lunedì 30 marzo 2009

Ma cosa dici mai?

Oggi Dario Franceschini, il rivoluzionario segretario del famoso Partito democratico (questa non è una battuta: dopo la gestione Veltroni pure Topo Gigio farebbe la figura del rivoluzionario, nel piddì), parlando della candidatura del signor Sergio Cofferati alle elezioni europee, se n'è uscito così: “La storia del ritiro per motivi famigliari la conoscono sì e no 500mila persone. E non vedo dove sarebbe lo scandalo. Sergio gode ancora di una popolarità enorme”.
Fantastico.
Mi ritorna in mente un bell'aforisma. Di Giorgio Gaber, credo: non temo Berlusconi in sé, ma il Berlusconi in me.
Dario Franceschini, poveretto, non vede lo scandalo di candidare un personaggio in cerca d’autore che oggi dice e domani disdice, oggi afferma e domani smentisce (che c’è, vi ricorda qualcuno?), oggi è qui e domani sarà là: a lavorare alla Pirelli o a cambiare i pannolini al piccolo Edoardo.
Nemmeno io ce lo vedo, lo scandalo. Però la cosa mi infastidisce, e parecchio.
Sbaglierò...
Ma la parte più bella dell'uscita di Franceschini è la seguente: “La storia del ritiro per motivi famigliari la conoscono sì e no 500mila persone”.
E allora? Cosa cazzo significa? Che chi la conosce e se la ricorda non merita rispetto? E perché?
La buona memoria, per un democratico, è da ritenersi una qualità o no?
E, già che ci siamo, chi è che aveva detto che il pubblico andrebbe considerato come un bambino di 12 anni, nemmeno troppo intelligente?
Concludendo: se si pensa che questo modo (diciamo un po' disinvolto?) di fare politica paghi, siamo proprio ben messi (secondo me...).
Tra l’altro, vista tutta la retorica europeista che il famoso Pd sparge ogni giorno, a man bassa, in ogni dove, Dario Franceschini avrebbe il dovere di considerare il parlamento europeo come qualcosa di un po' diverso da un cimitero degli elefanti (secondo me...).
E, in cauda, venenum: io, evidentemente, sono una delle 500mila persone che la conoscono, la storia del ritiro del signor Cofferati da Bologna per motivi famigliari. E non l'ho dimenticata.
Detto ciò, anch'io voto, caro segretario Franceschini.
O magari no, stavolta non voto.

sabato 28 marzo 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.56)


"L'intelligenza media della specie umana è bassa. E vengono i brividi a pensare che la metà degli esseri umani è statisticamente anche più stupida della media."

(George Carlin)

venerdì 27 marzo 2009

Flatus vocis (ovvero, scorreggiare con la bocca)

Sostiene Claudio Magris che in Italia “sono diminuite le resistenze. Arretrati i livelli di guardia. L'opinione è sempre più manipolata nel senso di sempre più abituata all'indifferenza. Con Berlusconi che seguita ad affermare per poi negare di aver affermato, si crea un vuoto di mentalità che è a sua volta una mentalità”.
Di qualcosa di simile abbiamo parlato proprio l'altro giorno ad un corso di aggiornamento per (noi) insegnanti.
Ci si interrogava sulla difficoltà, che viviamo ogni giorno, di insegnare qualcosa (non la lingua italiana, no: qualsiasi cosa...) a dei ragazzi per i quali la parola non ha più, in tutta evidenza, alcun valore. Tra video games da serial killer, sms sempre più basic (tvtb xkè c 6!), cicaleccio e borborigmi televisivi, ci siamo giocati una generazione, sapete?
La parola non vale più un cazzo. Non conta più un cazzo.
Uno dei corollari della civiltà (?) della comunicazione, infatti, è il seguente: tutto si può dire, visto che tutto si può sempre disdire, revocare, negare.
Non si paga mai dazio. Perché non c'è più nessuno (vabbè: quasi nessuno...), là fuori, in grado di prestare realmente attenzione a quello che viene detto. C'è solo il vuoto, ha ragione Magris.
Che se la prende con il carismatico Silvio Berlusconi, e fa benissimo.

Io, nel mio piccolo, me la prendo con il signor Cofferati Sergio (e faccio benissimo lo stesso).
Nell'ottobre del 2008 questo simpatico personaggio in cerca d'autore ci aveva fatto sapere di non potersi ricandidare a sindaco di Bologna. Lo faceva per amore del piccolo Edoardo, che viveva a Genova con la sua mamma ed era costretto a fare il pendolare, se voleva vedere il papà: "Non si può costringere un bambino a fare seicento chilometri ogni settimana per cinque anni": tale la distanza tra Genova e Bologna.
Oggi veniamo a sapere che il signor Cofferati Sergio potrebbe correre per il Pd alle elezioni europee nel collegio Nord-Ovest. E come capolista.
Cosa dobbiamo pensare?
Che il piccolo Edoardo dev'essere parecchio cresciuto, nel frattempo?
Che la distanza tra Genova e Strasburgo dev'essere di molto inferiore a quella tra Genova e Bologna?

mercoledì 25 marzo 2009

Questione di numeri

Secondo il famoso senatore Gaetano Quagliariello, quella di Berlusconi sarebbe una «rivoluzione carismatica», nel senso che il Pdl, come Forza Italia, nasce eminentemente da una vicenda di carisma «e non da un meccanismo democratico».
Perciò...
NUMMERI, di Trilussa

-Conterò poco, è vero:

- diceva l'Uno ar Zero -

ma tu che vali? Gnente: propio gnente.

Sia ne l'azzione come ner pensiero

rimani un coso voto e inconcrudente.

Io, invece, se me metto a capofila

de cinque zeri tale e quale a te,

lo sai quanto divento? Centomila.

È questione de nummeri. A un dipresso

è quello che succede ar dittatore

che cresce de potenza e de valore

più so' li zeri che je vanno appresso.

Nella foto, il capo carismatico del famoso senatore Quagliariello.

martedì 24 marzo 2009

A Left without a bone in its body

Sono andato a leggermi l'articolo di Perry Anderson apparso il 12 marzo scorso sulla London Review of Books (ne aveva scritto Nadia Urbinati su la Repubblica di lunedì 16 marzo). Lo storico britannico, già direttore della New Left Review, parla della sinistra italiana e il titolo del suo intervento è assai significativo: An Invertebrate Left, una sinistra invertebrata.
Il saggio di Anderson è molto lungo (vi metto il link, nel caso abbiate voglia di sobbarcarvi l'onere della lettura http://www.lrb.co.uk/v31/n05/ande01_.html).
Ne pubblico qui di seguito solo qualche riga, il grassetto è mio.

Five years ago, reflecting bitterly on his country’s politics, Giovanni Sartori remarked that Gramsci had been right to distinguish between a war of position and a war of manoeuvre. Great leaders – Churchill or De Gaulle – understood the need for wars of manoeuvre. In Italy, politicians knew only wars of position. He himself had always thought the title of Ortega y Gasset’s famous book España Invertebrada would be still more apt for Italy, where the Counter-Reformation had created deep habits of conformism, and continual foreign invasions and conquests had made the Italians specialists in survival by bending low. Lacking any elites of mettle, this was a nation without a bone in its body.


Concordo in toto. In Italia i politici (in politici in generale, ma quelli della sinistra in particolare) conoscono solo le guerre di posizione (Nadia Urbinati ha voluto sottolineare quel “risvolto pratico-politico della cultura idealista e storicista che ha animato molta parte (benché non tutta) della sinistra italiana: la refrattarietà a comprendere e praticare il conflitto politico, e al contrario, la ricerca della mediazione e del consenso”) e, proprio in quanto italiani, sono specialisti soprattutto nell'arte della sopravvivenza (che si impara by bending low, scrive il marxista Anderson sulla scorta del liberale Giovanni Sartori: e cioè piegandosi...).
Proprio ieri il politologo francese Marc Lazar (profondo conoscitore delle grandezze e delle miserie della sinistra italiana), lamentando “il mutismo dei politici italiani” sulle (demenziali e) irresponsabili parole pronunciate dal papa dei cattolici in Africa (“il problema dell'Aids non si può superare con la distribuzione dei preservativi, che anzi lo aggravano”), un “assordante silenzio” da lui definito “stupefacente”, ha scritto che “gli ex Ds perpetuano una tradizione comunista che consiste nel cercare in ogni modo di non mettersi in urto con la Chiesa cattolica. E' sostenibile questa politica dello struzzo? Oggi gli italiani di sinistra, siano essi laici, agnostici, atei, oppure cattolici tendenti al «fai da te», nel tentativo di conciliare le proprie convinzioni profonde con le raccomandazioni della Chiesa e con le sfide quotidiane della modernità, sono senza dubbio più avanti di quanto pensi il Pd”.
Oggi il mio amico Luciano Comida ha voluto ricordare in talkischeap una cosa che sentì dire al vecchio Riccardo Lombardi al congresso dei giovani socialisti del 1977, a Bologna: “c'è troppa prudenza, compagni”. Luciano non l'ha mai dimenticato.
Quanto a me, si sarà capito, di certe prudenze gesuitiche (deep habits of conformism) ne ho pieni i coglioni. E da tempo.


P.S.
Di Perry Anderson scrissi già lo scorso anno. Se interessa, http://tic-talkischeap.blogspot.com/2008/04/la-versione-di-perry.html

domenica 22 marzo 2009

The Deer Hunter (di Michael Cimino)


"Ti ricordi Nick? Un colpo solo..."

sabato 21 marzo 2009

Ladri

Tra qualche decennio, uno storico (nemmeno granché tendenzioso, secondo me...) che pretenderà di spiegare ai nostri posteri l'età berlusconiana, in esergo alla sua opera potrà senz'altro usare le seguenti parole: “O ti chiami ladro o ti chiami poveraccio, sono due le cose. Noi abbiamo una forma di rubare che è autorizzata sotto certi casi e quegli altri invece sono ladri perché rubano le mele al mercato e vanno in galera”. Così l'imprenditore Roberto Petrassi, coinvolto in varie inchieste, in una telefonata intercettata dalla procura di Potenza.
L'Italia di Berlusconi – lo statista secondo cui “se le tasse sono troppo alte, è giusto mettere in atto l'evasione o l'elusione fiscale”: non dimentichiamocelo mai, prego – è esattamente questo: un mondo alla rovescia in cui il poveraccio che ruba le mele al mercato viene condannato alla gogna pubblica mentre chi ruba i milioni al popolo siede, ammiratissimo dal medesimo popolo, in Parlamento. A misurare le leggi col proprio braccio. Alla facciaccia del furbissimo popolo.

venerdì 20 marzo 2009

Il mio trasloco e Osvaldo Soriano

In questi giorni mi sono traslocato...
Sono riuscito a farcela senza troppi patemi d'animo, tutto sommato. Cioè, pensavo peggio. Sapete com'è, io sono un abitudinario (un conservatore della più bell'acqua, in realtà) e quindi ritenevo che spostare il mio culone da un posto familiare a un altro un po' meno familiare (nella prospettiva, per giunta, di doverlo spostare nuovamente, fra qualche mese) sarebbe stata per me una cosa poco meno che drammatica. Impacchettare tutti i miei libri, dividere tutti i miei cd tra la casa dei miei genitori e la mia nuova dimora, perdere il mio cesso così accogliente... Terribile!
Beata mia moglie, che non si affeziona mai alle cose. Beata lei, a cui una valigia basta e avanza.
E comunque, alla fine sono riuscito a farcela, via...
Nel maelstrom che mi circondava fino a ieri mi è pure capitata tra le mani una vecchia copia della rivista L'Eternauta (risalente al giugno del 1983).
Qualcuno se la ricorda? Il Direttore Letterario era il vecchio Oreste Del Buono...
Un numero notevole: un Toppi d'annata, una storia di Alberto Ongaro illustrata da Gustavo Trigo, il grandissimo Torpedo di Abuli e Bernet, Trillo e Altuna. E, dulcis in fundo, un magnifico testo di Osvaldo Soriano su Dashiell Hammett, Raymond Chandler e il romanzo nero americano.

A Chandler e al suo eroe, Philip Marlowe, Soriano dedicò quel capolavoro indimenticabile che si chiama Triste, solitario y final (non solo a Chandler, in realtà: anche a Stan Laurel e Oliver Hardy, lo dedicò): vero e proprio atto d'amore per generi letterari e cinematografici poveri ma belli (l'hard boiled novel, le comiche degli anni venti e trenta), genialmente reinterpretati da uno scrittore maiuscolo sul serio (Triste, solitario y final, tra le alte cose, è pure un'esilarante presa per i fondelli di miti del cinema tra i più amati e rispettati di ogni tempo e luogo: chi l'ha letto non potrà mai dimenticare la scazzottata di Marlowe con John Wayne e il rapimento di Charlie Chaplin).



E insomma, ho pescato Soriano su L'Eternauta e ho deciso di pubblicare in talkischeap una parte del testo da lui firmato (che si intitolava Non si muore di solo piombo). Spero che qualcuno possa apprezzare...





Dedico questo post, in particolare, a tutti i comunisti che mi leggono (son mica pochi) e alla mia amica Laura.



La testa fiera su un corpo alto e affaticato, i capelli bianchi ben pettinati, gli occhi semichiusi dietro le lenti sottili, la mano sinistra ammanettata a quella di un ufficiale di polizia di colore, Dashiell Hammett si dirige verso il carcere con orgoglio e superbia. In questo patetico istante, fissato in una foto del 1951, si può leggere tutta la storia del romanzo nero americano: ribellione, sovvertimento dei valori al di là del fatto letterario, la definitiva conferma del suo inquietante “realismo”.
L'accusato, già segnato dall'alcool, deve espiare il delitto di aver scritto, con la copertura di un genere sospetto, cinque romanzi e una cinquantina di racconti memorabili. Son già quasi vent'anni che non scrive più un rigo, rinnegato da quel genere che lui stesso ha creato e con il quale in tanti ora si guadagnano da vivere.
Lo aspettano sei mesi di un lavoro del quale resterà protervamente orgoglioso per il resto dei suoi giorni: pulire i bagni della prigione di West Virginia, nel cuore del paese. In realtà, ciò che Mc Carthy voleva era la lista dei sottoscrittori del Congresso dei diritti civili, che Hammett presiedeva e che si prefiggeva di pagare la difesa alle vittime della Commissione per le attività antiamericane. La notte precedente al processo Lillian Hellmann, la compagna di Hammett, aveva cercato di convincerlo a dichiarare di non conoscere i nomi dei sottoscrittori, cosa che era oltretutto vera! Bastava questo per evitargli la galera. “Non permetterò che siano poliziotti o giudici a spiegarmi cosa vuol dire democrazia!” rispose Hammett e se ne andò a dormire.
Il giorno dopo fu arrestato senza che uno solo dei suoi migliori amici aprisse bocca: non William Faulkner, da un anno premio Nobel, assiduo delle stesse bottiglie di Hammett, che lavorava per il dipartimento di stato ed era stato insignito in Francia della Legion d'onore; tanto meno risulta che Hemingway si sia battuto per lui con lo stesso entusiasmo con cui solitamente cacciava elefanti in Africa o affrontava tori a Pamplona.
Sono passati ormai più di cinquant'anni dall'apparizione di due romanzi scritti da Hammett, fondamentali per la letteratura contemporanea e decisivi per i suoi sviluppi negli anni a venire:
Red Harvest (Piombo e sangue) e The Dain Curse (Il bacio della violenza), pubblicati per la prima volta a puntate su Black Mask, una rivista popolare di gran tiratura diretta dal capitano Joseph Shaw e destinata a un pubblico avido di forti sensazioni. Fino ad allora la letteratura poliziesca era stato un innocuo passatempo nel quale un vanitoso gentiluomo, annoiato dal denaro e quasi sempre maniaco, risolveva gli enigmi più sofisticati con la sola arma dell'intelligenza.
Portatore dell'ideologia imperante, del razzismo, il romanzo poliziesco proponeva sempre la farsa di un enigma: perché il cameriere, o il cugino, o l'amante della cognata aveva assassinato la nonnetta con una ben calcolata dose di veleno nel tè del mattino?
Il mondo della letteratura poliziesca era un placido mondo senza storia: “La sola realtà che conoscevano gli autori dei polizieschi inglesi era quella del proprio ambiente piccolo borghese. Quando essi parlavano di duchesse e di calici di Murano non ne sapevano più di quanto ne potesse sapere un qualsiasi attorucolo di Hollywood da poco famoso sui pittori francesi moderni i cui quadri adornano i loro castelli stile rinascimento o di mobili chippendale sui quali si fanno servire il caffè”, scriveva qualche anno più tardi Chandler.
Dashiell Hammett mise per primo sulla carta la cruda verità: l'assassino uccide per denaro (o a causa di esso) e non si perde d'animo se qualcuno scopre il suo crimine. La polizia, o il detective privato, devono strappargli le unghie tappargli il naso e mozzargli le orecchie per ottenere la confessione e fargli coinvolgere il capo della banda che in ultima istanza sarà salvato dall'uomo politico corrotto per il quale lavora.
Sarà Raymond Chandler colui che meglio di ogni altro valorizzerà Hammett sul suo notevole saggio “La semplice arte del delitto”: “Hammett tirò fuori il delitto dal calice di Murano e lo gettò nel vicolo (...) affidò l'assassinio a gente che lo commetteva per solide ragioni e non per sciorinare un cadavere – più o meno eccellente - al lettore.”.
La scrittura di Hammett è simile alle secche, perentorie informative degli investigatori dell'Agenzia Pinkerton per la quale egli aveva lavorato per molti anni. Forse i detectives che vi aveva conosciuto furono da lui sintetizzati nella figura dell'anonimo investigatore della Continental che attraversa molti suoi racconti e il suo capolavoro:
Piombo e sangue.
(...)
Secondo Chandler non si deve vedere in Hammett - del quale ammira soprattutto Il Falcone Maltese – un artista consapevole: “Non credo che abbia avuto aspirazioni artistiche, ma piuttosto che cercasse di guadagnarsi da vivere affrontando temi su cui aveva informazioni di prima mano (...) ma tutto ciò che scriveva aveva un fondo di verità, una base reale”. Per Joe Gores, scrittore di romanzi polizieschi, ammiratore incondizionato del maestro, tutti i racconti relativi al detective della Continental erano stati scritti per pagare i suoi creditori e la bolletta della luce: “Confessalo, Hammett, hai scritto questo perché ti dovevi pagare l'affitto. Ti sei servito della Continental per guadagnarti il pane”, gli fa dire nel romanzo che gli dedicò nel 1975.
(...)
Dashiell Hammett era marxista e, secondo Lillian Hellmann, era entrato nel partito comunista americano fra il 1937 e il 1938, quando si guadagnava la vita scrivendo il testo del fumetto Agente Segreto X9 e, saltuariamente, copioni cinematografici che non sarebbero stati mai realizzati. Anche nel caso che la sua amica non avesse evocato l'ideologia di Hammett (che lui sosteneva dicendo: “forse cambierò idea il giorno che sarà scoperto qualcosa di meglio e di più giusto”), risulta evidente che la sua visione del mondo attraverso la letteratura consiste fondamentalmente in una minuziosa contestazione dell'ideologia capitalista, uno sguardo impietoso sull'ambizione, il denaro e il potere:
La Chiave di vetro ne è una prova lampante. Le opinioni letterarie di Hammett sono rimaste nell'ombra. Si sa che gli piacevano Faulkner e Scott Fitzgerald; che salutò l'apparizione di Niente Orchidee per Miss Blandish di J.H. Chase come un capolavoro (“L'ho letto dieci volte e ogni volta ho pianto come un bambino”, scrisse sul New York Times). Passava il tempo (dopo aver abbandonato la scrittura) fra sbornie e letture di Marx, o di opere come Vita e Linguaggio delle Api oppure I Fabbricanti Di Fucili nella Germania del Secolo XVIII.
Nel 1948 Lillian Hellmann assiste per tutta una notte agli incubi che il delirium tremens provoca ad Hammett e lo fa internare.
Il giorno seguente lo scrittore promette che non berrà mai più e mantiene la promessa. Comunque il crollo è vicino anche se resta ancora nascosto dietro la sua irriducibile solitudine: “In capo a pochi anni si trasformò in un eremita” racconta Lillian “e la sua casa già così disagevole diventò sempre più orribile, con tutti i libri accatastati sule sedie, senza che ci fosse un solo angolo per sedersi. Trenta centimetri di corrispondenza senza risposta erano ammucchiati sul tavolo. Si moltiplicavano intorno a lui i segni della malattia. Il giradischi era rotto, la macchina da scrivere inutilizzata, le piccole cose assurde di cui amava circondarsi si ammucchiavano dentro le scatole. Quando io andavo a fargli visita una volta alla settimana quasi non ci parlavamo e quando veniva lui da me arrivava sfinito da quel piccolo tratto di strada tra la sua casa e la mia. (...) Un giorno apparve improvvisamente turbato – appariva sempre così quando faceva una confidenza – e mi disse: “Non posso continuare a vivere solo; va sempre peggio e ho deciso di entrare in un ospedale per ex combattenti. Potremo vederci quando vorremo. No, non voglio vederti piangere, ma io mi misi a piangere ed egli accettò di venire a vivere da me”.
La sua morte, avvenuta il 10 gennaio 1961, quando Hammett aveva 67 anni, provocò commenti come questo di Louis Aragòn in Francia: “E' morto il più grande scrittore degli Stati Uniti”.
Era sopravvissuto due anni a Chandler, uno a David Goodis. Spariva così tutta la generazione che aveva creato un genere letterario marginale e disprezzato dalla maggioranza degli “intellettuali” del suo tempo.

giovedì 19 marzo 2009

"A me non piace quello che faccio, lo faccio solo per senso di responsabilità. Mi fa schifo quello che faccio." (S. Berlusconi)


A lui fa schifo quello che fa.
A me fa schifo lui.
E' tutto uno schifo, signora mia...

mercoledì 18 marzo 2009

Il signor Zimmerman a venticinque anni


Ho trovato 'sta foto in giro per la rete e ho deciso di pubblicarla.
Credo risalga al 1966, Bob Dylan aveva venticinque anni.
Era il momento più creativo della sua carriera, tra Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde.
Dall'autunno del 1965 fino a tutta la primavera del 1966, mentre era in tour per gli States, «Dylan continuò a scrivere nuove canzoni. Durante una pausa dei concerti, buttava giù un'idea nel camerino. Mentre la Band dormiva nel Lockeed Lodestar noleggiato per la tournée, Dylan lavorava fino a tarda notte a una nuova melodia. Seduto sul sedile posteriore dell'automobile, mentre gli altri chiacchieravano del più e del meno, Dylan aveva le sue visioni al di là del paesaggio, che scorreva veloce. Nelle fumose camere d'albergo, tirava fuori un riff, una frase dalla sua chitarra. “Una volta o l'altra mi riuscirà di sentire dentro la testa la melodia e tutto il resto”, diceva nel 1985».
Così Robert Shelton in Vita e musica di Bob Dylan.
Le visioni di Dylan finirono stipate nelle quattro facciate di Blonde On Blonde, album che uscì nel maggio del '66.
Lo conoscete? E' quel disco che inizia con un blues circense (una roba in stile Esercito della Salvezza: il produttore Bob Johnston voleva che suonasse proprio così), Rainy Day Women # 12 & 35 - everybody must get stoned, in un modo o nell'altro - e termina con un inno, Sad Eyed Lady Of The Lowlands, in cui – è ancora Shelton - “la tradizione folk incontra la poesia moderna”: una delle più belle canzoni d'amore che siano mai state scritte, e questa non è solo la mia povera opinione. Dylan la dedicò alla moglie, Sara Lowndes. Occupava un'intera facciata.
Ascoltai Blonde On Blonde per la prima volta nel lontanissimo (ma a me sempre presente) 1982.
Mi cambiò la vita.

martedì 17 marzo 2009

Speaking in tongues


Da Il sole-24 Ore NordEst ho di recente appreso che Treviso Tecnologia, azienda speciale della Camera di commercio della Marca, ha organizzato nei mesi di febbraio e marzo una serie di corsi, gratuiti e a pagamento, rivolti a imprenditori, liberi professionisti e dipendenti di aziende pubbliche e private.
Tra questi, il seguente: “Lingua araba: gli strumenti base per poter cogliere le opportunità di business offerte dai paesi a sud del Mediterraneo”, un corso il cui obiettivo è “preparare imprenditori e personale di Pmi che necessitano di competenze linguistiche per affrontare i mercati arabi”. Saranno 32 ricche ore di lezione, 4 a settimana: “si potranno apprendere le basi linguistiche della lingua araba e sviluppare forme semplici di dialogo e di scritto" come, ad esempio, la seguente: «Contro i clandestini: pulizia da quelle etnie che distruggono il nostro Paese! Contro i nomadi: voglio eliminare i bambini degli zingari che vanno a rubare agli anziani! Contro chi vuole aprire moschee e centri islamici! Vangelo secondo Gentilini: tutto a noi e se avanza qualcosa agli altri! Non voglio vedere neri, marroni o grigi che insegnano ai nostri bambini! Cosa insegnano, la civiltà del deserto?». (così Giancarlo Gentilini alla Festa dei popoli padani, 14 settembre 2008)

E indubbiamente servono competenze linguistiche per affrontare i mercati arabi. Nella speranza che gli arabi ignorino cosa sia Treviso e chi sia Gentilini. Perché altrimenti serviranno innanzitutto fiato e buoni garretti.

P.S.
Però 'sti cazzo di leghisti fanno proprio pena, no?

Qualche giorno fa il parlamentare padano Davide Caparini, intervenendo alla scuola quadri della Lega Nord di Brescia, ha dichiarato che nelle zone più produttive del paese “c'è un eccesso di abuso di Viagra che è un evidente segnale di disagio”. Pare che, dal 1998 al 2005, in provincia di Brescia siano state consumate “dalle 3 alle 4 mila pillole di Viagra ogni mille persone. Nello stesso periodo, nella provincia di Potenza, il consumo è stato di 91 pillole per lo stesso numero di persone”. Là.
Traduzione: i terroni non hanno bisogno di medicine per farselo tirare. Davide Caparini (e glielo si legge in faccia) invece sì.

giovedì 12 marzo 2009

I moderati (ovvero, della deduzione trascendentale)

Ci sto rimuginando sopra da un bel po'...
Sapete cos'è che ci ha fottuto per bene (noi sinistra, noi civilizzati, noi perennemente non corrisposti, noi che l'avevamo detto, noi!) in questi quindici anni di continue devastazioni, secondo me?
Il fatto che ci siamo (mi ci metto anch'io, certo: non penserete mica che mi stia chiamando fuori?) spesso persi dietro alla seguente proposizione: “Facciamo attenzione a quello che diciamo e a come lo diciamo, compagni, perché potremmo spaventare I MODERATI”.
Capito? I MODERATI.
Qui. In Italia...
Paese sbracato, poco sobrio, poco serio: in una parola sola, smodatissimo.
Così scrisse, nel 1955, Norberto Bobbio (Il nostro genio speculativo, «Il Contemporaneo», 11 giugno 1955, cit. in E. Garin, La cultura italiana tra Otto e Novecento, Laterza, Bari 1962, p. 269).

Io credo che a qualcuno che ci guardasse dal di fuori (...) noi daremmo l'impressione di persone che sanno benissimo come la società italiana dev'essere, ma non sanno assolutamente com'è. E si capisce: per stabilire una volta per sempre come deve essere basta la deduzione trascendentale, per capire com'è occorrono indagini laboriose.



P.S.
I moderati italiani lo amarono taaaaanto, sapete?

Smisero improvvisamente di amarlo quando incominciarono a piovere bombe sulle loro belle casine.

martedì 10 marzo 2009

Il presidente della prima industria culturale del Paese

"Abbiamo stima nei confronti di Claudio Petruccioli, ma anche in coerenza con quanto affermato dal leader del Pd, serve un rinnovamento nella Rai".
Così Silvio Berlusconi a proposito della nuova presidenza della televisione di Stato.

"Non stimo per nulla Claudio Petruccioli e spero che si levi dai coglioni quanto prima. Auspico anch'io un rinnovamento nella Rai, certo... Come presidente, in particolare, credo che Attila, flagellum Dei, sarebbe perfetto".
Così Tic a proposito della nuova presidenza della televisione di Stato.

sabato 7 marzo 2009

Dirty Harry (di Don Siegel)


"Lo so cosa ti stai chiedendo: avrà sparato cinque o sei colpi? Per dirti la verità, in questa baraonda ho perso il conto anch'io. Ma questa è una 44 Magnum e da questa distanza basta un solo colpo per ridurti il cervello in poltiglia. Dì: ne vale veramente la pena?"

venerdì 6 marzo 2009

Alexandru Loyos e Karol Racz


Rumeni (mamma mia, Rumeni! Oddioddioddio, Rumeni! Come il conte Dracula, pensate!!!), accusati di stupro.
A giudicare dai notiziari televisivi e dai quotidiani, 'sti due disgraziati (a prescindere...) sono le persone più importanti d'Italia, in questo momento.
Che dire?
A noantri, evidentemente, l'informazione piace così...

martedì 3 marzo 2009

Quelli là (un post benaltrista)


Un sacco di gente è rimasta alquanto impressionata (sembrerebbe) da quanto ha scritto Ilvo Diamanti su la Repubblica domenica scorsa.

Oggi il (leggendario) presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, dichiara a Curzio Maltese che nella descrizione dei cittadini delusi, traditi o esuli in patria di cui ha parlato Diamanti ha ritrovato “molti sentimenti che sono anche i miei (e te pareva, n.d.r.), di uno in politica da sempre (eh, già, n.d.r.). Come non rendersene conto e dare sempre tutto per scontato? Per decenni ci siamo illusi (aspetta un po', aspetta un po': ci siamo chi?, n.d.r.) che i voti degli operai o delle periferie fossero nostri per sempre. Poi ci siamo illusi (chi è che si è illuso, scusa?, n.d.r.) che un pezzo d'Italia ci avrebbe votato comunque contro quello là. Ma chi l'ha detto? (e io che ne so? Pensavo lo sapessi tu, n.d.r.) Un atteggiamento aristocratico che ci ha impedito di elaborare una nuova agenda politica e di andare all'attacco quando avremmo dovuto farlo”. Avete capito, sì? La politica, dopo aver combinato dei casini immani, troverà di certo il modo per rimettere tutto quanto a posto. Basterà solo consegnare il potere alla generazione dei Nicola Zingaretti e... Voilà!

E adesso Michele Serra disteso sull'amaca.

Ilvo Diamanti definisce gli elettori di sinistra delusi “esuli in patria”. Mi chiedo se il neosegretario del Pd Franceschini, nonché i litigiosi leaderini della fu sinistra “arcobaleno”, l'abbiano valutata nella sua poetica gravità. Dice, quella definizione, che è in atto (in misura ancora non valutabile) un Aventino non delle classi dirigenti, ma del popolo. Italiani in genere socievoli e civili, non estremisti, che vivono una sorta di amarissime dimissioni dalla politica rappresentativa, quella delle elezioni, del solenne rito democratico del voto, del Parlamento, delle istituzioni. In Abruzzo e in Sardegna hanno già lasciato il segno.
Recuperarli del tutto o in parte è possibile? Di certo, questo dovrebbe essere il primo scrupolo dei politici di professione. Ma parlare agli “esuli in patria” comporta la fatica di rinunciare a parlare di se stessi, dei giochi di partito, delle beghe di corridoio. L'esercito dei media, i manipoli di telecamere e taccuini, sono sintonizzati (da anni) soprattutto sul gioco partitico, sul penoso parolificio delle dichiarazioni stizzose, dei comunicati pedanti. Anche per il più intelligente e autocritico dei politici, è un'impresa disperata uscire da quel gioco degli specchi. Ci vorrebbe una genialità francescana, uno scarto anti-sistema (mediatico) per dare l'idea che si ha voglia di parlare d'altro, e dunque di parlare nuovamente alle persone.


Questo scrive oggi Serra. Che la politica, insomma, ha combinato dei casini immani. Riuscirà la politica a rimettere tutto a posto?
Ma vediamo un po' cos'ha scritto domenica Diamanti. Vediamo...

Sì, vabbè: ha parlato di elettori di sinistra delusi. Esuli in patria.
Gente consapevole, istruita, laica, tollerante, che si riconosce nei valori della Costituzione. Gente che oggi nutre “una sfiducia totale nei confronti della politica e dei partiti. Anzitutto verso il Pd per cui hanno votato. Per questo non si sentono traditori ma semmai traditi. Perché hanno creduto molto in questo soggetto politico. Per cui hanno votato: alle elezioni e alle primarie. E oggi non riescono a guardare altrove, a cercare alternative”. E fin qui siamo appunto alla politica, ovvero alle “dimissioni” di molti cittadini (istruiti, laici, tolleranti eccetera eccetera) dalla politica. Ma Diamanti aggiunge altro: la sfiducia dei cittadini di cui sopra “si rivolge oltre il partito di riferimento. Anzi: oltre i partiti. Oltre la politica. Si allarga al resto della società. Agli altri cittadini. Con-cittadini. Rispetto ai quali, più che delusi, si sentono estranei. (...) Guardano insofferenti gli italiani che votano per Berlusconi e per Bossi. Quelli che approvano le ronde e vorrebbero che gli immigrati se ne tornassero tutti a casa loro. La sera. Dopo aver lavorato il resto del giorno nei nostri cantieri. (...) Provano fastidio - neppure indignazione – per gli italiani. Che preferiscono il maggiordomo di Berlusconi a Soru. Che guardano Amici e il Festival di Sanremo, il Grande Fratello. Che non si indignano per le interferenze della Chiesa. Né per gli interventi del governo sulla vicenda di Eluana Englaro”. Secondo Diamanti, 'sti cittadini istruiti, laici e tolleranti (?) guardano con distacco al loro paese, anzi “non lo guardano nemmeno. Per soffrire di meno, per sopire il disgusto: si sono creati un mondo parallelo”.
Michele Serra sembra non averci fatto caso, a queste ultime parole. Chissà come mai...

Io invece, nel mio piccolo, ci ho fatto caso eccome.
No, perché, insomma... Ve lo confesso, dai: a me è capitato di riconoscermi nel ritratto di chi prova fastidio (è giusto, è giusto: non indignazione, fastidio) per moltissimi dei propri connazionali: quelli che la Maria De Filippi, quelli che il Grande Fratello, quelli che l'Isola dei Famosi, quelli che il calcio, quelli che meno male che Silvio c'è, quelli che Itaaaalia Unooooo!, quelli che 'sti immigrati bisognerebbe fare come fanno in Spagna che li mitragliano in mare prima che approdino, quelli che ieri erano gli albanesi, oggi sono i rumeni e domani saranno gli eschimesi, quelli che Di Bella aveva sconfitto il cancro ma la Bindi, quelli che l'aviaria, quelli che la sars, quelli che Tremonti aveva previsto tutto, quelli che non sono fannulloni e quindi non hanno niente da temere dal ministro Brunetta, quelli che a mezzanotte va la ronda del piacere, quelli che Padre Pio. Quelli.
E allora anch'io credo, come no, che la sinistra, tanto per cambiare, abbia un bel problema: recuperare i suoi elettori delusi, “far tornare gli esuli”, come scrive Diamanti.
Ma credo pure che, in questo preciso momento, sia la società italiana tutta ad avercelo, un bel problema. E ci vorrà ben altro, temo, che “una genialità francescana, uno scarto anti-sistema (mediatico)” per rimetterci in carreggiata e “per dare l'idea che si ha voglia di parlare d'altro, e dunque di parlare nuovamente alle persone”, come sostiene Michele Serra.
Io (e, come me, moltissimi altri) non ho niente da dire, a quelli là. Non ho proprio niente da spartire, con quelli là.
Perché li detesto. E sono ricambiato di cuore, non ne dubito.
Edmondo Berselli chiama tutto ciò “guerra civile a bassa intensità”.

domenica 1 marzo 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.55)


"...essere diversi, essere altrove è una splendida definizione delle ragioni della metafora, delle ragioni profonde di tutta la poesia."

(Harold Bloom)