venerdì 30 gennaio 2009

Senza parole

Non trovo le parole per raccontarvi l'interpretazione di Kate Winslet in Revolutionary road di Sam Mendes.
Posso solo consigliarvi il film. Che alla fine lascia percossi e attoniti ma è, semplicemente, perfetto.
Mi credete?

giovedì 29 gennaio 2009

Gli assessori alla cultura e le soubrette

Ieri sera al Teatro comunale di M. (uno dei pochi luoghi che amo veramente, nella mia città. D'altra parte, l'ho fatto rimettere in sesto proprio io...) è approdata la Trilogia della Villeggiatura di Carlo Goldoni, spettacolo (freschissimo di Premio Ubu, l'Oscar del teatro italiano, come miglior spettacolo della stagione 2008) diretto e interpretato da Toni Servillo, attore mooolto popolare (e mooolto di moda) da un paio d'anni a questa parte ma vivaddio meritatamente.
Un testo fortissimo (tre commedie - Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura – concepite come un'unica opera) per una messa in scena sottilmente inquietante sul potere corruttore del denaro e sull'ipocrisia e lo squallore del decoro borghese: secondo Servillo, intervistato da Il Piccolo, sono temi “di schiacciante modernità (eh, sì: direi proprio di sì..., n.d.r.). L'impasto tra denaro e sentimenti, dove spesso la mancanza di soldi costringe a dei compromessi forti e a vivere con una prudenza fatta di accidia spirituale, è fortemente contemporaneo, così come l'impasse della borghesia”.
E io condivido, condivido: come potrei non? Povera, povera la borghesia, classe sociale che in Italia mai, o quasi mai, è stata all'altezza del suo compito storico (in compenso, la nostra piccola borghesia, sempre meschina, sempre impaurita, sempre ignorante e sempre trionfante, ha regalato al mondo il Fascismo...).
E insomma, Il Piccolo domanda a Servillo: “Com'è accolta la “Trilogia” dal pubblico dei teatri di provincia e delle grandi metropoli?”.
L'attore risponde così: “Le grandi città leggono lo spettacolo all'interno di una diversità di proposte culturali come mostre, eventi culturali, libri. A volte invece la provincia mi sembra anestetizzata da una proposta indifferenziata di carattere televisivo, che si rispecchia nei cartelloni dei teatri, anche a causa di assessori alla cultura che cercano solo consenso e mettono in programma la soubrette”.
Terribile, questa sugli assessori alla cultura che cercano solo consenso e mettono in un programma teatrale delle cagate televisive.
Terribile perché è vero, sapete? Quello di far passare in teatro la soubrette di cui parla Servillo è il pericolo che si corre maggiormente, da assessori alla cultura responsabili di un programma di prosa. Quando vengono da te e ti dicono “guardi, assessore, che noi veniamo qua per divertirci, sa?”, oppure “ma com'era pesante, 'sto spettacolo. Ma un po' più di leggerezza?”, o ancora “ma perché fate cose sempre così difficili?”, beh, la tentazione di dar loro la merda che vogliono è davvero forte. Se poi ci si mette pure il sindaco - “Eh, guarda che la nostra (nostra? Tua, forse, n.d.r.) gente certe cose non le capisce... Ma metti in programma qualche commedia dialettale, qualche cosa meno pesante, dai! Due ore e mezza seduti in teatro, per una cosa impegnativa? Valuta, no? Io sento lamentele, vedi tu...” oppure "guarda che dovrebbe essere l'assessorato alla cultura a produrre consenso..." - è parecchio difficile tener duro...
Molta gente, oggigiorno, va a teatro cercando la televisione; entra in sala, sempre più spesso, chiedendo “ma quanto dura?perché ormai assuefatta all'uso del telecomando; vuole leggerezza e musical, musical, musical!
Io, da assessore alla cultura, devo ammettere che qualche volta ho ceduto alla tivvù (per esempio, ho voluto in cartellone, dopo l'editto bulgaro e per due anni consecutivi, quella canaglia di Daniele Luttazzi). Ma non ho mai messo in programma le soubrette. Davvero.
Troppo il rispetto per il Teatro, troppo il rispetto per la Cultura.


martedì 27 gennaio 2009

Di pastori e greggi

"Perché poi il Signore dovrebbe essere un pastore? Per metà del tempo non fai che camminare sulla merda delle pecore".

Così il grandissimo Joseph Heller in God knows del 1984 (pubblicato in Italia nel 1985, per i tipi di Mondadori, come Lo sa Dio, traduzione italiana di Ettore Capriolo. Si attende una ristampa. Almeno, io l'attendo. Si può sperare in minimum fax?).

Nella foto qui sopra, il leggendario gregge del Signore. Che poi è solo una metafora, nevvero?

domenica 25 gennaio 2009

L'acqua calda di Ezio Mauro

Ieri, su la Repubblica, editoriale del direttore Ezio Mauro. Condivisibile, ma piuttosto bizzarro.
Provo a spiegare perché.
Mauro rileva che il richiamo del cardinale di Torino, Severino Poletto, all'obiezione di coscienza dei medici (in Piemonte, secondo il porporato, dovrebbero rifiutarsi di sospendere l'alimentazione forzata a Eluana Englaro, se mai i genitori di Eluana decidessero di portare la figlia a morire colà) suona malissimo.
“Non c'è alcun dubbio – nota Mauro – che la coscienza individuale può ribellarsi a questo esito, e il medico – credente o no – può vivere un profondo travaglio tra il suo ruolo pubblico in un ospedale statale al servizio dei cittadini e delle loro richieste, il suo dovere professionale che lo mette al servizio dei malati e delle loro sofferenze, e appunto i suoi convincimenti morali più autentici”.
Si può obiettare al proprio ruolo pubblico, insomma, se la coscienza morde. Senonché al direttore de la Repubblica pare, appunto in coscienza, “molto diverso il caso in cui i credenti medici vengono sollecitati collettivamente da un Cardinale (quasi come un'unica categoria professionale e confessionale da muovere sindacalmente) a mobilitarsi nello stesso momento e ovunque per mandare a vuoto una sentenza dello Stato, indipendentemente dalla riflessione morale e razionale di ognuno (...). Qui non si può parlare, se si è onesti, di obiezione di coscienza: semmai di obbligazione di appartenenza, perché l'identità cattolica di quei medici diventa leva e strumento collettivo su cui puntare con impulso gerarchico per vanificare una pronuncia della Repubblica”. E la Repubblica di cui si parla in questo caso non è il giornale diretto da Ezio Mauro, ma la Repubblica Italiana.
Poi il giornalista sembra stupirsi alquanto, fate attenzione: “Poletto sostiene (...) che poiché la legge di Dio non può mai essere contro l'uomo, andare contro la legge di Dio significa andare contro l'uomo: dunque se le due leggi entrano in contrasto “è perché la legge dell'uomo non è una buona legge”, ed il cattolico può trasgredirla. La legge di Dio è superiore alla legge dell'uomo”. Su questa dichiarazione vale la pena di riflettere, secondo un Mauro sempre più sconcertato: “E' la concezione annunciata pochi anni fa dal Cardinal Ruini (eh, sì: è proprio la concezione annunciata pochi anni fa dal Cardinal Ruini. Quindi, caro direttore de la Repubblica, è il cane che morde l'uomo. Non mi pare una notizia, insomma, n.d.r.) secondo cui il cattolicesimo è una sorta di seconda natura degli italiani, dunque le leggi che contrastano con i principi cattolici sono automaticamente contronatura, e come tali non solo possono, ma meritano di essere disobbedite. Da questa idea discende la teorizzazione del nuovo cattolicesimo italiano di questi anni: la precettistica morale della Chiesa e la sua dottrina sociale coincidono con il diritto naturale, dunque la legge statale deve basare la sua forza sulla coincidenza con questa morale cattolica e naturale, trasformando così il cattolicesimo da religione delle persone in religione civile, dando vita ad una sorta di vera e propria idea politica della religione cristiana”.
Là. Manca solo il punto esclamativo finale a rappresentare il trasecolamento di Ezio Mauro. O tempora! Santa madre chiesa se ne sbatte dello Stato italiano, capite? E se ne impipa - ma è in-cre-di-bi-le! - della Repubblica (di quella italiana e pure del giornale di Mauro. E nonostante il giornale di Mauro ce le abbia fatte a fette per mesi, quando cercava di fiancheggiare la brillante operazione PD con una marea di interviste a Giuliano Amato, il laico secondo il quale “i credenti hanno una marcia in più” - lui è credente, ça va sans dire – o con le dotte elucubrazioni di Giancarlo Bosetti sul mitico “dilemma di Böckenförde”. Lo sapete cos'è, il dilemma di Böckenförde? No? Beh, è una roba tipo il Comma 22 di Joseph Heller – conoscete? “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Secondo Böckenförde, tedesco, cattolico, giurista di quei sottili - un tipo alla Giuliano Amato, insomma - “lo stato liberale si nutre di premesse che esso non è in grado di per sé di garantire”. Ovvero, secondo lui, chi vive nello stato liberale non è consapevole di quanto esso debba alla religione, e non soltanto alla sua lotta per separarsi dalla religione. Böckenförde, insomma, pensa che lo stato liberale sia portatore di un deficit etico. Grave mancanza a cui, in tempi di solidità culturale, nessuno fa troppo caso e bona là; le cose possono cambiare, però, se e quando alla porta della società occidentale – la società di cui e per cui parla Böckenförde – vengono a bussare degli ospiti inquietanti... Ospiti che, per loro natura, sono portati a sollecitare l'elemento etico della società occidentale. Che so? Nuove concezioni della vita e della famiglia - quindi della sessualità: vi suona qualcosa, vero? - contrasti identitari, scontri di civiltà vari ed eventuali, nuove scoperte della scienza: toc toc toc. Ecco, in questo caso la religione potrebbe generosamente prestarsi a fare – grande, Böckenförde! – la riserva di senso per quelle democrazie liberali che si pascerebbero, bovinamente, di premesse e promesse che proprio non sarebbero in grado, da sole, di mantenere. E insomma pippe su pippe di Giancarlo Bosetti su 'sto cazzo di dilemma di Böckenförde, da Reset a la Repubblica, per offrire - pure lui generosamente, immagino - qualche ideuzza a quell'ircocervo chiamato PD.
Splendido poi il Bosetti pure sabato 17 gennaio 2009 - sempre su la Repubblica - quando ha scritto che, c'è poco da fare, i cattolici hanno maggior sensibilità per la coesione di una società, per il fattore “religante”, la cultura laica invece per i diritti individuali e “senza uno sforzo di collaborazione, la società italiana non si solleverà dalla frammentazione”. Secondo il nostro, insomma, la cultura laica sarebbe stata finora incapace di affrontare il problema della perdita di coesione della nostra società e di una democrazia che ha bisogno come il pane di un capitale sociale, cioè di una tenuta delle ragioni per stare insieme e prendersi cura degli altri. Ma i cattolici possono ben fornirlo, alla democrazia de noantri, 'sto ricco capitale di senso, poiché ne posseggono ad abundantiam : “Nelle pubbliche discussioni è più spesso il cattolico a sollevare il problema dei ragazzi che si ammazzano ubriachi alla guida il sabato sera o si prendono a sprangate in curva sud la domenica”. Per i laici, dunque, sarebbe arrivato il tempo di meditazioni “religiose”, secondo il Bosetti. E così sono tornato a Giuliano Amato e ai credenti che hanno “una marcia in più” e posso chiudere la lunghissima parentesi).
E insomma, il Mauro stupefatto, si diceva. Ma... Ma... Ma... “Ma se legge di Dio è superiore alla legge dell'uomo, se (...) la Chiesa prevale sullo Stato anche nell'applicazione delle leggi e delle sentenze, nascono due domande: che cittadino è il cattolico osservante, se vive nella possibilità che gli venga chiesto dalla gerarchia di trasgredire, obiettare, disubbidire?”.
Povero Ezio Mauro: dev'esserci proprio rimasto di princisbecco, accidempolina, per le cose che ha detto - e proprio a la Repubblica - il cardinale Poletto!
Rispondiamogli con il vecchio Jean Jacques Rousseau, che aveva già capito tutto qualche secolo fa: “Il cristiano è un cattivo cittadino. Se nella società fa il suo dovere, ciò è un dato di fatto, ma non di principio, perché per il cristiano è essenziale il Paradiso”. Eh, già... La cultura dei cristiani (ma mi riferisco soprattutto ai cattolici romani) prevede (uso l'immagine di Agostino di Ippona) la subordinazione della città terrena alla Civitas Dei, la città celeste, e giammai (giammai...) il contrario. Per il cristiano la destinazione dell'individuo è ultramondana e la sua esistenza, pur svolgendosi (e sporcandosi) nel mondo, dal mondo, prima o poi, dovrà separarsi. Come ha detto qualcuno (ma non ricordo proprio chi), secondo il cristiano l'individuo ha il compito di conseguire la propria salvezza ultraterrena, mentre lo Stato - chi lo governa – ha solo il compito di ridurre gli ostacoli che si frappongono tra l'individuo e la sua salvezza ultraterrena. Amen.
E la seconda domanda che è (bizzarramente. Ma vi avevo avvertito, all'inizio) nata al direttore de la Repubblica?, vi starete magari chiedendo. Eccola qua, eccola qua: “Che concezione ha la Chiesa italiana, con i suoi vescovi e Cardinali (sic, maiuscolo, n.d.r.), della democrazia e dello Stato?”. Che... concezione... ha... la Chiesa... dello Stato?!? A me scappa proprio da ridere. Davvero. E intanto Mauro prosegue: “Qualcuno dovrà pur ricordare che nella separazione tra Stato e Chiesa (...) la religione non fa parte dello “jus publicum”, la legge umana non fa parte di quella divina con la Chiesa che la amministra, le istituzioni pubbliche e i loro atti sono autonomi dalle cattedre dei vescovi e dal magistero confessionale”. E certo che qualcuno dovrà pur ricordare! Anzi, qualche giorno fa qualcuno ha ricordato. Quel qualcuno si chiama Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte, e per le cose che ha detto (cose banalotte, in fondo) è stata molto criticata, dalla Destra (ovviamente) e pure dal suo partito, il PD (o meglio, dai tanti seguaci di Böckenförde che albergano nel PD).
Comunque, Ezio Mauro arriva fortunatamente a concludere il suo bizzarro editoriale affermando che “non esiste una forma di “obbligazione religiosa” a fondamento delle leggi di un libero Stato democratico, nel quale anzi nessun soggetto può pretendere “di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla”. Ne dovrebbe discendere finalmente una parità morale nella discussione pubblica, negando il moderno pregiudizio per cui la democrazia, lo Stato moderno e la cultura civica che ne derivano sono carenti senza il legame con l'eternità del pensiero cristiano, sono insufficienti nel fondamento. (...) Come se per i laici la vita non fosse un valore, e praticassero la cultura della morte. (...) Come se la coscienza italiana fosse solo cattolica”.
Insomma, pare di capire, da adesso in poi, su la Repubblica, niente più stronzate alla “i credenti hanno una marcia in più”. Niente più dilemmi di Böckenförde. E, si spera, niente più editoriali di Mauro sulla scoperta dell'acqua calda.
Che sono un insulto all'intelligenza dei lettori del suo giornale.



P.S.
Devo proprio dirvi, infine, che io - da laico (da laico ateo, intendo) - mi preoccupo davvero molto per “i ragazzi che si ammazzano ubriachi alla guida il sabato sera o si prendono a sprangate in curva sud la domenica”. Questo dovrò scriverlo, prima o poi, a Giancarlo Bosetti: così magari gli metto un po' in crisi il sistema...
E mi preoccupo molto, già che ci sono, anche per quei ragazzi e ragazze a cui, frequentando le parrocchie, capita talvolta di fare brutti incontri e bruttissime esperienze. Non so se capite cosa intendo...

venerdì 23 gennaio 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.52)


"Più si invecchia e più ci si convince che Sua sacra Maestà il Caso fa i tre quarti del lavoro in questo miserabile universo."

(Federico II di Prussia. Dalla lettera a Voltaire del 26 dicembre 1773)

giovedì 22 gennaio 2009

Un consiglio veloce veloce...

Veloce veloce perché oggi non ho molto tempo.

Visto ieri sera, in un triste multisala a Udine, Lasciami entrare (Låt den rätte komma in) di Tomas Alfredson (tratto dall'omonimo romanzo di John A. Lindqvist - pure autore della sceneggiatura della pellicola – uno dei cult-books di mia moglie E., lettrice molto esigente) e lo consiglio, cuore in mano, a tutti e a ciascuno.
Quella tra Oskar ed Eli è semplicemente la più bella storia d'amore (la più delicata, la più struggente, la più commovente, la più tutto) vista al cinema negli ultimi anni.
Che poi Lasciami entrare venga presentato come un horror, beh, ci può pure stare: Eli è una/un vampira/o, in fondo, e uccide (“Uccido perché devo vivere”).
Io amo moltissimo i film che parlano di vampiri, tra l'altro (questo non ve l'avevo ancora detto, nevvero?). Di più: sono un vero esperto in materia. Perciò potete credermi: questa piccola produzione svedese è un gioiello che verrà ricordato come un classico del genere succhiasangue, tra qualche anno. Al pari, che so, di un The Hunger (Tony Scott, 1983. Con un'inquietante Catherine Deneuve, una performance dei Bauhaus di straordinario impatto visivo – Bela Lugosi's Dead, naturalmente – e un'indimenticabile scena lesbo sottolineata dal canto della schiava Mallika e della principessa Lakmè dalla Lakmè di Lèo Delibès. Film purtroppo intitolato, in Italia, Miriam si sveglia a mezzanotte: criminali, criminali!!!)o di un Near Dark (Kathryn Bigelow, 1987. Quanto lo vorrei rivedere, Il buio di avvicina... Mi manca da ventun anni).
No. Intervista col vampiro io non lo amo niente. C'era Tom Cruise, sapete...

mercoledì 21 gennaio 2009

Quando i ricchioni fanno ohh...

Scoop de la Repubblica!
Gino Castaldo è riuscito ad ascoltare in anteprima Luca era gay, la canzone che tal Povia (?) presenterà al Festival di Sanremo.
Luca era gay ha fatto incazzare di molto quelli dell'Arcigay, che hanno accusato 'sto signor Povia (?) di presentare l'omosessualità come una malattia da cui si può guarire.
Non avevano in mano altro che un titolo con il verbo all'imperfetto, per prendersela con il Povia (?), quelli dell'Arcigay: Luca era gay. Solo un verbo all'imperfetto che però lasciava immaginare chissà cosa...
Adesso, grazie a Gino Castaldo, non c'è più niente da immaginare: l'Arcigay sa. E sa quello che tutti coloro che hanno letto oggi la Repubblica sanno: Povia (?) non è certo un omofobico.
Così Castaldo: “...la storia di Luca, praticamente un melò: l'infanzia, dominata da una madre iperaffettuosa, ovviamente gelosa di altre femmine che «mi parlava sempre male di papà mi diceva non ti sposare mai» e un padre che non regge il disagio, «non prendeva decisioni e stava fuori tutto il giorno», alla fine se ne va, comincia a bere, di fatto scompare dalla vita di Luca (è stato fortunato Luca, in ogni caso: si pensi solo a cosa toccò in sorte al povero Precossi del libro Cuore. Massì, Precossi, “il figliuolo del fabbro ferraio, quello piccolo, smorto, che ha gli occhi buoni e tristi, e un'aria di spaventato così timido, che dice a tutti: scusami; sempre malaticcio, e che pure studia tanto. Suo padre rientra in casa ubriaco d'acquavite, e lo batte senza un perché al mondo, gli butta in aria i libri e i quaderni con un rovescione; ed egli viene a scuola coi lividi sul viso, qualche volta col viso tutto gonfio e gli occhi infiammati dal gran piangere. Ma mai, mai che gli si possa far dire che suo padre l'ha battuto. - È tuo padre che t'ha battuto! - gli dicono i compagni. Ed egli grida subito: - Non è vero! Non è vero! - per non far disonore a suo padre. - Questo foglio non l'hai bruciato tu, - gli dice il maestro, mostrandogli il lavoro mezzo bruciato. - Sì, - risponde lui, con la voce tremante; - son io che l'ho lasciato cadere sul fuoco. - Eppure noi lo sappiamo bene che è suo padre briaco che ha rovesciato tavolo e lume con una pedata, mentr'egli faceva il suo lavoro”. Ecco, a Precossi andò decisamente peggio, povero Precossi! Il babbo ubriacone di Luca, invece, non lo batteva mai, parrebbe, n.d.r.) finché, seguendo un determinismo meccanico, da manuale di psicologia minore, arriva un uomo adulto (in zona di sospetta pedofilia, tanto che il ragazzo teme possa essere arrestato, ma pensa già a far sparire le prove così lo assolvono), un uomo che, neanche a dirlo, sostituisce il padre mancante e gli regala il tanto agognato amore. Poi si arriva alla rivelazione finale. Luca scopre che attraverso una lei può finalmente smettere di essere gay (“papà ti ho perdonato, mamma ti penso spesso ma adesso sono innamorato dell'unica donna che abbia davvero amato”)”. Luca alla fine se la sposerà, 'sta Florence Nightingale dei deviati, e ci farà pure dei figli.
E adesso ecco il ritornello della canzone di Povia (?): “Luca era gay e adesso sta con lei. Luca parla con il cuore in mano, Luca dice sono un altro uomo”.
Visto? Il signor Povia (?) non è certo un omofobico. Egli è, invece, un raffinato intellettuale cattolico: niente, ma proprio niente da invidiare, che so? A un Magdi Cristiano Allam, a una Paola Binetti, a un Giuliano Ferrara. Grande complessità di pensiero al servizio di valori forti, insomma, mica relativismo etico da mammalucchi!
E, già che ci siamo, non dimenticate mai, brutti zozzoni che non siete altro, che la particolare inclinazione della persona omosessuale “benché non sia in sé peccato, costituisce tuttavia una tendenza, più o meno forte, verso un comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l’inclinazione stessa dev’essere considerata come oggettivamente disordinata” (Joseph Ratzinger, Cura pastorale delle persone omosessuali).

martedì 20 gennaio 2009

Camouflage



Qualche giorno fa qualcuno è passato da queste parti cercando “camouflage stan ridgway traduzione”.
La cosa mi ha colpito molto: “Ma come cazzo è possibile?”, mi sono chiesto.
E mi sono risposto – che ci voleva? Era l'unica risposta logica - che probabilmente avevo parlato, in qualche modo, in qualche post, di Stan Ridgway e di una delle mie canzoni preferite, Camouflage appunto. Ma quando?
Ho ponzato parecchio, ve lo confesso. E alla fine, dai e dai, ci sono arrivato. Ecco qua.
http://tic-talkischeap.blogspot.com/2007/10/american-gothic.html
Era il 10 ottobre del 2007: avevo promesso a qualcuno (a me stesso, in realtà) che avrei parlato di una delle più belle (e commoventi) storie di fantasmi che sia mai stata raccontata.
Qualche parola sull'autore, un culto assoluto, per certi bei tomi (quorum ego, avrebbe detto Brera).
Ridgway cominciò con i Wall Of Voodoo, una delle cinque band definitive della new wave americana (si, lo so: new wave non vuol dire una cippa di niente. “Ho una grande notizia da dare al mondo: non c'è una cosa chiamata new wave. Non esiste. Non è che una fantasia da froci. Non è mai stata altro che una cosa gentile da dire quando stai cercando di spiegare che non ti piace il noioso, vecchio rock'n'roll ma non osi pronunciare la parola 'punk', perché hai paura che ti sbattano fuori dalla fottuta festa, che non ti diano più la coca. C'è musica nuova, c'è un nuovo underground, c'è il noise, c'è il punk, c'è il power-pop, c'è lo ska, c'è il rockabilly... ma new wave non vuol dire un cazzo”. Così sputazzava Claude Bessy – direttore, mi vien da ridere, del leggendario Slash - in The Decline Of Western Civilization, il film che Penelope Spheris volle dedicare alla scena punk di Los Angeles della fine dei seventies), una delle cinque band definitive della new wave (che, certamente, non vuol dire proprio una cippa di niente, come voleva il raffinato Bessy, ma insomma fatemela passare...) americana, in my opinion, essendo le altre quattro i Talking Heads, i Devo, i Pere Ubu e i Television e scusate se è poco.
Siccome mi piace abbastanza quello che qualcuno ha scritto di Call Of The West, a.D. 1982 - il capolavoro dei Wall Of Voodoo, (nonché uno dei più bei dischi di sempre, poche seghe) - su il Mucchio Extra numero 30, autunno 2008, lo riporto qui di seguito: “in quei primi '80 avari di sicurezze (...) Ridgway e sodali vagavano da novelli pionieri, sperduti tra un canyon polveroso e un cantiere abbandonato. Cercavano solo qualcosa cui aggrapparsi e si rivolsero al vecchio West, retroterra leggendario di una nazione che prendevano a smantellare e ricomporre omaggiando Ennio Morricone e Johnny Cash con riletture tanto iconoclaste quanto memorabili. Ci volle un meraviglioso apprendistato sotto forma di un mini e un lp (Dark Continent) al pari fulgidi affinché Ridgway (cantante, armonicista e cinefilo) cristallizzasse il proprio talento con l'apporto di Marc e Bruce Moreland a chitarra e basso, Chas T. Gray alle tastiere, Joe Nanini alla batteria.
Zenith esaltante e impareggiabile trasfigurazione delle radici, il secondo album – inciso senza più Bruce e con in squadra il nuovo tastierista Bill Noland - finirà per segnare un successo da Top 40 con la frenetica
Mexican Radio, entrando nel contempo negli annali con i crismi del Capolavoro unico e perennemente attuale nell'esatto mentre in cui cattura lo spirito di un'epoca. Compiuta la mescolanza di elettronica e country, fra atmosfere da colonna sonora e una galleria di personaggi degni di un Philip Dick o un Raymond Carver, i risultati sono fenomenali in toto. (...) Voleva una scappatoia da “un paese non per vecchi”, il Muro del Vudù, e preconizzò un'ampia fetta del nostro presente. Sabbia nei meccanismi del Sistema, crisi economiche e cowboy con laptop inclusi”.
Tutto vero, sapete?
(e sostenetelo, il Mucchio, se potete. Io, tra una cosa e l'altra, lo leggo dal dicembre del 1981)
Tutto vero e se non l'avete mai ascoltato, nella vostra vita, il richiamo del West, dovete farlo: trust in tic.
Stan Ridgway lasciò la band nell'ottantatré e, a parte una collaborazione con Stewart Copeland (Don't box me in, tema del Rumble Fish di Francis Ford Coppola), su di lui poche notizie fino al 1986: l'anno di The Big Heat, il suo primo lp solista.

E allora siamo quasi al punto. La musica è quella dei migliori Wall Of Voodoo (con giusto qualche morbidezza jazzy in più, vedi Walkin' Home Alone) e si capisce, visto che Ridgway era i Wall Of Voodoo (ci sarebbe stata una band con quel nome, dopo il 1983. Si chiamavano, certo, Wall Of Voodoo, ma siccome Stan Ridgway con loro non c'era più, pochi scherzi: quelli non erano più i Wall Of Voodoo): meravigliosamente in bilico tra passato e futuro, banjo e drum programming, armoniche a bocca assieme ai synth, i cieli del deserto e quelli della metropoli. E poi ci sono i testi, che assomigliano a delle sceneggiature cinematografiche, con personaggi che sembrano usciti da un racconto di Cattedrale (si, è proprio così) o dalla penna di un Raymond Chandler, o di un Jim Thompson: parole cantate da una voce bellissima, calda, dal timbro un po' metallico e un po' nasale, la voce di uno straordinario storyteller.
Camouflage (e ci siamo arrivati, alla fine), beh, Camouflage è...
Significa 'mimetizzazione', in linguaggio militare. E anche 'travestimento', 'camuffamento', 'finzione' (il ritornello dice che “things are never quite the way they seem”). Ma nella canzone (che sembra un country and western scritto da Ennio Morricone e invece è puro Stan Ridgway a 24 carati) Camouflage è un soprannome...
Il racconto è in prima persona: un marine ricorda (I was a pfc on a search patrol huntin' Charlie down) una notte di perlustrazione nella giungla vietnamita (It was in the jungle wars of '65).
My weapon jammed (un'arma che non serve a un cazzo) and I got stuck way out and all alone (un soldato che perde il contatto con i suoi compagni) and I could hear the enemy movin' in close outside (è Charlie... E' Charlie!). A un tratto il marine sente un ramoscello spezzarsi e allora stringe il suo fucile inservibile, lo stringe forte perché ha paura. And then a big marine, a giant with a pair of friendly eyes, appare alle sue spalle e gli sussurra aspetta! E poi gli si avvicina e gli dice:”Non preoccuparti, figliolo, sono qui... Adesso, se Charlie vuole farsi sotto, ne avrà due, a cui pensare”. E ora, in prima persona: I said, “well thanks alot”, I told him my name and asked him his e il gigante rispose: “I ragazzi mi chiamano Camouflage”. E poi furono pallottole, pallottole che uscivano dalla boscaglia e fischiavano intorno a noi, ma Camouflage sembrava avere un fuoco negli occhi and it was strange but suddenly I forgot my fears.
Combattemmo tutta la notte, l'uno accanto all'altro, e io mi chiedevo come facessero le pallottole a mancare quell'uomo: sembravano attraversarlo, come se lui non fosse lì. Fino a quando, in the mornin', we both took a chance and ran.
E allora ci mettemmo a correre e corremmo, corremmo, corremmo a perdifiato fino alla riva di un fiume, dove finimmo in un imboscata: e sembrava proprio che la morte mi fosse piombata addosso quando a bullet with my name on it (una pallottola che aveva il mio nome scritto sopra) uscì ronzando da un cespuglio e il gigante la scacciò con la mano, proprio come si scaccia una mosca.
Fu così che Camouflage mi tirò fuori dal pericolo; poi mi accompagnò fino al nostro campo, ma non vi entrò. Lo vidi che mi faceva l'occhiolino dal limitare della giungla e in un attimo era scomparso. Quando giunsi al quartier generale, raccontai della notte che avevo passato nella giungla e della battaglia che avevamo combattuto, io e un marine che si chiamava Camouflage. Come pronunciai quel nome vidi un soldato sobbalzare e poi un ufficiale medico, dopo avermi preso per il braccio, mi guidò a una tenda verde, lì vicino, dove mi disse così: "Forse stai dicendo la verità, ragazzo, ma questo è Camouflage, ed è rimasto disteso qui dentro da quando è spirato, la notte scorsa. Prima di andarsene ci ha detto che il suo unico desiderio era quello di poter salvare la vita a un giovane marine che fosse finito in mezzo al fuoco nemico. Questa è la sua piastrina di riconoscimento. Prendila, figliolo: so che lui avrebbe voluto che la avessi tu, adesso". And we both said a prayer for a big marine named Camouflage.
So next time you're in a jungle fight, and feel a presence near, or hear a voice that in your mind will lodge – just be thankful that you're not alone and you've got some company from a big marine the boys call Camouflage.
Per me, una cosa da brividi.
Provate ad ascoltarla, vi prego: con il testo sottomano (la mia traduzione, vi avverto, è parecchio libera. Anche se, tutto sommato, molto rispettosa. Almeno lo spero...).
Chiudo qui consigliandovi, di Stan Ridgway, almeno Mosquitos, del 1989 – contiene la bellissima A Mission In Life – e Snakebite. Blacktop Ballads Fugitive Songs, del 2004, davvero grande.

lunedì 19 gennaio 2009

Tout casse, tout passe, tout lasse. Et tout se remplace.


Oggi è l'ultimo giorno alla Casa Bianca di George W. Bush.
Dicono i francesi che tutto si rompe, tutto passa, tutto ci lascia. E tutto, alla fine, si rimpiazza.
Adieu, monsieur le Presidént...


P.S.
Arriverà l'ultimo giorno anche per 'sta roba qui sotto, non c'è dubbio. Mi auguro, e auguro a tutti voi, di riuscire a vederlo.

Noi italiani però resteremo, vero? Sempre pronti, sempre disponibili per l'uomo della provvidenza di turno.
Nessuno ci rimpiazzerà.
In Italia non passa mai un cazzo di niente.

sabato 17 gennaio 2009

Com'era, quella?

La clinica privata “Città di Udine” ha deciso di negare il ricovero a Eluana Englaro per consentirle il distacco dalla vita vegetativa che mena da ormai diciassette anni.
Occhio alla spiegazione scritta fornita dalla struttura: “La Casa di Cura Città di Udine comunica di trovarsi costretta a ritirare la propria disponibilità ad ospitare la signora Eluana e l'équipe di volontari esterni”.
Costretta. Forced, direbbero gli anglosassoni.
Riferendosi poi all'atto di indirizzo del ministro Sacconi, che ha bloccato una sentenza definitiva della Cassazione, il Policlinico friulano fa notare come gli approfondimenti condotti nelle ultime settimane portino a ritenere "probabile che, nel caso si desse ospitalità alla signora Englaro per il protocollo previsto, il ministro potrebbe assumere provvedimenti tali da mettere a repentaglio l'operatività della struttura e quindi il posto di lavoro di più di 300 persone, oltre che di quelli delle società controllate, e i servizi erogati alla comunità”.
La decisione della “Città di Udine” è stata presa a maggioranza, e per qualcuno – così scrive la Repubblica – è stato un voto “con la morte nel cuore”.
Secondo l'avvocato degli Englaro, Vittorio Angiolini, “bisognerebbe che il ministro Sacconi facesse conoscere a tutti le minacce rivolte alla clinica ed evidentemente non rese pubbliche, per indurla a tornare sui propri passi, visto che temono addirittura per il posto di lavoro”.
Eh, sì. Penso anch'io: bisognerebbe proprio...
Ma quel miserabile sanfedista di Sacconi col cacchio che ci farà conoscere.
Detto ciò, com'era quella della distinzione (necessaria e doverosa, in un paese come il nostro: nevvero?) tra laicità e laicismo?
Mi pare di ricordare che la laicità fosse una cosa buona e il laicismo invece una cosa mooolto cattiva. Giusto?
Cioè, un conto è essere laici (e tutti sono laici, sapete? Anche la Binetti e la Roccella: tendenzioso chi ne dubita), ben altra cosa è essere laicisti (e questo non sta bene, non sta bene, non sta bene per niente: bisogna aggiornarsi, modernizzarsi!).
Com'era? Mi aiutate?



P.S.
“...ma se avrò un solo momento di vita nell'Italia liberata dai Goti, quest'ultimo momento di vita voglio dedicarlo come individuo libero alla lotta contro la fede cattolica...”.

(Gaetano Salvemini, laicista)

giovedì 15 gennaio 2009

A modest proposal


A proposito del disegno di legge 1360, con cui alcuni parlamentari dell'attuale maggioranza propongono l'istituzione di un Ordine del Tricolore, con relativo assegno vitalizio, a tutti quanti abbiano preso parte alla guerra del 1940-45, inclusi i combattenti delle “formazioni che facevano riferimento alla Repubblica Sociale Italiana” (a fianco della Wehrmacht e delle SS), propongo che, in nome del “superamento di tutti gli steccati ideologici” e “rimarginare le ferite di un passato tragico e cruento nell'interesse dell'intera collettività”, sia istituita un'analoga onorificenza alla memoria per gli italiani che durante le guerre risorgimentali hanno militato nelle forze imperial-regie, papaline e borboniche.



Così il professor Mario Barenghi, Università di Milano Bicocca, sulla rubrica Lettere, commenti&idee de la Repubblica di oggi.
Trattasi di provocazione, ovviamente. Il punto è che in questo povero paese provocazioni del genere possono assomigliare moltissimo all'orizzonte di attesa di qualcuno, oggi come oggi: vedi, ad esempio, quello che è accaduto a Roma, qualche mese fa, alla commemorazione dei fatti di Porta Pia.
Mi dispiace per il professor Barenghi (e pure un po' per me, sapete?), ma lo Zeitgeist, in Italia, a.D. 2009, pretende che la Storia venga pacificata. Chi non si adegua è un immorale, o un sanguinario.
E ha un bel dire Emilio Gentile, grandissimo storico (”ma che vuol dire storia pacificata? La storia condivisa sarebbe possibile solo con una rimozione collettiva delle differenze fra i valori, i principi e gli ideali che hanno diviso gli italiani. Come dire: i combattenti per la libertà e i combattenti contro la libertà sono accomunati dal valore del combattimento, e questo basta a riconoscere la pari dignità dei loro ideali. Una storia così scritta sacrificherebbe la verità storica sull'altare della memoria comune”), ha un bel dire ma io credo che noi italiani siamo ormai pronti, prontissimi, a rappacificarci con Franceschiello: poche storie.

Si attende, tra le altre cose, l'apposita fiction Rai.

mercoledì 14 gennaio 2009

Le grandi domande di tic (n.2)


Ma dove caspita sarà andato a finire il moralista del vaffanculo?



P.S.
E i suoi intelligentissimi seguaci come se la passano?

lunedì 12 gennaio 2009

Tuons le clair de lune!

Il ministro Brunetta ha deciso di celebrare, a modo suo, il centenario del marinettiano Manifeste initial du Futurisme (pubblicato su Le Figaro nel febbraio del 1909).
La solita Repubblica sintetizza così il contributo del nostro ministrino d'avanguardia alle commemorazioni del Futurismo: “Gli statali si vergognano del proprio lavoro, l'orgoglio tornerà con carota e bastone”. Una bomba, Brunetta: converrete senz'altro con me: e BOOOOOOOOM!!! Un motore che rrrrrrrOOOOOMMMMMMba, una frusta che sKIoKKKKKKKKKKa, una sirEEEEEEEEEEEEEEna che vibRRRRRRRRRRRRRRaNNNNNDo uuuuuUUUUUUUUluuuUUUUla. E giù bastonate! Giù bastonate! Bam Bam! BAM BAM BAM!!!
Cazzo voleva fare, Marinetti? Distruggere la sintassi? Abolire l'aggettivo? Abolire l'avverbio? Abolire la punteggiatura? Ecco allora che Brunetta vuole abolire la Cgil, il suo “grande nemico” (ed è stato decisamente simpatico Carlo Podda, segretario della funzione pubblica Cgil, a far notare che se il sindacato si fosse permesso di usare il termine “nemico” nei confronti dello skkkkkkOOOOOOppieTTTTTTTante ministro, lo avrebbero senz'altro accusato di “attentare alla sua sicurezza”).
Com'era quella?
Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell'intelligenza cauta e guardinga bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine.
Ed è ecco che BRRRRRRRRRRRRRRRunetta orchestra da par suo: “Dobbiamo uscire dalla crisi con un paese diverso, dobbiamo instillare il senso di responsabilità con un bastone”. Bam Bam! BAM BAM BAM!!! “E la carota è l'orgoglio”.
Voi tutti che mi avete amato e seguito fin qui, poeti futuristi, foste come me frenetici costruttori d'immagini e coraggiosi esploratori di analogie.
Sì, sì, sì! Uomo-torpediniera. Socialista-Forza Italia. Carota-orgoglio.
Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno segni della matematica.
E BRRRRRRRRRRRRRRRRRunetta è bravissimo, in matematica: “Voglio tirar fuori il 20, 30, 40 per cento di produttività in più”.
Sì! Bam Bam! BAM BAM BAM!!! 20 30 40!!!
“In questi tempi molti lavoratori del privato temono la cassa integrazione, mentre i lavoratori del pubblico non hanno questa paura. Se c'è questo privilegio, sono loro che devono tirare fuori l'Italia dalla crisi”.
20, 30, 40 per cento! Brunetta-premio Nobel. Carota-orgoglio. Pubblico impiego-merda.
Facciamo coraggiosamente il “brutto” in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità.
E BRRRRRRRRRRRRRRRRRunetta (Bam Bam! BAM BAM BAM!!!) fa coraggiosamente il brutto.
Anzi, BRRRRRRRRRRRRRRRRunetta è brutto da sempre. Ma bruttissimo proprio, poareto lu.
Soprattutto dentro.

domenica 11 gennaio 2009

Questo non è un post

Oggi avrei tanto voluto scrivere un post cattivissimo sul leggendario PD.

Ci ho girato intorno per lungo tempo, ma niente: nessun varco che mi si aprisse.
Poi ho pensato di scrivere un post su una canzone moooolto sionista di Bob Dylan, Neighborhood Bully, da Infidels, 1983 (“He's made a garden of paradise in the desert sand...): così, come omaggio faziosissimo allo stato di Israele.

Ci ho girato intorno per lungo tempo, ma niente: nessun varco che mi si aprisse.
Poi mi è venuto in mente che avrei potuto buttar giù un post coltissimo sulle dark ladies più conturbanti della storia del cinema in my opinion, e magari parlare a lungo di Veronica Lake.

Ci ho girato intorno per lungo tempo, ma niente: nessun varco che mi si aprisse.
Poi mi è venuto in mente che avrei potuto parlare di Robert Walser e delle sue camminate.

Ci ho girato intorno per lungo tempo, ma niente: nessun varco che mi si aprisse.
E allora ho preso atto: oggi non è cosa.
Perciò chiudo e vado in salotto a finire di leggere Edgar Quinet, che è meglio.



giovedì 8 gennaio 2009

Somewhere over the rainbow

"Dobbiamo lavorare - dice Fassino - perché la guerra si interrompa immediatamente, al di là delle diverse opinioni che si possono avere sulle cause che hanno portato all'escalation di violenza".
Intende la guerra di Gaza, non quella di Napoli.
In questo preciso momento state pensando che farei meglio a non maramaldeggiare, coglione che non sono altro, sulla tragedia in corso in Medio Oriente, vero?
Beh, sentite questa: “Salito alla ribalta delle cronache durante la campagna elettorale americana, oggetto di discussione tra i candidati durante i faccia a faccia, l'idraulico Joe, più noto come "Joe the plumber" cambia mestiere. Sarà corrispondente di guerra in Israele per il sito conservatore Pjtv.com. Samuel J. Wurzelbacher, questo il suo vero nome, ha detto una tv dell'Ohio, vuole il punto di vista "dell'uomo comune Joe" su quanto sta accadendo in Medio Oriente”.
E qui siamo oltre, amici miei. Oltre.
Somewhere over the rainbow, più o meno.

mercoledì 7 gennaio 2009

Io a questa bandiera voglio bene


E non mi sento in colpa neanche un po'.

martedì 6 gennaio 2009

Parole celebri dalle mie parti (n.50)


"Vi sono tempi nei quali occorre spendere il disprezzo con parsimonia, a causa del gran numero di bisognosi."

(Guy Debord)

lunedì 5 gennaio 2009

The Alamo

Oggi, sulla pagina delle lettere del quotidiano il Piccolo, edizione di Monfalcone, un tizio - dopo essersela presa con il “(fortunatamente) ex assessore alla Cultura Stefano Piredda” (che poi sarei io), reo di “incomprensione e disprezzo” nei confronti “della cultura e della tradizione monfalconese” - scrive che a Monfalcone “per fortuna rimane un manipolo di valorosi che dal Fort Alamo della Pro loco combatte ancora per salvaguardare le nostre tradizioni, la nostra memoria e con esse la nostra identità”.
Io non posso difendermi in alcun modo da certe accuse, che si sappia. Non posso perché esse colgono nel segno. Eccome.
Oddio, forse il “disprezzo” che mi viene imputato è qualcosa di troppo forte (trattasi, insomma, di parola degna di miglior causa).
Devo dire, però, che trovo tutto sommato fondata l'accusa di non aver mai compreso veramente, da cittadino prima ancora che da (fortunatamente) ex assessore, “la cultura e la tradizione monfalconese” nella loro essenza. Di conseguenza, non ho mai potuto coglierne, e apprezzarne, la pregnanza. E dire che vivo a Monfalcone da ormai quarant'anni...
Ma per fortuna un bel manipolone di valorosi, dal Fort Alamo della Pro loco, combatte ancora per salvaguardare le nostre tradizioni, la nostra memoria e con esse la nostra identità di monfalconesi.
Fosse dipeso da gentaglia come me, saremmo già tutti lì a parlare lo swahili.

domenica 4 gennaio 2009

Le figlie di Al Bano e le mezze calzette

L'amaca di Michele Serra su la Repubblica di ieri, sabato 3 gennaio 2009.

Liberazione tesse le lodi di Grand Hotel, «svago per le classi meno abbienti» (un titolo di copertina: “Piangono le figliolette di Al Bano”). E l'altro giorno, sulla Stampa, Walter Siti spara a zero sul «mito della televisione colta», buono per le «mezze calzette». Leggo, capisco o provo a capire le intenzioni, valuto i danni inferti soprattutto a se stessa dalla “sinistra snob”, che un poco di puzza sotto il naso effettivamente ce l'ha. Ma se il rimedio è diventare così cinici da festeggiare il basso profilo, celebrando quei poveri surrogati di cultura che toccano in sorte al “popolo” (e dunque celebrando implicitamente la divisione in classi, la cultura per pochi, la bellezza per pochissimi) preferisco fare un passo indietro e tenermi stretto quel tanto di “snobismo” che mi basta a preferire Filumena Marturano a Mara Venier.
Mi domando, in aggiunta, se sia più snob coltivare il mito di una migliore qualità per tutti, oppure gongolare felici di fronte alla mediocrità (altrui), magari spacciando per raffinata operazione critica la rivalutazione di qualunque sbobba che si possa speziare con due paroline furbe. Più che snob, credo infine che sia soprattutto ingenua la sinistra che ha il mito dei libri e della cultura. E tra ingenuità e cinismo non ho dubbi: meglio la prima.



Leggevo in aereo, tornando nel bel paese là dove 'l sì sona.
Le solite ciàcole da dibbattito de noantri de sinistra, appassionanti e coinvolgenti come una rettoscopia, ma ormai di rito, antico e accettato: perché il popolo non ci ama più? E giù geremiadi. E giù polemiche (tra di noi. Perché resta sempre tutto in famiglia, va detto). E giù a flagellarsi l'un l'altro, preferibilmente sui giornali 'terzisti', quelli dove l'esame del sangue a noantri fighetti de sinistra è da tempo una rubrica fissa: sbagliamo ad arricciare il naso davanti a Grand Hotel (ma davvero esiste ancora, Grand Hotel?), a sputtanare Amici della De Filippi e a schizzare L'isola dei famosi. Così ci rendiamo antipatici al popolo (al quale, come dice un uomo politico molto cinico che, ahimé, un tempo ho molto frequentato, non si dovrebbe mai dichiarare guerra) e sfido poi che il popolo non ci vota.
Cos'ho da dire io, nel mio piccolo (nel mio infimo)? Poca roba.
Intanto, andrò a controllare se Liberazione abbia scritto veramente «meno abbienti». Nel caso, al giornalista responsabile di cotanto scempio posso solo augurare una bella flagellazione: ma reale, non metaforica. Domanda: come cazzo fa, uno di sinistra, a chiamare i poveri «meno abbienti»? Quanto stomaco ci vuole, porca di quella puttana?
Di conseguenza mi viene in mente quello che era solito dire Celeste Negarville, comunista, tra le altre cose primo direttore de L'Unità uscita di clandestinità, nel 1944, e sindaco della città di Torino dal dicembre del '46 all'aprile del '48, e cioè che se “l'istruzione è obbligatoria, l'ignoranza è facoltativa”.

Negarville, come tutti i capi comunisti del tempo che fu (il tempo prima della televisione - colta o non colta per me fa esattamente lo stesso, e mi dispiace un sacco per Walter Siti - quando i comunisti ce l'avevano eccome, un seguito: popolano, oltre che popolare - qualunque cosa possa mai significare 'popolo', beninteso: perché ho forte il sospetto che non significhi proprio un ricco cazzo e solida la certezza che io non saprei mai fornirla a chicchessia, una definizione plausibile di tale parola), Negarville, dicevo, sapeva benissimo che l'ignoranza è una forma di povertà (solo che adesso forse gli ignoranti li chiamiamo meno... meno cosa? Meno colti? Meno informati? Meno sapienti? Ma lo facciamo per non offenderli. Per correttezza politica. A fin di bene, insomma) e che chi è ignorante è spessissimo anche povero, o meglio è povero proprio perché ignorante.
Sapeva, insomma, che i comunisti dovevano combatterla, l'ignoranza: e con ogni mezzo necessario. Adesso invece la sinistra, davanti all'ignoranza... come dire? Prende atto, ecco. Forse perché al popolo c'è già la Maria De Filippi, che ci pensa.
Ecco dunque che un bel pezzo di sinistra politica e partitica se ne sta fuori dal Parlamento e quella che sta dentro (poca roba, in realtà) conta poco o niente.
E' andata così.

P.S.
Mi ricordo di alcune vecchie interviste a Veronica Lario in cui la signora Berlusconi ammetteva senza alcun problema che lei e il marito, ai loro figli, mica gliela facevano guardare, la tivvù. Per la serie: noi la spacciamo e basta, non ci facciamo nemmeno per sbaglio... Perché fa tanto, tanto, tanto male: è dimostrato.
Ma Veronica Lario non è certo popolo. O magari si?

Bilanci

Cose belle a Parigi



Passeggiare insieme ad E. (a Belleville, e da Belleville a place de la République per rue du Fauboug du Temple, per esempio. O al Jardin du Luxembourg, che piace sempre tanto).
Il nostro appartamento in rue de Tolbiac.
Il panettiere da cui compravo i croissants (al burro, rigorosamente) per tutti, ogni mattina alle otto e dieci.
L'Historial Charles De Gaulle agli Invalidi.
Les allèes de Cantemerle. Haut-Médoc. 2004. E tutti i morti in generale.
I gatti samurai, i gatti lottatori di sumo e i gatti robot di Hiro Ando alla Galerie Ariel Sibony, 24, place des Vosges.
Le illustrazioni di Jacques Tardi per Mort à crédit di Cèline: un volume davvero bellissimo, quello di Futuropolis/Gallimard, che adesso rimpiango di non aver comprato ma rimedierò lo giuro (Tardi aveva illustrato pure il Voyage au Bout de la Nuit, a suo tempo. Altrettanto splendidamente).
Il Meteor Slim di Frantz Duchazeau: una delle più grandi storie a fumetti di questi ultimi anni, fidatevi del mio naso. Si spera che qualcuno decida di tradurla (prima o poi. Più prima che poi...) nell'idioma gentil, sonante eccetera, e quindi di pubblicarla pure qui da noi. Una storia da leggere con la colonna sonora di Robert Johnson, o di Son House (e insomma a me piace il blues, lo sapete).
Capodanno sul Pont Neuf.
La mostra sulla Parigi dei Misérables al Museo Carnavalet (e il Museo Carnavalet tutto, sempre e comunque).
Le Futurisme à Paris. Une avant-garde explosive al Centre Pompidou a cent'anni dal Manifesto di Marinetti. Mostra che non vale nemmeno un quarto, comunque, di quella sul surrealismo (La Révolution surréaliste) del 2002. Sarà che il tema mi era più congeniale...
La litografia (originale, stampata da Mourlot...) di Marc Chagall che io ed E. ci siamo assai carinamente regalati (Au Vieux Document. 25, Quai de Grands Augustins. Ci lavora un signore simpatico, che parla un ottimo italiano).




Cose brutte a Parigi

Il freddo.
L'umidità.
Il fatto che la Galerie Frédéric Bosser fosse chiusa, accidentaccio.
Gli acciacchi di tutti noi.
La gamba malandata che mi ha costretto a letto per un giorno (un giorno di sole, per colmo di sfiga).