato da tempo a Cortazzone, un paesino dell'astigiano. Via dalla pazza folla e dal rumore del mondo. Aveva cominciato da pittore - “Avevo esposto in una mostra a Borgo Po. C'era stato un premio e durante la cerimonia mi hanno chiesto di raccontare qualcosa. Lì ho conosciuto un musicista jazz che mi ha invitato nel locale dove si esibiva. Ci sono andato dopo una settimana. Non ero abituato, mi divertivo, bevevo, cinque, sei whisky. Finito di suonare il musicista dice al microfono: e adesso vi presento un pittore che è anche un bravo attore, Felice Andreasi. Ero ubriaco fradicio, non mi rendevo conto di ciò che facevo. Ho sparato tre quarti d' ora di scemenze e sono crollato, tanto che mi hanno riportato a casa a braccia. Il giorno dopo il proprietario del locale mi telefona per scritturarmi. Lei è fenomenale, dice” - ed era ritornato a dipingere: le colline del Monferrato erano il suo soggetto preferito, con la terra del Monferrato si fabbricava i colori. E, quand'era stagione, andava per funghi, dicono.
Felice Andreasi: stralunato maestro della parola, gran contastorie, genio del nonsense.
Oggi come oggi non è che se ne facciano poi tanti, così...