domenica 30 novembre 2008

L'arte immensa di Billy Wilder



Mi prendo qualche riga per consigliare, a quelli di voi che amano il cinema, un'opera davvero straordinaria uscita in DVD (due DVD, in realtà: dopo vi spiego perché) nel 2006 (ma io me la sò accattata solo un paio di mesi fa): trattasi della storica intervista di Volker Schlöndorff a Billy Wilder.
Che posso dire, di Wilder?
Che è stato uno dei più grandi narratori popolari del XX secolo, innanzitutto.
A testimoniarlo Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944); The Lost Weekend (Giorni perduti, 1945); Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1950); Ace in the Hole (L'asso nella manica, 1951); Sabrina (Id., 1954); The Seven Year Itch (Quando la moglie è in vacanza, 1955); Some Like It Hot (A qualcuno piace caldo, 1959); The Apartment (L'appartamento, 1960); Irma la douce (Irma la dolce, 1963); The Fortune Cookie (Non per soldi... ma per denaro, 1966); The Private Life of Sherlock Holmes (La vita privata di Sherlock Holmes, 1970): ho citato alcune delle pietre angolari (o delle colonne portanti: fate un po' vobis...) del mio immaginario personale, ora me ne rendo conto.
Ma milioni di persone, oltre al sottoscritto, portano nel cuore questi film (e magari hanno avuto la vita cambiata per sempre, da questi film: proprio come è capitato a me) e un motivo ci sarà, ostia. Se il crimine non paga (in Italia paga quasi sempre, in realtà: ma fatemela passare), nemmeno lo snobismo programmatico paga, sapete? E allora condividiamo, umane genti, che condividere è tanto bello (in fondo in fondo...) e qualcosa, forse, resterà.
Billy Wilder (uno di quelli che hanno fatto il Cinema. Punto) si racconta a Schlöndorff per quasi tre ore, con verve impagabile e intelligenza che incanta.
Aveva cominciato a lavorare per Ernst Lubitsch (ebreo come lui, e questo non è un dettaglio senza importanza, vi assicuro: mi piacerebbe soffermarmici un po', ma non posso. Vi rimando perciò a quel libro meraviglioso che è Non solo Woody Allen. La tradizione ebraica nel cinema americano, di Guido Fink) - un cineasta per cui la precisione e l'eleganza (qualità del tutto fuori moda, nel nostro tempo, vero?) erano una religione - e riconosceva l'influsso di Lubitsch sulle proprie opere senza alcun problema: su una parete del suo studio spiccava la frase “How would Lubitsch do it?" (come l'avrebbe girata, Lubitsch?), in caratteri corsivi vergati da Saul Steinberg.
“Vi sono tanti modi di piazzare la macchina da presa e in realtà ce n'è soltanto uno”, sosteneva Lubitsch: e il modo giusto, naturalmente, era il suo, quello di un regista sempre ligio alla regola aurea che si era dato: economicità e concentrazione, nello sguardo come nel racconto.
Dal suo maestro Billy Wilder aveva imparato a parlare per immagini: la sua scrittura perciò era sempre chiarissima, con inquadrature e sequenze senza alcun fronzolo e piani assai eloquenti nella loro assoluta precisione comunicativa.
Arte, senza la presunzione e la sicumera dell'artista. Arte, e se potesse sentirmi Billy Wilder si farebbe senz'altro una bella risata alla facciaccia mia.
Il DVD con l'intervista al maestro lo trovate in un cofanetto Feltrinelli che regala (perché, ad un prezzo di 18,90 euro, di regalo si può senz'altro parlare) un altro DVD (con La fiamma del peccato, non so se rendo...) e pure un libro, Samuel and Billy, con contributi di François Truffaut, Goffredo Fofi, Alessandro Cappabianca, Bruno Fornara, Leonardo Gandini e Guido Fink (tratto dal grande libro di cui vi parlavo prima). Fate di tutto per averlo, Billy, ma come hai fatto?, se (torno a dire) siete di quelli che amano il cinema. Ci trovate aneddoti gustosissimi, retroscena, Jack Lemmon, William Holden, Marilyn, Gloria Swanson, Erich Von Stroheim, Ray Milland, Edward G. Robinson, Audrey Hepburn, il noir, la migliore commedia, le dark ladies, la critica ferocissima all'industria cinematografica e al capitalismo tout court (eh, sì: mica basta un Citto Maselli qualsiasi, per la critica al capitalismo), gli Oscar e la bellezza. Insomma, l'età d'oro di Hollywood. Al suo meglio.
Ite, missa est.

sabato 29 novembre 2008

Let's feed the animal!

Il decreto anticrisi del governo Berlusconi prevede di tassare il porno.
In pratica, chi produce e commercia roba zozza tra un paio di mesi dovrà fare i conti con un'addizionale Irpef del 25%.
Rocco Siffredi insorge: “A Berlusconi consiglio di ripensarci, questa tassa è ingiusta. La sua è una invasione di campo: ma visto che ha buongusto nella scelta delle ministre, allora gli dico che potrei occuparmi io di Mara Carfagna, di Mariastella Gelmini, di Michela Brambilla”.
Immenso, Rocco. Immenso davvero.

giovedì 27 novembre 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.46)


"Non credo in Dio perché non credo a Mamma Oca."

(Clarence Darrow)

mercoledì 26 novembre 2008

C'è chi può e chi non può


Il presidente della Conferenza episcopale spagnola, cardinale Antonio Maria Rouco Varela, dice che “a volte è necessario saper dimenticare”. Il suo bersaglio è Luis Rodrìguez Zapatero, colpevole di aver voluto riaprire vecchie ferite con quella legge sulla “Memoria storica” che promuove e favorisce la ricerca dei resti delle migliaia di desaparecidos del Franchismo e la rimozione di tutte le lapidi e i monumenti dedicati al Caudillo ancora presenti in Spagna (insieme al riconoscimento della nullità delle sentenze emanate dai tribunali della Spagna di Franco e al risarcimento delle vittime della dittatura).
La Conferenza episcopale la pensa in maniera opposta: scurdammoce o' passato, cari fratelli, perché solo così sarà possibile ottenere “un'autentica e sana purificazione della memoria”. E i giovani, ah, i giovani... Sono sempre al centro dei pensieri della Chiesa, i giovani. Che vanno liberati “dagli ostacoli del passato, senza gravarli dei vecchi litigi e rancori”. Zapatero è colpevole di ostacolare la riconciliazione nazionale: la sua politica scriteriata rischia di “dar adito a scontri che potrebbero finire per essere violenti”.
Che ne penso io? Mah, vediamo...
Innanzitutto, mi pare molto convincente quanto sostenuto dal filosofo israeliano Avishai Margalit, secondo cui “indugiare nel passato, per una democrazia, è irrazionale quanto piangere sul latte versato”. Un regime democratico, infatti, “non fonda la propria legittimità sul passato remoto, ma sulle elezioni presenti”.
E, sempre per parlare di israeliani, qui si può senz'altro ricordare che fu il governo presieduto da David Ben Gurion nel 1952 a siglare una pace definitiva con la Germania del cancelliere Adenauer, sfidando l'opposizione feroce della destra guidata da Menachem Begin: a soli sette anni dalla Shoah.
Tanti secoli fa uno storico greco che si chiamava Plutarco disse che la politica è quella tal cosa che serve a togliere all'odio il suo carattere eterno: in questo modo, nel discorso pubblico, il passato viene subordinato al presente. L'esatto contrario di quello che porta a fare l'idolatria della memoria, che invece subordina il presente al passato.
Evidentemente a Ben Gurion non importava nulla dell'idolatria della memoria e invece molto della politica.
Secondo Margalit, l'elaborazione della memoria (e dell'oblio) può avere un effetto benefico: vietare ai contemporanei di rivivere, sotto forma di rancore, le sofferenze inflitte ai loro antenati. Si ha il dovere di ricordare, ma non il dovere di odiare e una comunità non dovrebbe mai cercare nel passato la chiave del proprio futuro: se la memoria diventa un'ossessione, il rischio che si corre è quello di riproporre come attuali dei torti subiti da qualcuno nel passato.
Tutto molto bello, tutto molto giusto, tutto molto saggio, nevvero? Senonché io penso che il cardinale Antonio Maria Rouco Varela, presidente della Conferenza episcopale spagnola, sia una spudoratissima faccia di bronzo. Ha avuto buon gioco a ricordarglielo il numero due del Psoe, José Blanco: “Mi sorprende che chi sta promuovendo canonizzazioni in relazione a persone di quell'epoca (quella della guerra civil, n.d.r.), ora faccia appello all'oblio e al perdono. Non si può cancellare la memoria del nostro paese e alcuni soffrono di amnesia in funzione del fatto che gli convenga o meno”.
A proposito delle canonizzazioni di cui parla Blanco, ricordo solo che il 28 ottobre 2007 c'erano circa 40.000 persone, in Piazza San Pietro, a seguire la cerimonia per la beatificazione di 498 'martiri' spagnoli uccisi negli anni 1934, 1936 e 1937. A presiedere il rito il cardinale Josè Saraiva Martins, delegato dal Papa, che celebrò il rito in castigliano. In Piazza San Pietro c'era anche una delegazione del governo spagnolo, guidata dal ministro degli Esteri Miguel Angel Moratinos accompagnato dall'ambasciatore di Madrid presso la Santa Sede, Francisco Vazquez, e dal direttore generale degli Affari religiosi, Mercedes Rico. Ancora, tra i presenti c'erano i rappresentanti di alcuni governi autonomi della Spagna, tra gli altri quello della Catalogna: 146 dei 'martiri', infatti, furono uccisi nell'arcidiocesi di Barcellona.
I "martiri" caduti durante la Guerra civile spagnola, disse allora il cardinale Saraiva Martins, si sono "comportati da buoni cristiani e hanno offerto la loro vita gridando: viva Cristo Re". Si trattava di preti, monache e religiose ma anche di laici. "Tutti - ha ricordato il Prefetto della Congregazione per le cause dei santi - sono chiamati alla santità, tutti senza eccezioni come ha dichiarato il Concilio Vaticano II".
Il cardinale, nel suo discorso, citò più volte l'altissimo magistero di Benedetto XVI e in particolare ricordò che "essere cristiani coerenti impone di non inibirsi di fronte al dovere di dare il proprio contributo al bene comune e di modellare la società sempre secondo giustizia, difendendo, in un dialogo forgiato dalla carità, le nostre convinzioni sulla dignità della persona, sulla vita dal concepimento fino alla morte naturale, sulla famiglia fondata sull'unione matrimoniale unica e indissolubile tra un uomo e una donna e sul dovere primario dei genitori all'educazione dei figli".
I nuovi beati spagnoli vennero ricordati successivamente anche dal Papa durante la celebrazione dell'Angelus: "I 498 martiri uccisi in Spagna negli anni Trenta del secolo scorso sono uomini e donne diversi per età, vocazione e condizione sociale, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa", disse Benedetto XVI.
"La contemporanea iscrizione nell'albo dei beati di un così gran numero di martiri - sostenne ancora il Pontefice - dimostra che la suprema testimonianza del sangue non è un'eccezione riservata soltanto ad alcuni individui, ma un'eventualità realistica per l'intero Popolo cristiano".
Capite, 'sti signori, che bei tipini sono? Rimproverano Zapatero perché vuole ricordare la guerra civile e le vittime di Franco e però loro ricordano cosa gli pare, come gli pare, quanto gli pare e quando gli pare.
Una volta mi capitò di litigare con un sanfedista del cazzo (uno dei tanti cattolici sedicenti perseguitati nel nostro disgraziatissimo Paese) su 'sta storia delle beatificazioni a raffica di religiosi che ci lasciarono la pelle, poveracci, nella guerra civile spagnola. Ad un certo punto gli chiesi, a brutto muso, se sapeva per quale idea di Spagna avessero combattuto i franchisti. Per spiegarglielo feci qualche esempio, che adesso ripropongo a voi.
Trovate tutto in Paul Preston, La guerra civile spagnola. 1936-1938.



Millàn Astray, direttore della propaganda, incitava i suoi collaboratori a minacciare di morte i giornalisti stranieri. Uno dei suoi luogotenenti era Luis Bolìn, l'uomo che aveva contribuito a organizzare il volo di Franco dalle Isole Canarie al Marocco e che sarebbe in seguito diventato famoso per avere tentato con ogni mezzo di dimostrare che il bombardamento di Guernica era un'invenzione. Un altro era il famigerato capitano Gonzalo de Aguilera, conte di Alba y Yeltes, cui era affidato il compito di illustrare la posizione franchista agli ospiti stranieri. Peter Kemp, un inglese arruolatosi nell'esercito franchista, era convinto che il conte facesse più male che bene alla causa:


Per quanto fosse un amico leale, un critico impavido e un compagno stimolante, mi chiedo a volte se le sue qualità fossero davvero adatte al compito che gli era stato assegnato di presentare la causa nazionalista a importanti personalità straniere. A un distinto visitatore inglese aveva per esempio detto che il giorno in cui era scoppiata la guerra civile egli aveva allineato i braccianti della sua tenuta, ne aveva scelti sei e li aveva fucilati davanti agli altri. «Pour encourager les autres, ovviamente». Aveva idee originali sulle cause fondamentali della guerra civile. Secondo lui, la principale era stata l'introduzione del sistema fognario.

Il capitano Aguilera spiegò la sua teoria sui danni provocati dalle fognature a Charles Foltz, corrispondente della Associated Press, che così riferiva:

Le fogne sono state la causa di tutti i nostri mali. Le masse di questo paese non sono come le vostre in America e neppure come quelle britanniche. Sono bestie da soma. Non servono a nulla se non come schiavi e sono felici solo se usate come schiavi. Ma noi, le persone decenti, abbiamo commesso l'errore di dare loro case moderne nelle città dove abbiamo le nostre fabbriche. Queste città le abbiamo dotate di fognature, fognature che si estendono fino ai quartieri operai. Non soddisfatti dell'operato di Dio, noi ne ostacoliamo la volontà. La conseguenza è che il numero degli schiavi aumenta. Se non ci fossero fogne a Madrid, Barcellona e Bilbao, tutti questi capi dei rossi sarebbero morti in fasce invece di aizzare la plebaglia a spargere sangue spagnolo, di quello buono. Quando sarà finita la guerra, distruggeremo le fogne. Il miglior sistema di controllo delle nascite per la Spagna è quello voluto da Dio. Le fogne sono un lusso che va riservato a chi ne è degno, alla élite della Spagna, non alla schiatta degli schiavi.

A Peter Kemp il conte confidò che i nazionalisti avevano commesso un errore imperdonabile non fucilando tutti i lustrascarpe di Spagna. «Mio caro, è una cosa logica! Un tizio che si accovaccia sulle ginocchia per lucidarti le scarpe al caffè o per strada non può che essere comunista, e allora perché non fucilarlo su due piedi e non pensarci più? Che bisogno c'è del processo? Il mestiere che fa è la prova della sua colpevolezza.»


Ecco. Forse non tutti i franchisti combatterono per questa merda, ma moltissimi, tra i seguaci del Caudillo, senz'altro sì.
Non saprei dire come la pensasse il Cristo Re.
Di certo, essendo un re, Cristo non era repubblicano.





martedì 25 novembre 2008

Promemoria

Allora.
Sono 25.694 gli insegnanti di religione nella scuola pubblica italiana.
Costano, più o meno, 800 milioni di euro all'anno (pagati pure da chi cattolico non è, ça va sans dire).
In aumento costante negli ultimi anni: tra il 2004 e il 2007 sono stati oltre 15mila gli assunti.
Gli studenti che si avvalgono dell'ora di religione cattolica (proprio così sta scritto sulle pagelle della scuola dove il sottoscritto insegna, non me lo sto inventando: religione cattolica), però, sono in calo: nel 2000 erano sul 94 per cento, ora si parla (dati Cei, pubblicati sull'ultimo numero de L'espresso) del 91,2.
Quindi, mentre diminuiva il numero degli studenti 'avvalentisi', aumentava quello degli insegnanti di religione assunti dallo Stato.
Curioso, nevvero?
Ieri il pio Casini (coccolatissimo da un bel po' di bella gente del famoso Partito Democratico: e non solo dagli innumerevoli democristiani del famoso Partito Democratico, che non crediate...) ha dichiarato che “la laicità dello Stato è un principio troppo serio per essere ridicolizzato, come è avvenuto in Spagna”.
'Serio' è la parola, capite?

lunedì 24 novembre 2008

Il Secolo del Jazz al Mart




Ieri mattina, con quella sagoma di mia moglie E., eravamo al Mart, il Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto.
In programma, dal 15 novembre al 15 febbraio, Il Secolo del Jazz. Arte, cinema, musica e fotografia da Picasso a Basquiat, una mostra che esplora i legami tra il jazz e altre forme d'arte: la pittura, la grafica e la fotografia, principalmente.
Una gioia per gli occhi e per la mente, believe me. Assolutamente imprescindibile se, come il sottoscritto, per il jazz (e per il blues. E per l'America...) avete qualcosa di più che un interesse di circostanza.
Sono letteralmente impazzito per le copertine dei dischi in mostra.
Ora, dovete sapere che le copertine disegnate sono arrivate quasi quarant'anni dopo la nascita del disco in vinile. Prima c'erano quelle che venivano chiamate tombstones, pietre tombali: semplici (e anonime) buste.
Fu un grafico di ventitré anni, Alex Steiweiss, ad avere l'idea della confezione accattivante per la musica. Fu lui a disegnare la prima copertina in assoluto per un 78 giri, Smash Song Hits by Rodgers & Hart: fu un successo col botto.
La grafica dei dischi jazz doveva suggerire libertà, ritmo, creatività, fantasia.
“Disegni a inchiostro o ritratti fotografici riprodotti in bicromia (blu, rossi o gialli a tutta pagina); primi piani di volti o di strumenti, fotomontaggi, campiture piatte di colori vivaci; blocchi di testo disposti in forma geometrica, caratteri classici o lineari, calligrafia: l'infinita varietà delle copertine degli anni cinquanta e sessanta. Senza dimenticare il verso, dove si dispongono le note, in colonne più o meno larghe, a volte ornate da un apparato iconografico che integra, o riproduce quello del recto; né la custodia interna, anch'essa in qualche caso stampata. Mentre il dorso spesso degli album a 78 giri, generalmente telato, impediva l'estensione dell'illustrazione di copertina, il sottile quadrilatero a due facce delle nuove copertine costituisce uno spazio nuovo, a completa disposizione della creazione grafica, che infatti si sbizzarrisce a utilizzarlo” (così Catherine de Smet nel bellissimo catalogo della mostra, edito da Skira).
Grandissimi artisti, che furono influenzati profondamente dal jazz (emblematico il caso di Pollock, che non fu scelto a caso da Ornette Coleman per la cover di Free Jazz), al jazz vollero restituire qualcosa: in mostra, per dire, c'è una magnifica serie di copertine di Andy Warhol, anni '56, '57 e '58: e son da vedere...
Diversi grafici, nati nelle scuole d'arte e/o di design, furono molto legati al jazz: è il caso dell'immenso David Stone Martin e dei suoi disegni a inchiostro, a volte “rialzati” con qualche nota di colore, che ritraevano i musicisti dal vivo, in concerto o magari per strada. D. S. M. amava il grande Art Tatum, in particolare, e in alcuni lavori cercò di tradurre visivamente la complessità della sua tecnica strumentale.
E poi, beh, poi c'è il lavoro di Reid Miles per la Blue Note, che è sul serio un mistero: la sua produzione “smentisce brillantemente l'idea secondo la quale, per esercitare questa attività, è necessario amare il jazz: notoriamente poco interessato ai dischi di cui concepiva gli involucri (scambiava gli esemplari che gli venivano regalati con dischi di musica classica), Miles ha comunque contribuito a dare al jazz di quell'epoca il suo caratteristico stile visivo, con una progettazione grafica più ardita e più innovativa di quella della maggior parte dei suoi colleghi” (è ancora la de Smet).
Jim Flora invece, con quel suo stile particolarissimo “alimentato dall'osservazione incrociata di Picasso e dell'arte precolombiana, dei pittori contemporanei messicani e delle espressioni artistiche di vari angoli di mondo”, il jazz lo amava eccome.
Il viaggio tra l'iconografia degli spartiti di jazz e musica popolare in generale tra il 1830 e il 1945, poi, è stato per me davvero entusiasmante: sul serio, non mi ci volevo staccare. Ho invidiato il collezionista e musicologo francese Philippe Baudoin per la miniera d'oro che possiede.
Scrive Baudoin del suo oro in mostra: “Strano mestiere quello degli illustratori di spartiti: artisti senza esserlo, modesti impiegati d'ufficio, questi oscuri disegnatori sono ingaggiati dagli editori musicali per la loro capacità di lavorare rapidamente, da virtuosi, e sono chiamati a cogliere non tanto lo spirito della musica quanto le sue potenzialità commerciali. Eppure, le acrobazie che compiono con i loro tratti di matita e i colori vivaci di cui cospargono le loro pagine li avvicinano al fluttuare delle note che illustrano, specialmente al jazz e alla danza, soggetti particolarmente congeniali a questi illustratori, per i quali non si applica ancora la definizione di grafici”. Ecco allora i black face minstrels alla Jim Crow e i battelli sul Mississippi by the light of the moon, i suonatori di banjo e le enormi balie nere, gli afroamericani dalla grande bocca, dalle grosse labbra e dagli occhi sgranati tra stereotipi caricaturali e storie di ordinario razzismo a cavallo tra Ottocento e Novecento.
E poi gli incroci tra pittura e jazz, da Stuart Davis a Winold Reiss, da Miguel Covarrubias a Archibald J. Motley Jr (suo il Getting Religion, quadro in blue che ha incantato me ed E.), da Reginald Marsh a quel grande cantore dell'America che fu Thomas Hart Benton. E poi Henri Matisse, Piet Mondrian, Elaine De Kooning, George Grosz e mi fermo qui giusto perché devo.
Ci tornerei domani mattina, se potessi, al Mart. Mi consola il catalogo: 42 euro spesi come meglio non si potrebbe.

sabato 22 novembre 2008

L'agrimensore della catastrofe


E' il mestiere di Massimo Bucchi.
Secondo una delle sue ultime vignette (ma le chiamo così solo per comodità. Ovvero per pigrizia) l'importante è dire alla gente semplice cose semplici. Così resta semplice.
Un po' un aforisma, un po' una fucilata.

venerdì 21 novembre 2008

Grandi timonieri



Veltroni rivendica la linearità del suo comportamento sulla vicenda della Vigilanza RAI. D'Alema è ancora in Messico, ma il fido Latorre lo tiene informato. Tonini (braccio destro di Veltroni, secondo la Repubblica) e Bettini (braccio destro di Veltroni, sempre secondo la Repubblica) vogliono il congresso anticipato del partito. Franceschini e Fioroni (“l'anima popolare del partito”, secondo la Repubblica, sempre informatissima) ci diranno cosa ne pensano martedì, giorno in cui è convocato il coordinamento del PD. Ma in quell'organismo non ci sono dalemiani, eh no: “D'Alema fa parte della maggioranza, ma – dice Roberto Gualtieri (non so bene chi sia: probabilmente è il cameriere della trattoria Da Bruto e Cassio, zona Pantheon, a Roma: fanno degli spaghetti cacio e pepe da urlo. Massimo D'Alema ne è ghiottissimo!) - non è stato informato quando si è costituito il coordinamento, si è messo a disposizione ma non ha ricevuto risposte”. Marco Follini invece è amico di D'Alema, ha ottimi rapporti con Nicola Latorre e critica (ma sempre garbatamente, com'è suo costume) Veltroni sulla vicenda della Vigilanza RAI. Intanto sta per essere eletto il leader dei giovani democratici: si terranno a breve le primarie. Il probabile vincitore si chiama Fausto Raciti, da Acireale, 24 anni, ex segretario della sinistra giovanile DS. Uno che alla sua età ha già capito tutto: secondo la solita Repubblica è infatti "vicino a Fassino", in buoni rapporti con Red ma anche con Veltroni, e godrebbe pure del sostegno di ex popolari ed ex Margherita. Ma il Raciti non piace alla Rosy Bindi, il cui candidato alla guida dei giovani democratici si chiama Salvatore Bruno, da Prato, 26 anni.


(nella foto, il gruppo dirigente del PD. A sinistra, con i baffi, D'Alema)

lunedì 17 novembre 2008

Caput mundi


Domani parto per Roma. Accompagno una classe in gita scolastica.
Sarò di ritorno giovedì sera sul tardi.
Se sopravviverò al massacro, ovviamente.

Fuori dal coro

Com'è curioso, il mondo...
Arriva sempre a stupirmi.
Per esempio, mi è capitato di conoscere dei fascisti (sì, proprio dei fascisti) che definiscono le loro idee (vabbè, idee...) “fuori dal coro”.
Incredibili, nevvero?
“Fuori dal coro” in un paese dove il fascismo è sempre stato il coro?


P.S.
Ma l'Italia è pure il paese del Brunetta, che parla di sè stesso come di “un socialista che sta in Forza Italia”.
O dei cattolici che, a tutte le ore del giorno e della notte e a reti unificate, denunciano feroci persecuzioni laiciste e lamentano di essere invisibili.
Forte, essere italiani: non ci si annoia proprio mai.

domenica 16 novembre 2008

Crisi


Comincio a scrivere dopo aver letto, sul quotidiano la Repubblica, della dura presa di posizione del Sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, contro la multinazionale Motorola. Chiamparino, uomo solitamente pacato, si dice “pronto ad incatenarsi di fronte all'ingresso della Motorola”.
Cos'è accaduto?
“In una località dell'Illinois, a Schaumburg, si è riunito il consiglio di amministrazione e ha semplicemente deciso di chiudere tutte le attività non commerciali in Europa”, spiega Chiamparino. Una decisione che sarebbe stata presa in soli due giorni. Il sindaco è furente: “la Motorola ha ingannato la città. Ha ottenuto, in via indiretta, 11 milioni di finanziamenti pubblici, ha goduto di una serie di vantaggi per insediarsi a Torino e nel giro di due giorni ha deciso di chiudere baracca e burattini”. Secondo Chiamparino, “fino alla scorsa settimana i dirigenti locali discutevano con il vicesindaco sulla possibilità di ampliare l'insediamento: chiedevano 2000 metri quadrati in più”.
La chiusura della Motorola, per Torino, significa veder sparire, da un giorno all'altro, 370 posti di lavoro altamente qualificati.

Lo stabilimento Eaton di Monfalcone produce valvole per motori endotermici (a scoppio), sia di scarico che d’aspirazione. La lavorazione si compone di una trentina di passaggi o traguardi di lavoro, ad alta cadenza temporale e precisione, per una produzione giornaliera, su tre turni, di 100.000 valvole teoriche, al netto dello scarto e della ripassatura che si mangia, più o meno, il 5% della produzione. I clienti di Eaton sono FIAT, Volkwagen, PSA (Renault, Peugeot, Citroen), in passato pure Honda, Ford e Toyota.
La produzione annua dello stabilimento di Monfalcone (che conta 340 dipendenti) è di 22/23 milioni di valvole. Eaton, proprio come la Motorola, è una multinazionale (con sede negli USA, a Cleveland). I suoi maggiori azionisti sono dei fondi pensionistici.
La Divisione europea della componentistica, fino al 2006, era composta da uno stabilimento a Montornès, in Catalogna, uno a Nordhausen, in Germania, e quattro in Italia: Bosconero, Rivarolo, Massa e Monfalcone. Tutti siti dimensionati sui 300/400 dipendenti.
Poi, in successione, hanno chiuso lo stabilimento catalano, quello di Rivarolo e (è cronaca dell'ultimo mese) quello di Massa, l’unico che produceva punterie. Secondo il quotidiano La Nazione, a margine delle iniziative sindacali a Massa, Eaton avrebbe dichiarato l'intenzione “di smantellare tutte le aziende che attualmente si trovano sul territorio italiano: oltre alla Eaton apuana, anche gli stabilimenti di Monfalcone (provincia di Gorizia) e di Bosconero (provincia di Torino)”. L’azienda vorrebbe chiudere la sua produzione in Italia: probabilmente per seguire, da un lato, una strategia di delocalizzazione nell'Europa Orientale e, dall'altro, per concentrarsi di più sugli Stati Uniti. Secondo il quotidiano fiorentino tutto questo lo si può leggere pure all’interno del suo sito internet, in uno dei tanti documenti prodotti dall’azienda: “si parla di un preciso piano chiusura per gli stabilimenti italiani”.
A Monfalcone, la mia città, si trema, ma secondo Luca Cuoghi, il responsabile del personale della Eaton in Italia, l'azienda, nel nostro Paese, starebbe chiudendo soltanto lo stabilimento di Massa: “per gli altri non esiste alcun piano di dismissione, non andiamo via dall'Italia, non abbiamo mai dichiarato una cosa del genere. E questo vale anche per la Eaton di Monfalcone. Al sindacato abbiamo detto che c'è uno stato di crisi e la cassa integrazione ordinaria. Ci auguriamo tutti che il mercato riprenda. A fine novembre, prima della chiusura, ci incontreremo nuovamente con i sindacati, faremo il punto su come stanno le cose. Poi vedremo. Non ci sono altre notizie, sono tutte illazioni”.
Non è un illazione, però, la recessione che sta mettendo in ginocchio, in tutto il mondo, il settore dell'automobile. I lavoratori della Eaton di Monfalcone hanno terminato da poco tre settimane di cassa integrazione ordinaria iniziata a settembre. Venerdì 14 novembre la cassa integrazione è ripresa per durare altri 23 giorni. Dal 12 dicembre l'azienda chiuderà fino alla fine dell'anno: niente cassa, solo permessi e ferie.
Fidarsi di quello che dice Cuoghi? A Monfalcone si teme che l'azienda pensi di simulare, fino al penultimo secondo, la massima normalità, per poi comunicare, un secondo dopo, la chiusura dello stabilimento. Un po' come ha fatto la Motorola a Torino. Ad aumentare le preoccupazioni, in queste ultime settimane, una circostanza: sembra che qualcuno si sia imbattuto, in internet, nel curriculum del direttore dello stabilimento. Un caso?

sabato 15 novembre 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.45)


"E' facile indurre la massa a essere d'accordo con te: non devi far altro che essere d'accordo con la massa."

(William Hazlitt)

venerdì 14 novembre 2008

Italicum acetum

Nell'ultimo film di Enrico Oldoini, La fidanzata di papà, Simona Ventura (Simona Ventura, avete presente? Simona dalla bocca larga. Quella Simona lì) diventa “nonna a sorpresa di un bambino nero, da una figlia perfettamente bianca e da un genero altrettanto bianco. Si scoprirà poi nel film, quasi totalmente ambientato a Miami, che lei ha avuto sua figlia Barbara (Martina Pinto) non dal marito ufficiale (Nino Frassica) ma dopo una notte d'amore con un importante uomo di colore. Un uomo così in alto quasi impossibile ormai da contattare. Da qui tanti indizi nel film per far capire che si tratta proprio di Obama, anche se non si fa mai espressamente il suo nome”.
Così il quotidiano triestino Il Piccolo, edizione di mercoledì scorso.
Il protagonista principale dell'ultima (speriamo...) fatica (?) di Enrico Oldoini è Massimo Boldi.
Secondo Il Piccolo, Boldi, che nel film interpreta il padre di Matteo, compagno di Barbara (la figlia, si diceva, di Simona dalla bocca larga), “appena vede il nipote nero appena nato dice con sorpresa: «Ma che gli avete fatto, la lampada? Sembra abbronzato»”.
Tutto vero, parrebbe. Quando si dice il caso...
E visto che è di comici di serie Z, che stiamo discettando, questa è l'ultima del Primo Ministro italiano: “C'è un problema nei rapporti fra l'Occidente e la Federazione Russa, che è stata provocata dallo scudo spaziale. Diciamolo chiaro: consideriamo che ci siano state delle provocazioni alla Federazione Russa con il progetto di collocare missili in Polonia e nella Repubblica Ceca, con il riconoscimento unilaterale del Kosovo e poi ancora con l'accelerazione del processo di entrata di Ucraina e Georgia nella Nato”.
Come linea di politica estera mi pare chiara, una volta tanto: mentre Walter Veltroni tresca con l'abbronzato della Casa Bianca, il Bokassa del Viagra sta con Vladimir Putin.

mercoledì 12 novembre 2008

Solo per te la mia canzone vola



In un libro bellissimo uscito dieci anni fa, Inventario italiano, a proposito di quella tara nazionale che si chiama familismo (“amorale”, secondo l'etichetta del sociologo americano Edward C. Banfield), Antonio Gambino così scriveva:
“Di famiglie (...) ne possono esistere di molti tipi: a cominciare, ovviamente, da quella paterna e patriarcale, che infiniti filosofi (e anche psicologi, si pensi solo a Freud) hanno visto come il luogo originario della formazione del concetto di autorità (o, se si vuole, del super-io), e quindi come il nucleo da cui si sviluppano le successive strutture collettive, della società civile e dello Stato.
Diversa è invece la famiglia che ha il suo centro nella figura della madre: la quale, ergendosi a vestale della conservazione e dell'accrescimento del suo gruppo “naturale”, guarda con sospetto tutto ciò che avviene al suo esterno; o, se proprio lo deve prendere in considerazione, lo fa solo per difendersene, o per usarlo come mezzo del fine più limitato che si è proposta. Con la conseguenza che, più che di una mentalità o sensibilità familiale, appare giusto parlare di una sensibilità o mentalità “materna”, o “maternofamiliale”: nel senso che gli elementi che la caratterizzano non sono quelli della famiglia intesa in modo generico, ma quelli della famiglia come viene interpretata dal punto di vista della madre, della anonima e archetipica figura “materna”.
Tale punto di vista si qualifica, e acquista contorni specifici, proprio attraverso la sua polarità nei confronti di quello “paterno”. Se infatti il “padre”, la figura anch'essa archetipica del Padre, è colui che giudica, che separa il buono dal cattivo, il giusto dall'ingiusto, e quindi anche quello che premia ma contemporaneamente punisce, sulla base di principii che hanno la pretesa della imparzialità e della generalità, e che, infine, fissa programmi e spinge all'azione, la Madre, l'istanza materna, è esattamente il suo opposto: è cioè colei che tiene i suoi “figli” (e tutti coloro che le stanno intorno sono, in qualche modo, suoi “figli”) legati in un unico abbraccio, e che accoglie, ama e, innanzitutto, perdona. O meglio, poiché lo stesso perdono presuppone pur sempre un giudizio, è colei che accetta tutto, non ricorda né meriti né offese, rifiuta ogni idea di distinzione”.
Insomma, secondo Gambino, “mentre l'educazione “paterna” ha come scopo – anche al costo di esporre i figli a qualche immediato rischio o sofferenza – la formazione di esseri umani self-reliant, autoreferenti, e quindi in grado di affrontare le impreviste situazioni difficili dell'esistenza, quella “materna”, tutta diretta alla protezione immediata ed essenzialmente fisica dei figli, e all'eliminazione di ogni forma di loro fatica, oltre a porre le premesse per le molte situazioni spiacevoli che ciascuno di noi ben conosce (bambini petulanti e urlanti, che rifiutano di andare a dormire, e tiranneggiano non solo i genitori ma anche i loro eventuali ospiti), produce, come risultato, individui – e innanzitutto uomini - spesso deboli, portati a coprire con una costante irascibilità e cupezza la loro sostanziale insicurezza, e specialmente tendenti a sottrarsi a ogni precisa assunzione di responsabilità. Insomma, dei “figli di mamma”, secondo la normale accezione di questo termine. I quali però – ed è questo l'aspetto interessante che vale la pena di sottolineare, al fine di evitare ogni ricaduta sul piano di una psicologia puramente individuale – non sono tanto il frutto dello specifico “attaccamento” di un singolo bambino alla sua singola madre quanto dell'influenza e del carattere pervasivo di una struttura mentale collettiva”.


Tutto questo per dire che c'è poco altro da dire: noi italiani siamo un popolo bambino dall'anima prepotentemente mammista. Tutto il nostro amore va alla mamma, una mamma pur che sia (sto parafrasando: se non ve ne siete accorti, date un'occhiata a un certo post qui sotto).
Guardiamoci un po' attorno, dai...
Qualche bambino italiano lo avete conosciuto, no?
In quale altro posto, si è chiesto Raffaele Simone nel suo Il paese del pressappoco, “i bambini sono consumisti e lipidici come in Italia? Dove li si trova già a quattro anni vestiti con giacconi firmati e capaci di spendere soldi da soli, senza neanche domandare il parere di mammà? Dove dispongono disinvoltamente di un telefonino personale? Dove l'esclamazione più diffusa e istintiva è “Mamma mia”? Dove altro i figli vengono accuditi e coccolati fino a trent'anni? In quale paese un genitore che accompagna il figlio a scuola in macchina costituisce un pericolo pubblico per l'estrema brutalità dei suoi comportamenti? Dove i bambini e gli adolescenti sono lasciati urlare, mangiare e scorrazzare senza ritegno in musei, parchi e luoghi pubblici?”.
Io ne ho conosciuti moltissimi, di bambini-mostri (e ho conosciuto pure moltissimi vecchi che avrebbero dovuto essere ammazzati da bambini), figli incolpevoli – povere, povere creature - di genitori-mostri che furono anch'essi, ai loro tempi, dei bambini-mostri: tiranni prepotenti e impuniti, trattati come principi fin dalla culla, mai contrastati in niente, sempre giustificati e perdonati da mamme ferocissime: le erinni mostruose, implacabili, del nostro magnifico carattere nazionale.
E quanto le amiamo, queste mamme terrificanti, noi italiani! Ma quanto...
Pensateci un po' su, volete?
Non viviamo, noi, nel Paese delle madonne? Lo aveva capito benissimo Stendhal, che in Italia la Madonna (la mamma più mamma di tutte: no contest) è “più Dio di Dio stesso”, e che molti italiani credono in Dio solo perché lo considerano “cognato della Madonna”.
Che cittadini possono mai nascere, in un Paese del genere?
O meglio: che cittadini possono mai nascere, da mamme del genere?
P.S.
Qui di seguito, alcuni titoli che possono aiutare a comprendere qualcosa dell'ideologia italiana. A me sono stati utilissimi. A motivare meglio certe mie avversioni istintive, ad esempio. O a precisare meglio certe mie (più o meno radicate) convinzioni.
Antistoria d'Italia, di Fabio Cusin.
L'italiano, di Giulio Bollati.
Paese Italia, di Ruggiero Romano.
Italiani senza Italia, di Aldo Schiavone.
Il mito del bravo italiano, di David Bidussa.
Sono tutti “libri per altri libri”: consentono, cioè, di avvicinarsi ad altri testi (che siano saggi di storia patria, o magari romanzi) con delle chiavi interpretative illuminanti e stimolanti.
E sono pure “libri di libri”: nel senso che dalle loro bibliografie (in alcuni casi davvero ricchissime) ho ricavato molti preziosi consigli di lettura.
Ite, missa est.

domenica 9 novembre 2008

La première dame


"Credo che adesso siamo tutti pieni di speranza, di attesa. Per contrasto, quando sento Silvio Berlusconi prendere l'avvenimento alla leggera, e scherzare sul fatto che Obama è 'sempre abbronzato', mi fa uno strano effetto. Si farà pure dell'umorismo... Ma certe volte sono molto felice di essere diventata francese!".

(Carla Bruni)


P.S.

Allons ! Enfants de la Patrie !
Le jour de gloire est arrivé !
Contre nous de la tyrannie,
L'étendard sanglant est levé !
Entendez-vous dans les campagnes
Mugir ces féroces soldats ?
Ils viennent jusque dans vos bras
Égorger vos fils, vos compagnes.
Aux armes, citoyens !
Formez vos bataillons !
Marchons, marchons !
Qu'un sang impur...
Abreuve nos sillons !

sabato 8 novembre 2008

Mia moglie e Andrea De Carlo


Mia moglie, qualche anno fa, ricevette in regalo, a Natale, Pura vita, di Andrea De Carlo.
"Se non ti piace, lo puoi cambiare, eh... Non farti problemi.", le venne detto.
Dopo aver letto due pagine due del romanzo, la decisione: si cambia, ostia se si cambia!
Ora, siccome il regalo era stato acquistato non in una libreria, ma in un centro commerciale, non è che ci fosse molto da scegliere, per E., tra gli scaffali.
Perciò il povero De Carlo fu scambiato con una lettiera per gatti.
E relativa sabbietta.

venerdì 7 novembre 2008

Un vecchio classico



Prima visita ufficiale di Silvio Berlusconi al neo-presidente degli Stati Uniti d'America, Barack Obama.
Siamo nel salone dei ricevimenti, alla Casa Bianca: abiti da sera, signore ingioiellate, coppe di spumante italiano in onore dell'illustre ospite.
“Ehi, Barack – chiede Berlusconi a un certo punto, dando di gomito al Presidente - ma chi è quello schianto di negra laggiù, con quelle belle labbra da pompini?”
Obama si irrigidisce, inghiotte a fatica lo sdegno e, gelido, sibila: “E' mia sorella...”
“Ma no,
– fa Berlusconi - che hai capito? Io intendevo quella vicino alla finestra. Quella con le tette grosse e la faccia da porca!”
“Quella è mia cognata...”
, replica Obama.
“Ehilallà, stelassa: ma non ci capiamo proprio... Io parlavo di quella bella sgnacchera col vestito rosso. Quella lì!”
“Ahh, quella lì, dicevi...”
“Ma certo, quella! Bonona! Me la presenti? Chi è?”
“Bé, quella è Michelle.”
“Michelle?”
“Si, Michelle.”

“Bella figa davvero. Amica tua?”
“E' mia moglie...”

giovedì 6 novembre 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.44)


"...essere americano (a differenza dell'essere inglese, francese, o di qualunque altra nazionalità) è esattamente saper immaginare un destino invece che ereditarlo; poiché siamo sempre stati, da quando siamo americani, co-abitanti del mito piuttosto che della storia..."

(Leslie Fiedler)



P.S.
Suggestiva, questa, eh?
Sennonché, in Doktor Faustus, Thomas Mann, a proposito dei tedeschi, così scriveva: "Noi siamo un popolo dall'anima potentemente tragica, contrario alle cose prosaiche e consuete; tutto il nostro amore va al destino, un destino pur che sia" (il corsivo è mio).
Uhm... Questo destino...
Comunque, che gli americani abbiano molto trafficato col mito, e specialmente nell'ultimo secolo, a me pare pacifico.

mercoledì 5 novembre 2008

Me and Barack. Music from the soundtrack


Oggi, per me, è stata una di quelle giornate con la colonna sonora.

Al primo posto, A Change Is Gonna Come di Sam Cooke.
Perché è una delle più belle canzoni di ogni tempo e luogo.
Perché Sam Cooke - con Otis e Aretha, naturalmente - è stato il più grande Soul Man di tutti i tempi.
Perché Sam Cooke era uno very, very cool: just like Obama.

There been times that I thought I couldn't last for long/ But now I think I'm able to carry on/ It's been a long, a long time coming/ But I know a change gonna come, oh yes it will.

Al secondo posto, People Get Ready, degli Impressions.
Perché il treno di cui cantava Curtis Mayfield non è stato fermato a Memphis da una pallottola, questa volta.
People get ready, there's a train comin'/ You don't need no baggage, you just get on board/ All you need is faith to hear the diesels hummin'/ You don't need no ticket you just thank the lord.

Al terzo posto, bé, Say It Loud – I'm Black And I'm Proud, del Godfather of Soul.
Perché oggi è il giorno che ogni negro del mondo ricorderà per sempre.

Al quarto posto, Woody Guthrie.
Perché This Land Is Your Land dice che l'America è di tutti, non solo di qualcuno.
E forse è pure un po' mia.
This land is your land, this land is my land/ From California to the New York Island/ From the Redwood Forest to the Gulf Stream waters/ This land was made for you and me.
E se non avete mai sentito come la canta Bruce Springsteen, sappiate che vi siete persi qualcosa.

Al quinto posto, Chimes Of Freedom di Bob Dylan.
Perché è quando vince la speranza che si vedono the chimes of freedom flashing.
Qui di seguito, il testo. E ascoltatela pure nella versione dei Byrds, se potete. Ci si può anche ballare sopra, if you know what I mean...




Far between sundown's finish an' midnight's broken toll
We ducked inside the doorway, thunder crashing
As majestic bells of bolts struck shadows in the sounds
Seeming to be the chimes of freedom flashing
Flashing for the warriors whose strength is not to fight
Flashing for the refugees on the unarmed road of flight
An' for each an' ev'ry underdog soldier in the night
An' we gazed upon the chimes of freedom flashing.


In the city's melted furnace, unexpectedly we watched
With faces hidden while the walls were tightening
As the echo of the wedding bells before the blowin' rain
Dissolved into the bells of the lightning
Tolling for the rebel, tolling for the rake
Tolling for the luckless, the abandoned an' forsaked
Tolling for the outcast, burnin' constantly at stake
An' we gazed upon the chimes of freedom flashing.


Through the mad mystic hammering of the wild ripping hail
The sky cracked its poems in naked wonder
That the clinging of the church bells blew far into the breeze
Leaving only bells of lightning and its thunder
Striking for the gentle, striking for the kind
Striking for the guardians and protectors of the mind
An' the unpawned painter behind beyond his rightful time
An' we gazed upon the chimes of freedom flashing.


Through the wild cathedral evening the rain unraveled tales
For the disrobed faceless forms of no position
Tolling for the tongues with no place to bring their thoughts
All down in taken-for-granted situations
Tolling for the deaf an' blind, tolling for the mute
Tolling for the mistreated, mateless mother, the mistitled prostitute
For the misdemeanor outlaw, chased an' cheated by pursuit
An' we gazed upon the chimes of freedom flashing.


Even though a cloud's white curtain in a far-off corner flashed
An' the hypnotic splattered mist was slowly lifting
Electric light still struck like arrows, fired but for the ones
Condemned to drift or else be kept from drifting
Tolling for the searching ones, on their speechless, seeking trail
For the lonesome-hearted lovers with too personal a tale
An' for each unharmful, gentle soul misplaced inside a jail
An' we gazed upon the chimes of freedom flashing.


Starry-eyed an' laughing as I recall when we were caught
Trapped by no track of hours for they hanged suspended
As we listened one last time an' we watched with one last look
Spellbound an' swallowed 'til the tolling ended
Tolling for the aching ones whose wounds cannot be nursed
For the countless confused, accused, misused, strung-out ones an' worse
An' for every hung-up person in the whole wide universe
An' we gazed upon the chimes of freedom flashing.




P.S.
Post un pelino retorico, nevvero? Ma chissenefrega...
Barack Obama è il Presidente. Il Presidente.